INGRESSO A SOTTOSCRIZIONE LIBERA E SOLO PER GLI OCCIDENTATI (TESSERA ANNUALE GRATUITA)
PRENOTAZIONE NECESSARIA (SOLO 13 POSTI)
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PRENOTAZIONE NECESSARIA (SOLO 13 POSTI)
Nulla mi avrebbe impedito di prendere in affitto una camera in una delle strade tortuose sulle colline di Beyoglu, in riva al mare, e di starmene seduta alla finestra , un piano sopra il cupo suono dei vicoli guardando in basso, giorno dopo giorno, imperturbabile, fino a sera.
(…)
Non avevo una meta precisa, né intendevo un giorno fermarmi, trovar pace, pensare di essere giunta in un paradiso terrestre, perciò tutto questo mi diceva poco. Nel momento stesso in cui ci avvicinavamo a un orizzonte a lungo contemplato, scomparivano il campanile e i campi di grano, si spegnevano le bandiere, le campane tacevano, le donne portavano fazzoletti e gonne ondeggianti di foggia diversa; invece di vitelli bianchi, intenti a pascolare, vedevo bufali indolenti, lucidi come l’olio, distesi nel fango caldo sotto un ponte. Finite le ampie catene di colline e i campi estivi, una strada stretta scendeva lungo il versante di una romantica valle avvolta di ombre gialle, marroni e viola e si inoltrava nel cuore di montagne senza nome.
A cosa mai mi sarebbe servito conoscerne il nome! Una volta in viaggio si dimentica il desiderio di sapere, non si conosce più l’addio né il rimpianto, non ci si chiede più da dove né verso dove si va. Al massimo sono le lancette dell’orologio a dirti che è passata qualche ora e che si è andati ancora più verso est. Con il passare dei giorni diventa sempre più impossibile ritornare e, in fondo, non lo si vuole nemmeno. Strapparsi gli abiti, ammettere che si è andati troppo lontano, che in queste regioni straniere si è come un mendicante, un bambino senza culla, un prete senza chiesa, un cantante senza voce – ammettere che si cerca la sicurezza e si teme di vivere inutilmente? Che si vorrebbe riparare qualcosa, recuperare quanto si è perso?
Non sappiamo di cosa viviamo, come possiamo allora perdere qualcosa e rimpiangerlo? Era già tardi la sera in cui, arrivando a Istanbul, passai, esausta, sotto l’antichissimo arco della porta cittadina: il selciato risuonava, le piccole lampade a olio illuminavano il vicolo del bazar e arrivai infine alle acque scintillanti del Bosforo, che fluivano in silenzio incessante. Allora avrei potuto forse trarre un sospiro di sollievo e credere per un istante di aver raggiunto una meta, di aver ampiamente meritato questo incontro dai mille accenti. Ma poi sarei stata subito assalita da dubbi terribili e mi sarei chiesta se questa era davvero la meta giusta, l’ultima; avrei visto in sogno le cattedrali di altre città e al risveglio ne avrei cercato i nomi altisonanti sui cartelli stradali e sulle cartine geografiche. Il viaggio non richiede alcuna decisione e non mette la nostra coscienza di fronte a scelte che ci rendono colpevoli e pentiti, umili e ostinati fino a farci dubitare di ogni giustizia, pensando che questa nostra vita sia solo un labirinto, una prova fatale. La partenza è liberazione – oh, unica libertà che ci è rimasta!- e richiede solo un coraggio indomito, che ogni giorno si rinnova…
Da Therapia-La via per Kabul 1939-1940, Annemarie Schwarzenbach, Il Saggiatore (regalo di Rocco & Vincenzo della Libreria Simon Tanner di Roma)
(…) nell’era dell’immagine e della simulazione, in un società massificante, sembra dirci Dick, l’unica possibile ricerca della verità si configura come ricerca della memoria. Solo la memoria infatti, garantendo il principio di identità, consente all’uomo di rimanere un soggetto.
da I demoni e la pasta sfoglia, Michele Mari, Quiritta
dedicato a Chris Marker
A Compiègne, anche la donna non ha per poco ricevuto il calcio del fucile in pieno viso. Neppure lei aveva lasciato il suo sguardo diventare opaco, come acqua morta. Si è messa a camminare accanto a loro, sul marciapiede, al passo con loro, come se volesse prendere su di sé una parte, la parte più grande possibile, del peso della loro marcia. Aveva un’andatura altera, malgrado le scarpe con la suola di legno. A un certo momento, ha gridato qualcosa verso uno di loro, ma Gérard non ha potuto sentire. Qualche cosa di breve, forse addirittura una sola parola, quelli che si trovavano alla sua altezza si sono voltati verso di lei e le hanno fatto un cenno con la testa. Ma quel grido, quell’incoraggiamento, o quella parola, qualunque essa fosse, per spezzare il silenzio, per rompere la solitudine, la sua stessa solitudine, e quella degli altri uomini, incatenati a due a due, stretti gli uni agli altri, ma solitari, perché nell’impossibilità di esprimere quel che di comune c’era tra loro, quel grido ha attirato l’attenzione di un soldato tedesco che camminava sul marciapiede, qualche passo davanti a lei. Si è voltato e ha visto la donna. La donna camminava verso di lui, col suo passo deciso, e certamente non distoglieva gli occhi. Camminava verso il soldato tedesco, a testa alta, e il soldato tedesco le ha urlato qualche cosa, un ordine o un’ingiuria, una minaccia, con un viso sconvolto dal panico. Quell’espressione di paura ha sorpreso Gérard, a tutta prima, ma in realtà essa era ben chiara. Qualsiasi avvenimento che non combaci con la visione semplicistica delle cose che si fanno i soldati tedeschi, qualsiasi gesto imprevedibile di ribellione o di fermezza, deve infatti terrorizzarli. Perché evoca istantaneamente la profondità di un universo ostile, che li circonda, anche se la superficie di esso vive una calma relativa, anche se in superficie i rapporti delle truppe di occupazione con il mondo circostante si svolgono senza urti troppo visibili. A un tratto, quella donna che cammina verso di lui, a testa alta, lungo la colonna di prigionieri, evoca al soldato tedesco mille realtà di spari nella notte, di imboscate fatali, di partigiani spuntati dall’ombra. Il soldato tedesco urla di terrore, malgrado il dolce sole invernale, malgrado i compagni d’arme che camminano avanti e dietro di lui, malgrado la sua superiorità su quella donna disarmata, su quegli uomini incatenati, urla e alza il calcio del fucile al viso della donna. Restano qualche secondo faccia a faccia, lui che continua a urlare, e poi il soldato tedesco se ne va in fretta per riprendere il suo posto lungo la colonna, non senza gettare un ultimo sguardo di timore carico d’odio verso la donna immobile.
da Il grande viaggio, Jorge Semprun, Einaudi, trad.di Gioia Zannino Angiolillo
Tutti i treni passano tra le mie mani fumigando
tutti i grandi porti cullano navi per me,
tutte le strade dei viandanti si riversano nelle campagne,
e qui esse prendono congedo; poiché all’altro capo,
lieta di portar loro il mio saluto, vi son io che sorrido.
Se solo potessi afferrare un lembo di questo mondo,
se solo trovassi anche gli altri tre, farei un nodo al fazzoletto,
lo appenderei a un bordone, lo poserei sulla mia spalla,
dentro il globo terrestre con le gote accese di rossore,
con i suoi chicchi marroni e il profumo di mela calvilla.
Grevi tralicci di ferro strepitando scagliano via il mio nome,
una casa ingobbita pedina spiando i miei passi;
immagini lontano smarrite tornano dentro le loro cornici,
la mia tazza di viaggiatrice attinge del cieco la brama
e dello zoppo i desideri, assetata bevo sino all’ultima goccia.
Come aratro immergo le nude braccia lottatrici in mari profondi,
tutto il cielo nel mio occhio luminoso faccio penetrare.
Presto o tardi verrà il momento di fermarmi in silenzio sulla lancetta del tempo,
di ordinare le misere provviste, d’incamminarmi esitante verso casa,
d’esser solo sabbia dentro le scarpe di chi dopo di me passerà.
da Metamorfosi e altre liriche, Gertrud Kolmar, Via del Vento Edizioni, trad.di Stefania Stefani
La Porta dell’inferno, Rodin
Durante l’estate del 1900, pochi mesi prima di morire, Oscar Wilde andò a vedere un’opera d’arte di cui si parlava allora con ammirazione, La Porta dell’inferno di Rodin. Dopo averla contemplata si sarebbe rivolto all’artista non per chiedergli della sua opera d’arte, ma della sua scelta di vita, come se l’eccellenza della scultura lo invitasse a porsi ulteriori domande sul proprio percorso: lui che intendeva condurre la vita nel segno del bello, in che cosa avrebbe sbagliato? Lo scrittore avrebbe chiesto allo scultore: “Com’è stata la Sua vita?. E lo scultore avrebbe risposto:
– Buona.
– Ha avuto nemici?
– Non sono riusciti a impedirmi di lavorare.
– E la fama?
– Mi ha obbligato a lavorare.
– E gli amici?
– Hanno preteso che lavorassi.
– E le donne?
– Ho imparato ad ammirarle lavorando”.
da La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, Garzanti, trad.di Emanuele Lana
Sono poeta – che m’importa,
in sé, della poesia! Se in cielo salisse
la stella del notturno
fiume, non sarebbe bello.
Il tempo scorre lentamente, io non cerco
il latte delle favole, mi disseto
al mondo reale, con spuma
di cielo all’orlo.
Bello bagnarsi alla fonte,
la quiete e il tremolio
si fondono, e si alza sulla spuma
un dolce e saggio chiaccherare.
Gli altri poeti – che me ne importa?-
su fino al petto lordandosi, con false
immagini, con alcooli, l’ebbrezza
fingano, io vado oltre
questa moderna osteria,
fino alla ragione e più in là;
con libera mente non recito la parte
sciocca e volgare del servo.
Possa tu mangiare, bere, dormire, far l’amore!
Misurati con l’universo!
Nemmeno a denti stretti io servo
potenze vili che ci opprimono.
Non c’è compromesso – devo essere felice! Oppure
chiunque potrà oltraggiarmi, rosse
macchie lo denunceranno, la febbre
si berrà i miei umori.
Non chiudo la bocca accusatrice,
mi appello alla ragione. Mi guarda
bevendo il mio secolo, mi pensa
arando il contadino, il corpo
dell’operaio tra due rigidi gesti
mi intuisce, e la sera
presso il cinema mi attende
il ragazzo malvestito.
E dove a schiera inseguono i teppisti
l’ordine delle mie poesie
avanzano fraterni carri armati
a diffondere rombando questi versi.
Ancora non è adulto l’uomo, mi dico. Ma
così si immagina, per questo è smisurato.
L’accompagnino i suoi due genitori
con lo sguardo: l’amore e la ragione.
da Gridiamo a Dio, Attila Jozsef, Guanda
foto di Luca Donnini
Rilke, con il quale la Cvetaeva su questo punto concorda, affermava che per portare a termine la propria missione l’artista deve essere capace di comportarsi con il mondo come san Giuliano l’ospedaliere con il lebbroso: dormire accanto a lui, abbracciarlo, amarlo. Poco importa, qui, se si tratta di un malfattore o di un santo; l’artista deve riconoscersi in lui per poterne rivelare la verità. E’ così che ha agito Puskin quando si è accinto a raccontare la storia di Pugacev, di cui non ignorava che fosse un criminale. Dedicandosi alla propria arte, il poeta deve rinunciare ad atteggiamenti umani, spontanei, per esempio proteggere i propri cari e respingere i nemici. Mosso dal desiderio di voler comprendere tutti gli uomini, il poeta finisce per diventare lui stesso inumano: per dare ascolto alla loro verità, ha accettato di soffocare la voce della propria coscienza.
E’ questa la ragione vera, dunque, sottesa all’impossibilità di arruolare gli artisti al servizio del Bene: il primo dovere che hanno è nei confronti del Vero e, quando i due concetti entrano in conflitto, è l’ultimo a prevalere. Per esempio, Goethe doveva uccidere Werther: “Qui la legge artistica è l’esatto contrario di quella morale (…) In alcuni casi, la creazione artistica è una sorta di atrofia della coscienza, (…) quel vizio etico senza cui non si dà arte”.
(…)
Se l’arte non è altro che la rivelazione del mondo e della vita, non è più possibile, come volevano i romantici nelle loro dichiarazioni programmatiche, contrapporre arte e vita. Cvetaeva batte sempre su questo tasto: il poeta non appartiene a una specie a parte, non esiste una ‘struttura poetica dell’anima’ – la struttura rimane la stessa per tutti, cambiano solamente l’intensità dell’esperienza e la padronanza del verbo. “Il poeta è l’uomo moltiplicato per mille”. Quando si parla con lei di tecnica poetica, Cvetaeva si dichiara incompetente: “è affare degli esperti di poesia. La mia specialità- è la vita”. Il linguaggio è il suo mestiere, ma solo in quanto mezzo – invalicabile – per accedere al mondo: “vivendo attraverso il verbo, disprezzo le parole”. Lo stesso vale per altri artisti che ella approva,come Pasternak: “niente altro che la vita”. Il vero poeta è all’ascolto del mondo, non degli esperti di letteratura; arte e vita devono sottomettersi alle stesse esigenze. Napoleone e Hoelderlin fanno parte del suo Pantheon allo stesso titolo – quello dell’estremo, della potenza del genio. L’arte non può essere separata dalla vita, la vita deve tendere alla legge implacabile dell’arte.
“Il poema, è l’essere: non poter fare altrimenti.”
da La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, di Tzvetan Todorov, Garzanti, 2011, trad.di Emanuele Lana
The very young world, Peggy Bacon, 1928
Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Per il momento, più che cercare la loro definizione, ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo? E tra le due necessità, qual è la più profonda, sorta nei recessi più nascosti della vita umana? Quale la più imprescindibile?
Se il pensiero è nato solo dalla meraviglia, secondo quanto tramandato da testi illustri, non si spiega certo facilmente come ben presto abbia preso forma di filosofia sistematica; non si spiega neanche come una delle sue migliori virtù sia stata l’astrazione, questa idealità conseguita con lo sguardo, sì, ma con un genere di sguardo che ormai ha cessato di vedere le cose. Perché lo stupore che produce in noi la generosa esistenza della vita che ci circonda è tale da non permettere un così rapido distacco dalle molteplici meraviglie che l’hanno suscitato. E proprio come la vita, tale stupore è infinito, insaziabile e non disposto a decretare la propria morte.
da Filosofia e poesia, Maria Zambrano, Pendragon, trad.di Lucio Sessa
Peter Fendi
Comincia, efebo, col percepire l’idea
Di questa invenzione, questo mondo inventato,
L’idea inconcepibile del sole.
Devi tornare l’uomo ingenuo che eri
E vedere il sole con l’occhio ingenuo
E vederlo chiaramente nell’idea.
Non presupporre una mente che crea all’origine
Dell’idea, non creare per quella mente un ingombrante
Padrone avvolto in lingue di fuoco.
Com’è terso il sole se visto nell’idea,
Purificato nella remota chiarità di un cielo
Liberatosi delle nostre immagini e di noi…
La morte di un Dio è la morte di tutti.
Lascia che Febo purpureo riposi nel raccolto ombroso,
Che dorma e muoia in ombre autunnali.
Febo è morto, efebo. Ma Febo non era che un nome
Per dire qualcosa che non poteva essere detto.
C’era un progetto del sole e c’è ancora.
C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,
Non sopporta alcun nome, ma è
Nella difficoltà di ciò che essere è.
da Note verso la finzione suprema-Deve essere astratta, Wallace Stevens, Arsenale Editrice, trad.di Nadia Fusini
xilo di Emilio Mantelli
Per un minuto, per un’ora, il mio amore riesce a ricoprire tutto, tutti: le pietre del selciato, John che piange sul suo sgabello invece di analizzare i suoi errori, David che mi offre un biglietto della metropolitana come se fosse un biglietto per Cipro, strade morte dove non potrebbe succedere nulla, e buie strade vuote piene di un’eccitazione incipiente; potrei perfino prendermi cura di un ego turbolento, essere instancabile, sempre a portata di mano, immensamente cauta.
Quell’uomo, quando glielo domandarono, non seppe dire perché si fosse alzato la mattina.
“Energia vitale? Così la gente penserà bene di me?”
Oh, ma esultare alle strisce pedonali! Sentire il cuore spezzarsi per i chili di troppo di quella grassona!
da Il riconoscimento delle affinità, di Elizabeth Smart