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imitazione felice

Secondo la concezione primitiva, quella antica, la rappresentazione di un avvenimento favoloso o meraviglioso dovrebbe essere necessariamente non realistica; secondo la concezione qui seguita, importa l’evidenza della cosa rappresentata, evidenza che non si valuta affatto solo chiedendosi se alcunché di simile si sia mai veduto o sia credibile; noi chiamiamo per esempio imitazione felice della vita un quadro di Rembrandt che raffigura l’apparizione di Cristo a Emmaus, perché perfino chi non crede, colpito dall’evidenza di ciò che vede, è costretto ad accettare l’esperienza del fatto miracoloso.

da Studi su Dante, Erich Auerbach, Feltrinelli, trad.di Maria Luisa De Pieri Bonino

appunti per 24 scatti n.8

Rembrandt possiede un secondo occhio che coglie delle cose, qualunque esse siano, la loro antichità naturale. Coglie quest’aspetto senza volerlo, con una precisione immediata e sfolgorante. Tutto in Rembrandt è antico, come se la vita fosse già avvenuta in quel punto in cui essa si ripete viva per sempre con tutto il tumulto, la sospensione eccitante, l’istantaneità del “movimento”. Non c’è quadro di Rembrandt che non possieda un back-ground, insieme uno sfondo e un’oscurità. Quest’antichità, questa vecchiaia delle cose proviene da un luogo immoto e remoto che le fa essere carnose, viventi, reali nella loro illusione e nella loro essenza tangibile. Questo luogo non può essere che l’oscurità e queste cose non possono essere che la luce.

da Rembrandt, in Falbalas, Cesare Garboli, Garzanti

appunti per Trentasei e dieci vedute n.14

(visione di tutte le configurazioni analoga alla conquista delle visione stereoscopica)

izis bidermanas

In Rembrandt, la rappresentazione dei momenti espressivi si fa più chiara nei disegni e nelle linee appena abbozzate delle acqueforti che nei dipinti

(…)

Il punto di partenza o il fondamento della rappresentazione non è l’immagine, vista dall’esterno, dell’attimo in cui il movimento è giunto al culmine della propria rappresentazione, bensì vi è in esso, a priori, la dinamica di tutta la rappresentazione, come raccolta in unità.

(…)

è come se Rembrandt sentisse tutto l’impulso di una personalità raccolto in un punto, e lo sviluppasse, attraverso tutte le sue vicende e i suoi destini, fino al suo aspetto dato; al punto che, in modo del tutto corrispondente ai singoli movimenti, questo momento apparentemente singolo ci appare come se fosse divenuto tale a partire da un lontano inizio, e avesse concentrato in sé il proprio divenire.

da Studi su Rembrandt, Georg Simmel, Abscondita, a cura di Lucio Perucchi

appunti per Trentasei e dieci vedute n.8

M2

Rembrandt presta il suo volto all’espressione di ogni sentimento, ogni atteggiamento, ogni ruolo. Come aveva già notato Hoogstraten, l’artista tende a rappresentare se stesso nei panni di un altro, come se fosse un attore: è di volta in volta principe e mendicante, vittima e carnefice, incarnazione della gioia e della disperazione. L’onnipresenza dei suoi lineamenti manifesta la dissoluzione dell’io nell’umanità universale più che una fissazione sul proprio io: chiunque, non è più nessuno.

da L’arte o la vita! Il caso Rembrandt, Tzvetan Todorov, Donzelli Editore, trad. di Cinzia Poli

appunti per Trentasei e dieci vedute n.5

Rembrandt Autoritratto con capelli scompigliati 1627 1628

Come nello spettacolo atmosferico di nuvole che cozzano l’una contro l’altra, sopra l’ampio profilo di tre quarti avviene un duro scontro fra chiaro e scuro. Da sinistra un chiarore progressivo si insinua profondamente nelle masse arretranti degli insondabili abissi ombrosi. Con vivida drammaticità Rembrandt articola in varie tappe il processo di conquista dell’ombra da parte della potenza della luce, imponendo così all’osservatore l’impressione di una dinamica graduale e progressiva: mentre sulle labbra e sul mento già si compie il crescente dissolvimento dell’oscurità, di traverso sulla guancia destra i fronti ancora intatti della massa chiara e di quella scura si contrappongono come potenze equivalenti. Ma anche qui l’impeto della luce sta già prendendo il sopravvento, in quanto dalla sporgenza illuminata del naso essa sbarra il passo all’ombra profondamente annidata nell’orbita destra.
L’espressione del volto è immobile e indecifrabile. Gli occhi fissano disorientati davanti a sé. La faccia sopporta pazientemente il gioco d’ombre che l’attraversa.
Alla base di questo autoritratto sta una concezione che non può che essere definita “paesaggistica”. La testa è formata come un paesaggio, e non mi sembra psicologismo azzardato affermare che il senso espressivo di questo volto prigioniero di un’angosciata passività si identifica con quell’inquieto periodo intermedio della natura in primavera, quando un terreno che si sta gonfiando in torpida fertilità attende che la pioggia mattutina faciliti l’affiorare del flusso impetuoso delle sue forze.

da La figurazione fantastica. Studi di iconologia dell’espressione, Wilhelm Fraenger, Esedra Editrice, a cura di Giovanni Gurisatti