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il significatore

collage di Hannelore Baron

 

“Vedete, ‘nella vita’ io facevo il filologo. Avete idea di cosa significa? Significa incontrare un testo grasso, flaccido, pieno di macchie e di impurità, e dirgli: testo, io ti riporterò alla tua verità. Mi seguite?”

“Sì”.

“Allora dovete scegliere gli strumenti più affilati. Le lame della paleografia, la grattugia della recensio, lo squartamento della tradizione nelle nudità dello stemma, l’amputativo tronchese della variantistica: e poi sezionare, eviscerare, potare: e poi prendere dei secchi, delle casse, scavare delle fosse, e metterci dentro tutto quel crassume escerpato, tutta quella schifosa corruzione, ah! Sto male soltanto a pensarci! Insomma, quando avete pulito e asciugato dappertutto siete voi due soli, voi e il testo, perfetto nella sua semplicità originaria, nudo, scheletrico, puro! Avete capito?”

“Sì”.

“No, non potete. Non avete mai fatto un’edizione critica”.

Ancora quel rantolo, ora più gorgogliante. Quando riprese a parlare mi parve più vecchio di quanto avessi immaginato fino a quel momento.

“Anche se non tutto quello che ho detto vi è chiaro, so cosa state pensando: che per mera inerzia analogica io sia passato dai testi agli umani, tentando l’intreccio dei visceri dopo aver saggiato quello delle parole e delle forme”.

“No, no, io non penso niente…”

“Male! Mi avete chiesto perché uccido? In un certo senso è per avere degli interlocutori. Voi entrate in casa mia dopo avermi rotto la finestra, frugate nelle mie tenebre con la vostra torcia indiscreta, e non volete essere mio interlocutore? Mmmmh…penso che non sappiate nemmeno cos’è l’ermeneutica, per cui ve la dirò io. È la scienza dell’interpretare, sommamente decisiva al filologo e al critico. Ora immaginatevi questo: un uomo che per tutta la sua vita sveste e riveste i testi di interpretazioni, che li ruota fra le mani come prismi per trarne sempremai nuove luci, che inventa nuove rubriche ove ascriverli, un uomo che li palpa, i testi, e palpandoli li sente gonfi di tutte le interpretazioni che prima di lui altri uomini han dato loro, interpretazioni cui la sua, sopraggiungendo postrema, conferirà nuovi accenti…I capolavori! Ma siamo noi che li abbiamo fatti diventare tali, leggendoli e rileggendoli, e caricandoli di senso fino a saturarli di storia e di energia, ecco, quando ho capito questa cosa io, il significatore, ho cominciato a chiedermi: e a me chi lo conferisce il senso? Chi mi interpreta?(…)”.

 

Da La serietà della serie in Euridice aveva un cane, Michele Mari, Einaudi

Berenice

Antoine Watteau

 

La sventura ha molti aspetti; la miseria sulla terra è multiforme. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno e i suoi colori sono altrettanto variati, altrettanto distinti eppure strettamente fusi. Domina il vasto orizzonte come l’arcobaleno. In che modo ho potuto trarre un carattere di bruttezza da un esempio di bellezza? Dal sogno dell’amicizia e della pace una similitudine di dolore? Ma come, in morale, il male è la conseguenza del bene, ugualmente, nella realtà dalla gioia nasce l’affanno; sia che il ricordo del passato felice crei l’angoscia dell’oggi, sia che le agonie reali traggano la loro origine dalle estasi che sono state possibili.
Io ho da raccontare una storia la cui essenza è piena di orrore. La sopprimerei volentieri se non fosse piuttosto una cronaca di sentimenti che di fatti.
Il mio nome di battesimo è Egeo, il mio nome di famiglia non lo dirò. Nella regione non c’è castello più carico di gloria e d’anni che il mio vecchio e melanconico maniero avito. Da molto tempo la nostra famiglia aveva nome di una razza di visionari; il fatto è che in molte particolarità notevoli- nel carattere della nostra casa padronale- negli affreschi della gran sala- negli arazzi delle camere- nei fregi dei colonnini della sala d’armi- ma più specialmente nella galleria dei vecchi quadri, nell’aspetto della biblioteca e finalmente nella natura peculiare del contenuto di questa biblioteca- si può trovare di che giustificare ampiamente questa persuasione.
I ricordi dei miei primi anni sono legati unicamente a quella sala e a quei volumi dei quali non parlerò più. Quivi morì mia madre; quivi nacqui io. Ma sarebbe ozioso dire che non ho mai vissuto prima d’allora- che l’anima non ha un’esistenza anteriore. Lo negate?- non discutiamo su questa materia. Io son convinto ma non cerco di convincere altri. C’è, del resto, una rimembranza, di forme eteree, di occhi spirituali e parlanti, di suoni melodiosi e melanconici, una rimembranza che non vuole andarsene; una specie di memoria pari a una ombra,- vaga, trasmutabile, indeterminata, vacillante; e di questa ombra essenziale non potrò mai disfarmene, finché brillerà il sole della mia ragione.
Io nacqui in quella stanza là. Emergendo così di mezzo alla lunga notte che sembrava essere ma non era la, non esistenza, per cadere ad un tratto in una regione fantasmagorica, in un palazzo fantastico- negli strani domini del pensiero e dell’erudizione monastica- non è meraviglia che io guardassi intorno a me no occhio ardente e sbigottito- che abbia consumato l’infanzia fra i libri e prodigato la mia gioventù in fantasticherie; ma quel lo che e strano- quando gli anni passarono e il meriggio della mia virilità mi trovò vivo ancora nella dimora dei miei antenati- quel che è strano è quel ristagno che si produsse nelle sorgenti della mia vita, quella completa inversione che si produsse nelle qualità dei miei pensieri più abituali. Le realtà del mondo agivano su me come delle visioni e solo come visioni, mentre che 1’idee folli del mondo dei sogni divenivano, in compenso, non solo il pascolo della mia esistenza quotidiana, ma effettivamente la mia stessa unica, la mia intera esistenza.
Berenice ed io eravamo cugini e crescevamo insieme nella casa paterna. Ma crescemmo disugualmente: io malaticcio e sepolto nella mia melanconia,- essa agile, graziosa, esuberante di energia; a lei il vagabondare per le colline- a me gli studi da monaco io vivevo nel mio cuore stesso e mi votavo, anima e corpo, alla più intensa, alla più ingrata meditazione- essa errava traverso alla vita, noncurante, senza pensare alle ombre del suo cammino né nella fuga silenziosa del le ore alla nere piume Berenice!- io invoco il suo nome – e dalle grigie rovine della mia memoria su levano a questo nome mille ricordi tumultuosi. Ah, La sua immagine è là, vive dinanzi a me come nei giorni primi della sua spensieratezza e della sua gioia! Oh, magnifica e insieme fantasiosa bellezza! Oh silfide nei boschetti di Arnheim! Oh naiade di quelle fontane! Poi, poi tutto diviene mistero e terrore storia che non vuole esser raccontata. Un male, un male tragico piombo sul suo corpo come il simoun; anzi mentre la contemplavo, lo spirito trasformatore passava su di lei e la rubava a poco a poco, impossessandosi della sua mente, delle sue abitudini, del suo carattere, perturbarlo perfino la, sua fisionomia in modo sottilissimo e terribile. Ahimé! Il distruttore veniva e se ne andava; ma la vittima- la vera Berenice- che e, diventata? Quella lì non la conoscevo o almeno non la riconoscevo più quale la Berenice di un tempo. Nel corteo numeroso di malattie apportate da quel fatale e principale attacco che produsse una rivoluzione così orribile nell’essere fisico e morale di mia cugina, la più tormentosa e la più ostinata era una specie di epilessia che spesso finiva in catalessi- catalessi che rassomigliavano in tutto alla morte, da cui essa, certe volte, si risveglia- va in un modo brusco e improvviso. Nel tempo stesso il mio male- perché mi hanno detto che non potevo denominarlo altrimenti- il mio male aumentava rapidamente i sintomi erano aggravati dall’uso dell’oppio; e finalmente prese il carattere di una monomania di nuovo genere e mai vista. Ogni ora, ogni minuto, guadagnava in energia e alla fine conquistò su me il più strano e il più incomprensibile potere. Questa monomania, se devo servirmi di questo vocabolo, consisteva in una morbosa irritabilità delle facoltà dello spirito che il linguaggio filosofico comprende sotto il nome di “facoltà di attenzione”. È più che probabile che non sia capito; ma in verità, temo di non poter dare in nessun modo alla più gran parte dei lettori un’idea esatta di questa intensità d’interesse per la quale, nel caso mio la facoltà meditativa- eviterò il linguaggio tecnico – si applicava e si sprofondava nella contemplazione delle cose le più banali di questo mondo.
Riflettere infaticabilmente per ore ed ore, inchiodando l’attenzione su qualche puerile citazione in margine o nel testo di un libro- restare assorto per quasi tutta una giornata, d’estate per un’ombra bizzarra che si allungava obliqua mente sugli arazzi o sul pavimento- dimenticare tutto per una intera notte nel sorvegliare la fiammella diritta di un lume o la brace del caminetto- sognare giorni interi sul profumo di un fiore- ripetere in una maniera monotona qualche parola volgare fino a che il suono a forza d’esser ripetuto, non rappresenti più allo spirito nessuna idea- perdere ogni coscienza di movimento e di esistenza fisica in un assoluto riposo prolungato ostinatamente- queste erano alcune delle più comuni e perniciose aberrazioni delle mie facoltà mentali, aberrazioni che certamente non restano del tutto senza esempi, ma che certamente sfidano ogni spiegazione e ogni analisi. Anzi mi spiego meglio. L’anormale, intensa, morbosa attenzione eccitata così da oggetti in se stessi frivoli, non e di natura tale da confondersi con quella inclinazione al fantasticare che è comune a tutta umanità, a cui si abbandonano sopratutto le persone di ardente immaginazione.
Non solamente non era, come si potrebbe supporre a prima vista, un termine remoto, un’esagerazione di quell’inclinazione, ma anzi n’era differente per origine e per qualità. Nell’un caso il sognatore, l’uomo immaginativo occupato da un oggetto generalmente non frivolo, perde a poco a poco di vista il suo oggetto attraverso un’infinità di deduzioni e suggestioni che ne scaturiscono fuori, cosicché in fondo ad una di queste meditazioni spesso piene di voluttà si accorge che l’incitamentum o causa prima delle sue riflessioni è completamente svanito e dimenticato. Nel caso mio invece il punto di partenza era sempre banale sebbene assumesse un’importanza immaginaria e di rifrazione, traversando il campo della mia visione malata. Io facevo poche deduzioni- se pure ne facevo, e nel caso, esse tornavano ostinatamente all’oggetto principale come a un centro. Le meditazioni non erano mai piacevoli; e alla fine del sogno la causa prima lungi dall’essere fuori questione aveva raggiunto quell’importanza straordinariamente esagerata che era il tratto dominante del mio male. In poche parole la facoltà dello spirito, in modo speciale acuita in me era, come dissi, la facoltà dell’attenzione, mentre che nel sognatore comune quella della meditazione.
In quel tempo i libri se non mi servivano proprio a irritare il male, partecipavano ampiamente come si può capire, nel loro carattere immaginativo e irrazionale, delle qualità peculiari del male stesso. Mi ricordo bene, fra gli altri del trattato del nobile italiano Celio Secondo Curione, Della grandezza del felice regno di Dio; la grande opera di S. Agostino, La Città di Dio e Della carne del Cristo di Tertulliano, il cui inintelligibile detto: credible est quia ineptum est; sepultus resurrexit, certum quia est quia impossibile est– assorbì esclusivamente tutto il mio tempo, per più settimane di una laboriosa e infruttuosa investigazione.
Senza dubbio più d’uno concluderà che la mia ragione, scossa nel suo equilibrio da certe cose insignificanti, offriva una certa somiglianza con quella rocca marina di cui parla Tolomeo Efestio che resisteva immutabilmente a tutti gli attacchi degli uomini e al furore più terribile delle acque e dei venti e che fremeva al tocco del fiore chiamato asfodelo. A un giudice superficiale parrà semplicissimo e fuor di dubbio che la terribile alterazione prodotta della condizione morale di Berenice dalla sua malattia dovesse fornirmi più di una occasione ad esercitare questa intensa e anormale meditazione di cui a grave fatica ho potuto definirvi la qualità. Ebbene le cose non stavano punto in questo modo. Nei lucidi intervalli della mia infermità, la sua sventura mi cagionava è vero molto dolore; quella rovina totale della sua bella e dolce esistenza mi pungeva acutamente il cuore; io riflettevo spesso e amaramente sul modo misterioso e strano nel quale aveva potuto prodursi una si rapida trasformazione. Ma queste riflessioni non avevano il colore proprio del mio male ed erano uguali a quelle che in circostanze analoghe si sarebbero presentate alla massa comune degli uomini. Quanto alla mia malattia, fedele al suo carattere, si faceva un pascolo dei cambiamenti meno importanti ma più visibili, che si manifestavano nell’organismo fisico di Berenice- nella strana e spaventevole distorsione del suo aspetto. È certissimo che nei giorni più luminosi della sua incomparabile bellezza io non l’avevo amata. Nella strana anomalia della mia esistenza, i sentimenti non mi sono mai venuti dal cuore e le mie passioni mi son sempre venute dallo spirito. Traverso alla pallidezza del crepuscolo- a mezzogiorno fra le ombre intrecciate della foresta- e la notte nel silenzio della mia biblioteca- essa mi era passata oltre gli occhi e io l’avevo vista, non come la Berenice vivente e respirante, ma come la Berenice di un sogno, non come un essere della terra, un essere carnale, ma come l’astrazione di un tal essere; non come una cosa da ammirare ma da analizzare, non come oggetto di amore, ma come il tema di una meditazione tanto astrusa quanto anormale. E ora, ora tremavo al suo cospetto, impallidivo al suo avvicinarsi; intanto sebbene lamentassi amaramente la sua triste condizione di deperimento, mi ricordai che essa mi aveva amato lungamente e, in un momento infelice, le parlai di matrimonio. Il tempo fissato per le nostre nozze si avvicinava quando un pomeriggio d’inverno- una di quelle giornate nebbiose che preparano la febbre al cuore- mi sedei credendomi solo nella stanza della biblioteca. Ma, alzando gli occhi, vidi Berenice dinanzi a me.
Fu la mia immaginazione sovreccitata, o l’influsso dell’atmosfera brumosa o la veste oscura, che avvolgeva la sua persona, che le diede quel contorno così tremante e indeciso? Non potrei dirlo. Forse dopo la sua malattia era cresciuta. Essa non disse una parola; e io non avrei pronunziato una sillaba per nulla al mondo. Un brivido gelato mi corse il corpo; una sensazione di angoscia insopportabile mi opprimeva; una curiosità divorante s’introdusse nel mio animo; e appoggiandomi riverso sulla poltrona rimasi un po’ di tempo senza moto e senza respiro cogli occhi inchiodati sulla sua persona. Ahimé era estremamente smagrita; dell’essere di una volta non era sopravvissuto vestigio né era rimasto neppure un lineamento. Finalmente i miei sguardi caddero sulla sua faccia. La fronte era alta, pallidissima e supremamente serena; i capelli, una volta di un nero corvino la coprivano in parte e ombravano le tempie incavate colle fitte anella, ora di un biondo caldissimo; e quel tono capriccioso di colore stonava dolorosamente colla malinconia dominante sulla sua fisionomia. Gli occhi erano senza vita e senza splendore, come senza pupille, e involontariamente io distornai lo sguardo da quella vitrea fissità, per contemplare le labbra affinate e aggrinzite. Esse si aprirono e in un sorriso stranamente espressivo i denti della nuova Berenice si rivelarono lentamente alla mia vista. Non li avessi mai guardati o fossi io morto subito dopo averli guardati.
Una porta chiudendosi mi scosse e, alzando gli occhi, vidi che mia cugina era uscita dalla camera. Ma nella camera sconvolta del mio cervello lo spettro bianco o terribile dei suoi denti restava e voleva andarsene più. Non una scalfittura, sulla superficie di quei denti, non un’ombra sul loro smalto, non una punta su quel sorriso passeggero non fosse bastato a imprimere nella mia memoria. Anzi li vidi allora più nettamente che non poco prima. Quei denti! quei denti!- Essi erano qui- poi là, per tutto- visibili palpabili, dinanzi a me; lunghi stretti e bianchissimi, colle labbra pallide che si torcevano intorno, orribilmente tese, com’erano poco prima. Allora sopraggiunse la furia piena della mia monomania ed invano lottai contro la sua irresistibile influenza. Nella massa infinita degli oggetti del mondo esteriore, non avevo pensiero che per i denti. Tutte le altre cose, tutte le alterazioni diverse furono assorbite in quella unica contemplazione. Essi, essi soli, eran presenti all’occhio del mio spirito e la loro esclusiva individualità divenne il fulcro della mia vita intellettuale. Io li guardavo sotto tutte le luci; li volgevo in tutti i sensi; studiavo le loro qualità; osservavo i loro segni particolari; meditavo sulla loro conformazione. Riflettevo sull’alterazione della loro natura. Rabbrividivo attribuendo loro nella mia immaginazione una facoltà, di sensazione e di sentimento e anche, senza neppure il concorso delle labbra, una potenza d’espressione morale. Fu detto eccellentemente della signorina Sallé che tutti i suoi passi erano dei sentimenti e di Berenice io pensavo seriamente che tutti i denti erano delle idee.- Delle idee!- ah! ecco il pensiero assurdo che mi ha perduto!! Delle idee! ah! ecco dunque perché li desideravo così pazzamente! Sentivo che solo il loro possesso poteva restituirmi la pace e ripristinare la mia ragione. E la sera cosi discese su di me- e le tenebre vennero, si fissarono e poi se ne andarono- e una luce nuova comparve e le nebbie di una seconda notte si agglomerarono su di me- ed io ero sempre immobile in quella camera solitaria, sempre seduto, sempre sepolto nella mia meditazione, o sempre il fantasma dei denti manteneva la sua influenza terribile a tal punto che io la vedevo fluttuare qua e là e traverso la luce e le ombre cangianti della camera, colla più viva e la più orrida limpidezza. Finalmente in mezzo ai miei sogni scoppiò un gran grido di dolore e di spavento al quale successe dopo una pausa, con suono di voci desolate, intramezzato da gemiti sordi di dolore e di lutto. Io mi alzai e aprendo una delle porte della biblioteca trovai nell’anticamera un servo piangente che mi disse che Berenice non viveva più! Era stata presa dall’epilessia nella mattinata; e ora, sul cader della notte, la fossa aspettava la futura abitatrice e tutti i preparativi del seppellimento erano terminati.
Il cuore grave di angoscia, oppresso da sbigottimento, mi diressi con una certa ripugnanza nella camera da letto della defunta. La camera era vasta e oscura e ad ogni passo inciampavo nei preparativi della sepoltura. Le cortine del letto, mi disse un domestico, erano chiuse intorno alla bara, e dentro a questa bara, aggiunse o, voce bassa, giaceva tutto quel che restava di Berenice. Chi fu dunque che mi domandò se volevo rivedere il corpo? – Io non vidi che nessuno muovesse le labbra; eppure la domanda era stata proprio fatta e l’eco dell’ultime sillabe strascicava ancora nella camera. Era impossibile opporsi e con un senso di oppressione mi trascinai accanto al letto. Sollevai adagio il cupo panno dello cortine, ma nel lasciarle ricadere discesero sulle mie spalle e separandomi dal mondo vivente mi chiusero nella più stretta comunione colla defunta. Tutta l’atmosfera della camera sapeva di morte; ma l’odore particolare della bara mi faceva male, e mi pareva che un odore deleterio esalasse già dal cadavere. Avrei dato l’oro del mondo per scappare, per fuggire il pernicioso influsso della morte per respirare ancora 1’aria pura dei cieli immortali. Ma non avevo più la forza di muovermi; i ginocchi mi vacillavano; avevo preso radice nel suolo, guardando fissamente il cadavere rigido, steso in tutta, la sua lunghezza nella bara aperta. Dio del cielo! è mai possibile? Il mio cervello delira? o il dito della defunta si è mosso sotto la tela bianca che lo chiude? Tremando di un terrore indescrivibile alzai gli occhi lentamente per vedere la faccia del cadavere. Avevano messo una benda intorno alle mascelle, ma non so come si era sciolta. Le labbra livide si torcevano in una specie di sorriso e traverso alla loro melanconica cornice i denti di Berenice bianchi, lucenti terribili mi guardavano ancora con una realtà troppo viva. Io mi scostai convulsamente dal letto e senza dir parola mi slanciai come un maniaco fuor di quella camera di misteri, di orrore e di morte.

Mi ritrovai nella biblioteca, ero e solo. Mi sembrava di uscire da un sogno confuso ed agitato. Vidi che era mezzanotte ed io avevo preso le mie precauzioni perché Berenice fosse sepolta subito dopo il tramonto. Ma di quel che accadde durante quel lugubre intervallo non ho conservato memoria certa né chiara. Pure la mia mente era ingombra di orrore, tanto più orribile quanto più vago, di un terrore che l’ambiguità rendeva più spaventoso. Era come una pagina paurosa nel registro della mia esistenza scritto interamente con ricordi oscuri, orrendi e inintelligibili. Mi sforzai di decifrarli, ma invano. Pure di tanto in tanto simile all’anima di un suono fuggevole, un grido sottile e penetrante- come voce di donna- mi sembrava che si ripercuotesse nelle mie orecchie. Io avevo fatto qualche cosa, ma che cos’era mai? Io mi rivolgevo la domanda ad alta voce e gli echi della camera mi bisbigliavano per tutta risposta: Che era mai? Sulla tavola accanto a me ardeva una lampada e accanto c’era una piccola scatola di ebano. Non era una scatola di stile notevole e l’avevo già vista più volte perché apparteneva al medico di famiglia; ma come mai era venuta lì, sulla tavola, e perché mi venivano i brividi a guardarla? Eran cose che non valeva la pena di attrarre l’attenzione; ma gli occhi mi caddero alla fine sulle pagine aperte di un libro e su una frase sottolineata. Erano le parole bizzarre, ma molto semplici del poeta Ebn Zaiat:

Mi andavan dicendo i compagni miei che se avessi visitato il sepolcro dell’amica i miei affanni sarebbero alquanto allievati.

Perché mai dunque a leggere quelle linee mi si rizzarono i capelli sulla testa e il sangue mi si ghiacciò nelle vene? Un colpo fu battuto alla porta, e un servo, pallido come un cadavere, entro sulla punta dei piedi. Aveva gli occhi sconvolti dallo spavento, e mi parlo con voce bassissima, tremante, soffocata. Che mi disse? Io sentii qualche frase qua e là. Mi raccontò, sembra, che un grido spaventoso aveva turbato il silenzio della notte, che tutti i domestici si eran riuniti, e che avevan cercato nella direzione del suono, poi la sua voce bassa divenne chiara in modo da darmi i fremiti parlandomi di violazione di sepoltura, d’un corpo sfigurato, spogliato del lenzuolo, ma che ancora respirava e palpitava, che viveva ancora.
Mi guardò i vestiti; erano imbrattati di fango e di sangue aggrumato. Senza far parola mi prese dolcemente per mano; la mia mano aveva delle impronte di unghie umane. Poi richiamò la mia attenzione sopra un oggetto appoggiato al muro, lo guardai qualche minuto. Era una vanga. Mi gettai con un grido sulla tavola ed afferrai la scatola di ebano, ma non ebbi la forza di aprirla e nel tremito mi sfuggì di mano, cadde pesantemente e andò in pezzi; ne uscirono rotolando con fragore di terraglia degli strumenti da dentista e con essi trentadue piccole cose bianche, simili ad avorio, che si sparpagliarono qua e là sul pavimento.

da Racconti straordinari, Edgar Allan Poe, Bemporad, 1911, trad.di G.A.Sartini

warum sind Sie hier? das ist die Frage

E sono io che devo fare la domanda: warum sind Sie hier? perché la mia situazione è privilegiata. In confronto a questo soldato tedesco, e per quanto riguarda le domande da fare, la mia situazione è privilegiata. Perché l’essenza storica comune a tutti noi in quest’anno 1943 che ci facciamo arrestare, è la libertà. E nella misura in cui partecipiamo di questa libertà ci assomigliamo, ci identifichiamo, noi che possiamo essere tanto dissimili. E nella misura in cui partecipiamo di questa libertà ci facciamo arrestare. Perciò è la nostra libertà che bisogna interrogare, non il nostro stato di arresto, la nostra condizione di prigionieri. Naturalmente, lascio da parte quelli che fanno la borsa nera e i mercenari delle formazioni. Per loro l’essenza comune è il denaro, non la libertà. Naturalmente, non pretendo che partecipiamo tutti nello stesso modo di questa libertà che ci è comune. Alcuni, e sono certamente molti, partecipano casualmente di questa libertà. Forse hanno scelto liberamente la resistenza, la vita clandestina, ma da allora si limitano a vivere le conseguenze di questo atto libero. Hanno accettato liberamente la necessità di entrare nella resistenza, ma da allora vivono nella routine determinata da quella libera scelta. Non vivono la loro libertà, ci si addormentano. Ma non si tratta, adesso, di esaminare tutti i particolari e le vicende del problema. Della libertà parlo solo incidentalmente, è il racconto di quel viaggio che mi prefiggo. Ci tenevo solo a dire che alla domanda del soldato tedesco di Auxerre: warum sind Sie verhaftet? è possibile una sola risposta. Sono in prigione perché sono un uomo libero, perché mi sono trovato nella necessità di esercitare la mia libertà, perché non ho rifiutato questa necessità. Così egualmente, alla domanda da me fatta alla sentinella tedesca, in quel giorno di ottobre: warum sind Sie hier? e che tutto sommato è una domanda assai più grave, non c’è che una sola risposta possibile. E’ qui perché non è altrove, perché non ha sentito la necessità di essere altrove. Perché non è libero.

da Il grande viaggio, Jorge Semprun, Einaudi, trad. Gioia Zannino Angiolillo

 

(libro consigliatomi dal libraio Federico Fantinel e rubato al librajo Dario Sutter)

once upon a time…


Notte a Piazza Nuova, Aldo Burattoni

Once upon a time, her house was the spit of mine.

Men fall for terrible weirdos in a dumb way more and more as they get older; my old man, fond of me as he constantly was, often did. I never give it the courtesy of my attention.

For here we are in the present, which is happening now, and I am a famous widow babysitter for whoever thinks I am unbalanced but within reason. I am a grand storybook reader to the little ones. I read like an actress, Joan Crawford or Maureen O’Sullivan, my voice is deeper than it was.

da Enormous changes at the last minute, Grace Paley, The Noonday Press

 


Cappuccetto rosso playing cards

Fernando Milagros scoperto grazie a Foglia

la parte della gamba


foto di Lorenzo Gramaccioni

 

Il centro del racconto, nel bel mezzo del bosco, la favola dichiara la sua stessa misura, il motore logico nascosto che la mette in movimento. Al centro, il racconto svela la sua cifra latente, quasi incidentalemente: più che naso, Pinocchio ha gambe, e va lontano.
Non ancora adulta, non ancora madre, la bella bambina dai capelli turchini pronuncia la formula fondamentale:”Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo”. La forma, che sia teorica o oracolare, in ogni caso descrive e crea un buco, una frattura che divide il racconto: da una parte, illuminato, evidente, il naso, dall’altra la gamba, in ombra. Pinocchio non dirà mai bugie dalle gambe corte.
Dopo la morte per impiccagione, dopo il ritorno alla vita, dopo la crisi della bugia (dove sono nascoste le monete?) e la sua soluzione, nel limbo ovattato di una camera di convalescenza, alla luce aurorale o nebbiosa di questo luogo di passaggio del racconto, di passaggio dalla morte alla rinascita, quindi nel luogo leggendario di tutti i passaggi e di ogni trasformazione, là si incastra la leggenda della favola, il metalinguaggio che ne permette e ne indica una possibile decifrazione. Questa formula è un grafo che decide della lettura del racconto; un enigma e un perno, il punto più basso, dove tutta si appoggia la parabola del burattino e dove si assegnano luci e ombre.

Un luogo leggendario che circoscrive una zona di indistinzione, dove si dice ciò che è nascosto e si nasconde il detto: Pinocchio è in gamba, è gamba, nonostante l’enorme visibilità dei rari nasi lunghi. Un motore del resto non è altro che un sistema di sbilanciamento produttivo. La gamba, qui, diventa l’articolazione del racconto, la giuntura, la curva. Etimologicamente. Pinocchio piega, declina, si rivolge, nell’ombra, alla gamba.

Pinocchio trova una soluzione all’enigma: scappa a gambe levate. Si dà a gambe. È la soluzione giusta, è la soluzione errata. Fa sprofondare nel dolore la fatina, sfinge, spingendola nella tomba, mentre si salva da lei, dalle sue lusinghe e dalle sue minacce, Trova l’unica soluzione possibile all’enigma, la soluzione enigmatica, e dà alla fiaba la sua morfologia luminosa.

da Pinocchio: la parte della gamba. Corsa e arresti di un burattino, Francesco Zuccherini

le sphinx

Le Sphinx, Franz von Stuck

 

All’ingresso, come a teatro, un lacché raccolse i nostri biglietti di invito e un altro, immediatamente, ci spinse verso un ascensore che, rapidissimo, ci portò al primo piano.

 

Le Sphinx, ingresso

 

Allora ci apparve uno spettacolo impressionante:una grande sala ellittica, il cui soffitto era una altissima cupola scintillante, sostenuta da colonne multicolori in magiche volute. Nel fondo, uno strano palco che si ergeva su sfingi bronzee e dal quale – attraverso scalini d marmo rosa- si scendeva fino a una larga piscina semicircolare, piena di acqua traslucida. Tre ordini di gallerie-in modo che l’asoetto complessivo della grande sala fosse di un opulento, fantastico teatro.

 

Le sphinx, Frank Horvat
 

 

The kiss of the Sphinx, Franz von Stuck

 

da La confessione di Lúcio, Mário de Sá-Carneiro, Sellerio

da Maisons closes parisiennes. Architectures immorales des années 1930, Paul Teyssier, Parigramme

fantasia sulla morte di un aspirante scrittore

 

 

disegni di Federica Salemi

 

la donna con la rivoltella dichiara:

un merito eterno nei confronti dell’umanità: non ho mai scritto un cattivo libro. (da Diario (1941-1943), Etty Hillesum, Adelphi);

– scrivere romanzi…un’etica profonda la dovrebbe vietar serenamente. (da Controcielo. Romanzo grottesco, Mauro Marè, All’Insegna del Pesce d’Oro)

il luogo


s.t. Ugo Grazzini

D’improvviso le parla da un luogo illegittimo, le si avvicina come un’ombra schiacciata sulla parete. Vorrebbe morire ma una calma disastrosa lo inchioda al pavimento. “Accadrà qualcosa?”.
“Nulla che non sia già accaduto”. La voce di lei cade dentro uno spazio neutro diventando la voce di nessuno, l’estremo limite dove ogni voce potrebbe annullarsi. Spia il suo viso e scopre che c’è dell’altro, il segreto illimitato del suo destino. “Chi ci minaccia?”, domanda ritirandosi nell’attesa. “Un luogo, forse più di uno, una marea di segni gettati da questa luce”. Un altro abita la stessa camera, li accompagna per strada con il suo pianto feroce.
C’è una piazza che prende la parola e dice: “Vi separerete qui, dentro di me, nel punto dove assomiglio al cielo”.
Lui si imbatte in una faccia cariata, in un dolore scavato fino all’osso. “Ci sono angeli che sanguinano”, dice cullandosi nel suo ventre, “alcuni passano la notte scrivendo le nostre parole e cancellando quelle giuste. Ci sono angeli senza misericordia, ognuno custodisce un lembo della nostra morte”.
“Ciascuno di questi esseri ha un destino che somiglia al nostro”. Le dice queste parole per tutto il tempo che lei lo guarda, esausta, da una terra di frontiera. “Ognuno di essi”, aggiunge, “ha un ago che lo ricuce al nulla”. Lei si volta, vorrebbe che un’ombra qualunque le svelasse questo segreto. Incontra il corpo di lui che il desiderio condanna alla presenza, una presenza peggiore della morte. Si accorge del suo dolore come se ogni cammino fosse stato percorso e quel luogo non fosse che la ripetizione di una traccia cancellata. “Dove stiamo andando?”. La voce esce da un vicolo oscuro, nessuno dei due sa con esattezza a chi appartenga. “Quando arriveremo? è vero che stiamo andando dalla stessa parte?”. Lei vorrebbe conoscere chi ha parlato, se l’uomo che le sta di fronte è lo stesso che ha parlato. Lui è muto, una malattia invincibile l’ha reso incapace di domandare. Un battito d’ala attraversa la fronte dell’uomo, lei è convinta che quella carcassa scossa da un tremito contenga la voce che la interroga.
Le ricorda la loro stanza, i corpi scuciti sulle lenzuola. Una luce troppo chiara penetra dall’abbaino, nel triangolo luminoso azzardano una prossimità sorvegliata. Rammenta che le aveva detto: “In questa posizione è più difficile essere visti”. Lei avrebbe voluto dimenticare. “Aiutami a dimenticare”, lo aveva implorato piangendo. I due corpi si muovono appena, toccandola ha l’impressione che una vertigine gli sottragga i punti che più desidera, uno per uno.
Le parole, dicono, le parole inceneriscono se vengono guardate. le descrive la stanza. è una stanza disabitata, abitata solo da esseri sottili. Improvvisamente si accorge che le sta escrivendo il vuoto, lo stesso vuoto che l’ha accolta da quando ha preso la parola. Descrivendole la stanza ha come una fitta al cuore, pensa che una differenza sia là suo malgrado, nonostante le sue parole. Riflette su questa legge, su ogni legge che distruggendolo rende possibile il desiderio.
La strada si esaurisce dentro una luce di cemento armato. Tengono in vita le parole utilizzando gli errori, ogni tanto una voce spalanca degli abissi. “Ci sono ombre desolate che origliano alle porte”, confessa urtando contro i suoi occhi.
Una porta si apre davanti a loro, i battenti guardano in ogni direnzione.
“Mi fermerò qui, dove la soglia è più corrosa!”.
“Prendi almeno una direzione, una qualunque!”.
“Questa soglia è il mio destino”.

da Lettera sugli angeli e altri racconti, Roberto Carifi, Via del Vento Edizioni