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il discorso poetico e le lenzuola gualcite

Il discorso poetico è un processo incrociato, e si compone di due specie di suono: la prima di esse è il cambiamento – che noi possiamo udire e percepire – degli strumenti stessi del discorso poetico, emersi strada facendo nello slancio del discorso; la seconda è il discorso vero e proprio, ossia l’attività che, sul piano dell’intonazione e della fonetica, viene svolta da tali strumenti.
Concepita in questi termini, la poesia non è una parte della natura – si trattasse anche della sua parte migliore, più eletta – e, ancora meno, è un suo rispecchiamento, ciò che si tradurrebbe in un dileggio del principio di identità; ma con strabiliante indipendenza essa si installa in un campo d’azione nuovo, extraspaziale, impegnandosi non tanto a raccontare, quanto piuttosto a recitare la natura, attraverso i mezzi strumentari denominati volgarmente immagini.
Il discorso, o il pensiero, poetico soltanto in modo estremamente convenzionale può essere definito sonoro, poiché in esso noi udiamo soltanto l’incrociarsi di due linee, una delle quali, se presa a sé, è affatto muta, mentre l’altra, se presa al di fuori della sua metamorfosi strumentaria, è priva di qualsiasi interesse, e si presta a venir parafrasata, il che, a mio parere, è un indizio sicurissimo dell’assenza della poesia: giacché, dove un’opera si rivela commisurabile alla sua parafrasi, là non ci sono lenzuola gualcite, la poesia, per così dire, là non ha pernottato.

da Conversazione su Dante, Osip  Mandel’štam, Il Melangolo, trad.di Remo Faccani

apertura


Combat, Stanley William Hayter

 

Ora il viaggio si siede, si è seduto.
La vita nella piccola città
(ogni alba raggiunta, la sera lasciata)
esseri pezzati, pur se non lo sanno

non può che trascinare con sé giostre di tanti
e giostre di tanto, impresa delle imprese

cos’è là? cioè qua, dove siamo?
Siamo nel siamo. Presonno agitato.

Oasi rare bloccate. Il resto scorre urlando.
Lo sfondo a venire? venuto e andato.

Più che l’infante aiuta il sé ragazzo che cammina appresso.
Rema la rana, scorpione sul dorso.

 

°°°

 

Avevam quarant’anni, più o meno cinquanta
trenta, sessanta, altri diciassette diciotto
settanta e passa quando quando quando
giunsero le Cose
                          e lor connesse Discipline Nuove

azzeranti storia, passato d’erba cruda,
ideologia focosa e pura, futuro senza soldi
intanto Gimmi porta il Tivu dentro casa, Nick il frigo,
Amanda le palette del ventilatore, le stoviglie adesso
si lavano da sole e l’auto individuale viene e va

bello perder la testa
ritrovandola poi nella vetrina tra i pezzi

cilindri orrendi bui pronti per il cielo e per il nemico
Guerra Gelo
però per interposta persona sinora ancora

sono miscele di fluiri che cambiano
tiene la spina dorsale del sopravvivere

capaci di tutto.

da Viaggio nella presenza del tempo, Giancarlo Majorino, Mondadori

com’è terso il sole se visto nell’idea


Peter Fendi

Comincia, efebo, col percepire l’idea
Di questa invenzione, questo mondo inventato,
L’idea inconcepibile del sole.

Devi tornare l’uomo ingenuo che eri
E vedere il sole con l’occhio ingenuo
E vederlo chiaramente nell’idea.

Non presupporre una mente che crea all’origine
Dell’idea, non creare per quella mente un ingombrante
Padrone avvolto in lingue di fuoco.

Com’è terso il sole se visto nell’idea,
Purificato nella remota chiarità di un cielo
Liberatosi delle nostre immagini e di noi…

La morte di un Dio è la morte di tutti.
Lascia che Febo purpureo riposi nel raccolto ombroso,
Che dorma e muoia in ombre autunnali.

Febo è morto, efebo. Ma Febo non era che un nome
Per dire qualcosa che non poteva essere detto.
C’era un progetto del sole e c’è ancora.

C’è un progetto del sole. Il sole, ghirigoro d’oro,
Non sopporta alcun nome, ma è
Nella difficoltà di ciò che essere è.

da Note verso la finzione suprema-Deve essere astratta, Wallace Stevens, Arsenale Editrice, trad.di Nadia Fusini

III


Notturno, Osvaldo Licini

La poesia rinnova la vita, sì che per un attimo
Riviviamo la prima idea…Placa in noi
La fede in un principio immacolato.

E ci sospinge, sulle ali di una volontà inconsapevole,
Verso una fine immacolata. Muoviamo tra questi due punti:
Da quel sempre infante candore alle sue più tarde varietà.

Da quel candore nasce la potente euforia
Di ciò che proviamo quando il pensiero ci pulsa
Nel cuore, come sangue che appena sia giunto,

Un elisir, una tensione, un puro potere.
La poesia, grazie al candore, ci dà sempre di nuovo la forza
Di ritrovare di ogni cosa l’immacolata natura.

Ad esempio: di notte un arabo intonando
Infernali ubla-ubla-ubla-ahh inscrive
Nella mia stanza un’astronomia primitiva

Attraverso gli informi presagi che lancia il futuro
E scaglia le stelle sul pavimento. Di giorno
Era la colomba a gorgheggiare ubla-uh,

E sempre l’oceano gonfio d’iridescenza continua a tuonare uh,
E gonfia e tuona uh, e gonfia e ricade.
La vita insensata ci trafigge coi suoi misteriosi rapporti.

da Note verso la finzione suprema, Wallace Stevens, Arsenale Editrice, a cura di Nadia Fusini

io non v’invidio punto, angeli santi

Io non v’invidio punto, angeli santi,
le vostre tante glorie e tanti beni,
e que’desir di ciò che braman pieni,
stando voi sempre a l’alto Sire avanti;

perché i diletti miei son tali e tanti,
che non posson capire in cor terreni,
mentr’ho davanti i lumi almi e sereni,
di cui conven che sempre scriva e canti.

E come in ciel refrigerio e vita
dal volto Suo solete voi fruire,
tal io qua giù da la beltà infinita.

In questo sol vincete il mio gioire,
che la vostra è eterna e stabilita,
e la mia gloria può tosto finire.

Gaspara Stampa da Lirici del Cinquecento, AA.VV., Classici UTET

frutti vermigli

Fu la mia giovinezza un uragano
E una tenebra, rotta da brillanti
Soli. Il tuono e la pioggia han fatto scempio
Tal che del mio giardino
Pochi ritrovo ormai frutti vermigli.

Charles Baudelaire

 

Ulisse:”Bene. La troviamo, l’eroina di Scizia, Achille e io, immota in assetto da guerra, in testa alle sue vergini, succinta: il cimeiero le sovrasta il capo, e muovendo le sue nappe di porpora e d’oro, il cavallo pesta la terra sotto di lei. E pensosa, e per un istante, guarda priva d’ogni espressione la nostra schiera, come se noi fossimo lì, scolpiti nella pietra davanti a lei; ecco, questa palma della mia mano, te l’assicuro, è molto più espressiva del suo volto: finché, adesso, il suo sguardo cade sul Pelide: di colpo, un rossore, giù giù fino al collo le trascolora il volto, come se intorno a lei, di colpo, il mondo divampasse in chiare lingue di fiamma. Si butta, con un gesto improvviso – e uno sguardo truce getta su di lui – giù dal cavallo a terra, ci domanda, affidando le redini a una serva, che cosa ci porti lì da lei, così solennemente. E io: che noi Argivi ci rallegriamo di imbatterci in una nemica del popolo dei Dardani; quale odio divampa, da tempo, contro i figli di Priamo, enl cuore dei Greci; quanto utile, a lei come a noi, sia un’alleanza; e il resto, che il momento mi suggerisce. Ma con stupore, nel flusso del discorso, mi accorgo che non mi sente. Si volta di colpo con un’espressione di sbalordimento, come una fanciulla di sedici anni che torni dai giochi olimpici, verso un’amica che le sta al fianco, e grida: Protoe, un uomo simile mia madre Otrera non l’ha incontrato mai! L’amica, colpita da queste parole, tace; Achille e io ci guardiamo sorridenti. lei, lei, di nuovo indugia, con uno sguardo estasiato, sulla figura smagliante dell’Egineta: finché l’altra, timorosa, le si avvicina e le ricorda che mi deve ancora una risposta. Allora, tingendo la corazza, giù fino alla cintola, col rosso delle guance – fosse furore, fosse invece vergogna – confusa e fiera e scatenata insieme: che è Pentesilea, dice rivolta a me, regina delle Amazzoni, e che dalla faretra verrà la sua risposta!”

da Pentesilea, Heinrich von Kleist, Einaudi, trad. Enrico Filippini

 

naviganti

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore 
.

Umberto Saba

tu ridi.- bene. – fai dell’amarezza

fernando botero

Tu ridi.- Bene. – Fai dell’amarezza,
prendi la piega, Mefisto burlone,
dell’assenzio! e il tuo labbro sbava…
Dirai che ti viene dal cuore.

Fai di te la tua opera postuma,
mutila l’amore…l’amore-lungaggine!
Il tuo polmone cicatrizzato aspira
miasmi di gloria, o vincitore!

Basta, non è vero? Vattene. Lascia
la tua borsa – ultima amante –
la tua pistola – ultima amica…

Tipo buffo di fallito!
… O resta e bevi la feccia di vita
sopra una tavola sparecchiata…

da Morticino per ridere e altre poesie da Gli amori gialli, Tristan Corbière, Via del Vento Edizioni, a cura di Pasquale di Palmo
prendiprendi la piega