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sulla resistenza

disegno di Alberto Giacometti

Pioggia

Da tre giorni sondavamo il terreno in una nuova area di prospezione. Ognuno di noi aveva la sua fossa da scavare e in tre giorni non avevamo superato il mezzo metro di profondità. Nessuno aveva ancora raggiunto lo strato di terra gelata, la merzlota, benché leve e picconi venissero riparati senza ritardi ogni volta che questo si rendeva necessario, fatto abbastanza insolito: i fabbri non potevano tirare per le lunghe perché la nostra squadra era l’unica al lavoro. E tutto dipendeva dalla pioggia. Pioveva senza sosta da tre giorni e tre notti. Su di un suolo roccioso non è possibile capire se piove da un’ora o da un mese. Una pioggia fredda e sottile. Le squadre accanto alla nostra avevano interrotto il lavoro di scavo da un bel po’ ed erano rientrate alle baracche, ma erano squadre di malavitosi; noi comunque non avevamo neppure la forza per invidiarli.
Il desjatnik, il “caporale”, infagottato in una grande mantella di tela cerata con un cappuccio a punta, si mostrava di rado. I nostri superiori facevano grande assegnamento sulla pioggia, sulle sferzate di acqua diaccia che ci tempestavano la schiena. Da tempo eravamo bagnati fradici, non posso dire fino alla biancheria perché non ne avevamo. Il segreto calcolo dei capo era piuttosto elementare: la pioggia e il freddo ci avrebbero indotti a lavorare. Ma l’odio per il lavoro era più forte ancora, e ogni sera il caporale calava la sua asta graduata di legno nello scavo per poi coprirci di maledizioni. I soldati della scorta ci sorvegliavano tenendosi al riparo di un ‘fungo’, noto elemento dell’architettura concentrazionaria.
Ci era fatto divieto di uscire dalle nostre buche, saremmo stati abbattuti a fucilate. Solo il nostro caposquadra poteva spostarsi da una buca all’altra. Non potevamo neppure gridarci qualcosa l’un l’altro, ci avrebbero sparato addosso. Ce ne stavamo dunque in silenzio, sprofondati fino alla cintola nei nostri pozzi, nelle nostre pozze di pietra che si stendevano senza interruzione, una accanto all’altra, sulla proda di un piccolo corso d’acqua in secca.
Durante la notte i nostri giubbotti non riuscivano ad asciugarsi; casacche e pantaloni ce li facevamo asciugare addosso e al mattino erano solamente umidi.
Affamato e inasprito, sapevo che nessuna cosa al mondo avrebbe mai potuto indurmi al suicidio. Proprio allora avevo cominciato a comprendere l’essenza del grande istinto vitale: una qualità di cui l’uomo è dotato in misura superlativa. Vedevo i nostri cavalli sfinirsi e spegnersi – non posso esprimermi altrimenti, né utilizzare altri verbi. I cavalli non differivano in niente dagli uomini. Il Nord, il lavoro troppo gravoso, il nutrimento scadente, le percosse, ecco cosa li faceva morire; e benché tutto ciò toccasse loro in misura mille volte più lieve degli uomini, essi morivano prima. Fu allora che compresi la cosa più importante, e cioè che l’uomo non è diventato uomo perché creatura di Dio, e neanche perché aveva in ognuna delle due mani quel dito straordinario che è il pollice. Ma anzitutto perché era fisicamente il più forte e resistente di tutti gli animali, e in secondo luogo perché era riuscito a mettere felicemente al servizio del principio fisico il proprio principio spirituale.
Nella mia fossa ripensavo a queste cose per la centesima volta. Sapevo che mai l’avrei fatta finita, perché avevo verificato su me stesso quanto fosse forte l’istinto vitale. Un giorno, lavorando in uno scavo dello stesso genere ma molto più profondo, avevo dissotterrato con il piccone un enorme blocco di pietra. Per molti giorni avevo accuratamente scavato tutt’attorno a quella temibile massa. Da quella massa funesta volevo creare splendide cose – come ebbe a dire il poeta (Mandel’stam). Pensavo di salvarmi la vita rompendomi una gamba. Era veramente un progetto magnifico, un atto squisitamente estetico. La roccia sarebbe franata e mi avrebbe fracassato la gamba. E sarei rimasto invalido per sempre! Questa ardente fantasticheria andava accuratamente organizzata: calcolai il posto dove mettere la gamba, mi figurai il leggero colpo di piccone… e la roccia sarebbe caduta. Misi la gamba destra sotto il masso in bilico e spinsi il piccone che avevo incuneato tra masso e scavo, facendo leva. Il blocco d pietra cominciò a scivolare lentamente lungo la parete dello scavo verso il punto previsto e calcolato. Io stesso non so dire come sia potuto accadere, fatto sta che tirai precipitosamente indietro la gamba. In quello spazio angusto la gamba restò comunque contusa. Due lividi, tre escoriazioni, fu questo tutto il risultato di un’operazione così accuratamente predisposta.
E compresi che autolesionismo e suicidio non facevano per me. Mi restava un’unica risorsa: attendere che al piccolo guaio quotidiano facesse seguito un piccolo momento fortunato e che il grande guaio prima o poi si esaurisse per conto suo. La fortuna più vicina era la fine della giornata lavorativa, tre sorsate di minestra calda, o anche fredda, l’avrei riscaldata sulla stufa di ferro: avevo la mia gamella, un barattolo di conserva di tre litri. E poi avrei chiesto una sigaretta, o piuttosto un mozzicone, a Stepan, il “piantone” della nostra baracca.
In tal modo, rimescolando nel cervello questioni “cosmiche” e piccole inezie, aspettavo, bagnato fino al midollo ma con il cuore in pace. Si può dire che queste considerazioni costituissero una sorta di ginnastica del cervello? Niente affatto. Tutto questo era nell’ordine delle cose, era la vita. Sapevo che il corpo, e quindi le cellule del cervello, ricevevano un nutrimento insufficiente – da parecchio tempo il mio cervello era ridotto a una razione da fame – e che questo si sarebbe immancabilmente tradotto in follia, sclerosi precoce o qualcosa del genere… E mi sorrideva l’idea che non avrei vissuto abbastanza da arrivare alla sclerosi. La pioggia veniva giù a dirotto.
Mi venne in mente quella donna che il giorno prima era passata vicino a noi, sul sentiero, senza badare alle intimazioni dei soldati. L’avevamo salutata e ci era sembrata straordinariamente bella: era la prima donna che vedevamo dopo tre anni. Ci aveva fatto un cenno con la mano, poi aveva indicato il cielo, un angolo del firmamento, e ci aveva gridato: “Manca poco, ragazzi, manca poco!” Le aveva risposto un urlo di gioia. Non l’ho più rivista ma per tutta la vita non ho dimenticato come seppe capirci e consolarci. Indicando il cielo non pensava affatto all’aldilà. No, indicava soltanto che l’invisibile calava verso occidente e che la giornata di lavoro stava per finire. Ci aveva ripetuto a modo suo le parole di Goethe sulle cime dei monti (“Dormono le vette/nel buio della notte/(…)aspetta solo un poco/riposerai anche tu”). E io pensavo alla saggezza di quella donna semplice, che sicuramente era una prostituta o un’ex prostituta (a quei tempi, nella regione altre donne non c’erano, oltre alle prostitute), pensavo alla sua saggezza e al suo grande cuore, e il mormorio della pioggia faceva da eccellente sfondo sonoro a questi pensieri. La grigia riva di pietra, le grigie montagne, il cielo grigio, gli uomini vestiti con abiti laceri e grigi – un tutto morbido, consonante in ogni sua parte. Un tutto che si componeva in un’armoniosa unità cromatica – un diabolica armonia.
E in quel momento si alzò un debole grido dallo scavo accanto al mio. Il mio vicino era un certo Rozovskij, un agronomo di una certa età, la cui notevole competenza scientifica non trovava qui alcun campo di applicazione, al pari delle competenze di medici, ingegneri, economisti. Mi aveva chiamato per nome e io gli risposi senza curarmi del gesto minaccioso che il soldato mi indirizzò da lontano, da sotto il suo fungo.
– Mi ascolti, – gridava, – mi ascolti! Ci ho pensato a lungo! E ho capito che la vita non ha senso…No…
Allora saltai fuori dal mio buco e lo raggiunsi prima che potesse lanciarsi contro i soldati della scorta. Le due sentinelle si stavano avvicinando.
– Si è ammalato, – dissi loro.
In quell’istante ci raggiunse, attutito dalla pioggia, il suono lontano della sirena, e cominciammo a formare i ranghi.
Con Rozovskij lavorai ancora per qualche tempo, finché non si gettò sotto un carrello carico, lungo la discenderia. Aveva messo una gamba sotto le ruote, ma il carrello l’aveva semplicemente saltato, e lui non aveva rimediato neanche un’ammaccatura. Non per questo rinunciarono ad affibbiargli un nuovo delo, ad avviare una causa giudiziaria, per tentato suicidio, venne condannato e ci separammo, perché esiste una regola in base alla quale dopo il giudizio un condannato non viene mai riportato nel luogo di provenienza. Si teme una vendetta a caldo, contro l’inquirente, o i testimoni. È una regola saggia, niente da dire. Ma nei confronti di Rozovskij avrebbero potuto fare a meno di applicarla.

da I racconti di Kolyma, Varlam Šalamov, Einaudi, trad.di Sergio Rapetti, in mio possesso grazie al libraio Federico Fantinel

l’errante

A Compiègne, anche la donna non ha per poco ricevuto il calcio del fucile in pieno viso. Neppure lei aveva lasciato il suo sguardo diventare opaco, come acqua morta. Si è messa a camminare accanto a loro, sul marciapiede, al passo con loro, come se volesse prendere su di sé una parte, la parte più grande possibile, del peso della loro marcia. Aveva un’andatura altera, malgrado le scarpe con la suola di legno. A un certo momento, ha gridato qualcosa verso uno di loro, ma Gérard non ha potuto sentire. Qualche cosa di breve, forse addirittura una sola parola, quelli che si trovavano alla sua altezza si sono voltati verso di lei e le hanno fatto un cenno con la testa. Ma quel grido, quell’incoraggiamento, o quella parola, qualunque essa fosse, per spezzare il silenzio, per rompere la solitudine, la sua stessa solitudine, e quella degli altri uomini, incatenati a due a due, stretti gli uni agli altri, ma solitari, perché nell’impossibilità di esprimere quel che di comune c’era tra loro, quel grido ha attirato l’attenzione di un soldato tedesco che camminava sul marciapiede, qualche passo davanti a lei. Si è voltato e ha visto la donna. La donna camminava verso di lui, col suo passo deciso, e certamente non distoglieva gli occhi. Camminava verso il soldato tedesco, a testa alta, e il soldato tedesco le ha urlato qualche cosa, un ordine o un’ingiuria, una minaccia, con un viso sconvolto dal panico. Quell’espressione di paura ha sorpreso Gérard, a tutta prima, ma in realtà essa era ben chiara. Qualsiasi avvenimento che non combaci con la visione semplicistica delle cose che si fanno i soldati tedeschi, qualsiasi gesto imprevedibile di ribellione o di fermezza, deve infatti terrorizzarli. Perché evoca istantaneamente la profondità di un universo ostile, che li circonda, anche se la superficie di esso vive una calma relativa, anche se in superficie i rapporti delle truppe di occupazione con il mondo circostante si svolgono senza urti troppo visibili. A un tratto, quella donna che cammina verso di lui, a testa alta, lungo la colonna di prigionieri, evoca al soldato tedesco mille realtà di spari nella notte, di imboscate fatali, di partigiani spuntati dall’ombra. Il soldato tedesco urla di terrore, malgrado il dolce sole invernale, malgrado i compagni d’arme che camminano avanti e dietro di lui, malgrado la sua superiorità su quella donna disarmata, su quegli uomini incatenati, urla e alza il calcio del fucile al viso della donna. Restano qualche secondo faccia a faccia, lui che continua a urlare, e poi il soldato tedesco se ne va in fretta per riprendere il suo posto lungo la colonna, non senza gettare un ultimo sguardo di timore carico d’odio verso la donna immobile.

da Il grande viaggio, Jorge Semprun, Einaudi, trad.di Gioia Zannino Angiolillo

 

Tutti i treni passano tra le mie mani fumigando
tutti i grandi porti cullano navi per me,
tutte le strade dei viandanti si riversano nelle campagne,
e qui esse prendono congedo; poiché all’altro capo,
lieta di portar loro il mio saluto, vi son io che sorrido.

Se solo potessi afferrare un lembo di questo mondo,
se solo trovassi anche gli altri tre, farei un nodo al fazzoletto,
lo appenderei a un bordone, lo poserei sulla mia spalla,
dentro il globo terrestre con le gote accese di rossore,
con i suoi chicchi marroni e il profumo di mela calvilla.

Grevi tralicci di ferro strepitando scagliano via il mio nome,
una casa ingobbita pedina spiando i miei passi;
immagini lontano smarrite tornano dentro le loro cornici,
la mia tazza di viaggiatrice attinge del cieco la brama
e dello zoppo i desideri, assetata bevo sino all’ultima goccia.

Come aratro immergo le nude braccia lottatrici in mari profondi,
tutto il cielo nel mio occhio luminoso faccio penetrare.
Presto o tardi verrà il momento di fermarmi in silenzio sulla lancetta del tempo,
di ordinare le misere provviste, d’incamminarmi esitante verso casa,
d’esser solo sabbia dentro le scarpe di chi dopo di me passerà.

da Metamorfosi e altre liriche, Gertrud Kolmar, Via del Vento Edizioni, trad.di Stefania Stefani