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Io non vado agli spassi delle streghe, io sogno di andarci (Pincinella risponde al cappellano)

(tra quelle che crollano e quelle che non cedono mai …) di mezzo, stanno le molte che cedono e confessano con eloquenza e fantasia, come l’Orsola, la Tessadrella, la Giacoma Vinanti… Queste, io dico, non hanno abbandonato ogni volontà di salvezza. La via di salvezza, se c’era, come sappiamo, nel negare e continuare a negare. Senza confessione non si prova stregheria. Ma esse avevano contro il tribunale che premeva con ogni mezzo per la confessione – e resistere poteva significare la morte prima di ogni sentenza. Tale era, nei suoi nudi termini, la situazione. Il raccontare (a differenza del dire: sì, no, che si faceva nel corso della tortura) si faceva da un’altra parte, con comodo e quindi voleva dire un sollievo contro la violenza che era immediatamente come la morte. Così la volontà di salvarsi si combinava con la disperazione di poterlo fare. E ne nascono racconti. Come nella favola di Sherazade, anche qui succede che la donna racconti per salvare la vita.

La Signora del gioco. Episodi di caccia alle streghe , Luisa Muraro, Feltrinelli, Storia, 1976 (pp.144-145)

SSM (e Il pigiama di Piantedosi)

“un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, p.100 citato da Adriana Cavarero in Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Castelvecchi, 2022 p.55

Il vero scopo della macchina violenta del lager nazista, ma anche degli interventi di Minniti, Salvini, Piantedosi (a favore della criminalità organizzata) “prevale largamente anche sulle finalità economiche di sfruttamento degli internati (o delle persone trasformate in sans papiers) come forza lavoro schiavizzata (…)”.

Generazione dell’aurora

Puzzolente dell’untume della lana dei montoni,, inzaccherata del latte cagliato attorno ai formaggi che gocciolano su graticci, la caverna nella quale dorme il Ciclope, oscura, si difende dagli sguardi: ma il gigante irsuto e selvaggio, da parte sua, vede più e meglio, perché ha un solo occhio, in mezzo, da dove esce un raggio laser. I gabbieri di Ulisse hanno un bel rintanarsi nei cantoni: le zampe villose del mostro li scovano e li portano, palpitanti, a quell’altro suo buco, la bocca insanguinata.
Chi saprà cauterizzare quella luce implacabile? Chi chiuderà questo secondo pozzo a strapiombo della gola? Un uomo chiamato Nessuno. Ha errato attraverso i mari e al largo delle isole per un tempo così lungo da avervi perduto tutto, vascelli e sandali, la tunica, i progetti, al punto che persino il suo nome, ora, lo abbandona. Egli non conta più nulla.
Il mostro guercio chiaroveggente che vede anche in un locale buio, potente come la montagna sotto la quale dorme, porta un nome, che ne esprime insieme molti: Polifemo. Polifemo vuol dire: che parla a profusione, del quale si parla ovunque, aedo, illustre e fertile di argomenti. Egli conta molto. Tutta la sua gloria gli esce dall’occhio. Più ancora, il suo nome comune di Ciclope significa: circolare, occupante tutto lo spazio, in accerchiabile. Distinguendo tutto alla luce dell’occhio circolare e tenendo il linguaggio con la bocca insaziabile, si circonda di pecore e arieti, di discepoli, di ammiratori, di luogotenenti, di soggetti, di schiavi, di facchini fedeli, con il capo chino a terra, esclusi dall’uso dell’intelligenza.
Il lucore unico emanato da un buco alimenta il secondo buco, avido.
Nessuno, l’errante, non ha nome: l’enciclopedista Polifemo disone di centomila parole squillanti o rigorose (in greco polyphemos significa “dalle molte voci”).

Ma chi dunque parla senza sosta, canta ai banchetti, negozia, arringa, maneggia, incontestabile esperto delle lingue? Ulisse. E di chi si parla fin dall’epoca della guerra di Troia? Di lui, cento volte più che dei vincitori e dei ciclopi. Chi naviga circolarmente, visita tutti i mari e le terre conosciute? Lo stesso. Chi non può mai fare a meno dei compagni, di rivali, di corte? Ulisse.
Chi dunque porta il nome del Ciclope Polifemo? Ulisse in persona.
Quando il navigatore cauterizza il gigantesco sguardo, al centro, con lo spiedo aguzzo, egli acceca dunque se stesso. Fora il suo vero occhio, posto tra gli atri due già spenti: l’ombra succede alla luce nel mezzo dei due fuochi. Cancella Polifemo, il suo nome letterario, il soprannome acquistato con la fama, non per adottare un altro nomignolo, ma per rinunciare a tutti: eccolo, invisibile, Nessuno. Lascia la gloria e la potenza, il fuoco e la montagna, gli agnelli belanti, e fugge dall’antro sotto il ventre di un ariete lanoso, inafferrato, non visto. Nessuno lo vede rinascere dal buco nero della grotta, grazie a un parto invisibile e animale.
Egli abbandona la lucidità integrale, la scienza circolare e totale, il dominio del linguaggio, il potere feroce sugli uomini, i titoli enfatici, perde la forza per acquistare l’umiltà: più che bestia, sotto la bestia a quattro zampe e a testa bassa. Nessuno. Eccolo infine scrittore, creatore, artista, o per lo meno sul cammino austero che porta a questo mestiere.
Irsuto, insaziabile, nutrito di carne ovina e umana, perfido, vanitoso, inestinguibilmente dominatore, il primo doppio di Ulisse brucia nell’ebbrezza della gloria, semidio potente che sostiene la montagna, più che olimpico. Il nuovo depone questo scarto, questo rifiuto accecato per rinascere nella caverna mortale con un secondo soprannome cancellato: Polifemo divenuto Nessuno, ecco l’autore autentico, buco assente dell’opera bella. Egli non conta più.
Ha forato anche il suo occhio centrale.
Ulisse, in questo momento, firma l’Odissea.
Dicono che Omero non vedesse. Quale palo bruciato, quale penna aguzza forarono i suoi occhi?
Chi, secondo voi, può riconoscere che il colore rosa dell’aurora accarezza come dita, chi, se non un cieco chiaroveggente?

da Il Mantello di Arlecchino, Michel Serres, Marsilio

I Caporali

I caporali sono, come abbiamo già avuto occasione di notare, una specie di mediatori che s’incaricano di reclutare i lavoratori necessari per le opere della campagna romana (guitti, mietitori, falciatori, tagliatori, coloni, ecc). Anticipano loro le spese di viaggio e parte di quelle del vitto e li conducono sul posto di lavoro.

È una classe molto antica, se ne fa menzione…e non a titoli di lode, in un editto del 15 agosto 1651, firmato dai conservatori Agostino Maffei, Domenico Jacovacci e Fabio Massimi.
“Essendo venuto a notizia, dice l’editto, dell’Illustrissimi Signori Conservatori della Cam. di Roma li grandi aggravi che si fanno da Caporali ed altre persone alli monelli et operaij della campagna romana per li grandi abusi che fin qui si sono osservati da suddetti, con rivender cose commestibili a poveri operaij et monelli con prezzi alterati et di mala qualità senza peso e misura contro l’ordine et forme di bando”(1).

Malgrado questo editto i caporali continuarono allegramente ad angariare i poveri lavoratori in tutti i modi, finché questi non hanno aperto gli occhi e con le leghe, con gli scioperi e simili mezzi si sono imposti ed hanno conseguito notevoli miglioramenti.

(…)

da Usi e costumi della campagna romana. Con disegni di Duilio Cambellotti, Ercole Metalli, NER – Nuova Editrice Romana, 1982

(1) De Cupis, Le vicende dell’agricoltura e pastorizia dell’Agro romano, p. 634

è meglio la luna o la mezzaluna? (il rovescio)

è meglio la luna o la mezzaluna?
Nessuna di esse – dice la luna-
il meglio è ciò che non è –
raggiungilo – cancellerai lo splendore.

Il godimento non è del possesso –
rabbrividisci quando ottieni.
Segue il decomporsi dello slancio –
la sua natura è prisma.

da Le stanze di alabastro, Emily Dickinson, SE Studio Editoriale, trad. di Nadia Campana

Tag aggiunte il 18 marzo 2024

il corpo esibito è l’oggetto impossibile

L’Origine (del mondo) di Gustave Courbet testimonia il limite (o lo scacco) della pittura realistica tradizionale, il cui oggetto finale – mai direttamente e pienamente mostrato, ma sempre abbozzato, presente come una sorta di punto di riferimento sottinteso, che inizia dal Disegnatore della donna coricata di Dürer – era, naturalmente, il corpo femminile nudo completamente sessualizzato come ultimo oggetto del desiderio e dello sguardo maschile.

(…)

Il corpo femminile esibito è, perciò, l’oggetto impossibile che, proprio perché non rappresentabile, funziona come ultimo orizzonte della rappresentazione, la cui apertura è sempre proposta proprio come la Cosa incestuosa di Lacan.

da Il trash del sublime, Slavoj Žižek, Mimesis, a cura di Marco Senaldi