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noi che giudichiamo, noi che dobbiamo giudicare i nostri genitori

Vedo una giovane coppia senza mezzi economici che vuole metter su casa. Un musicista ambizioso che è convinto delle proprie capacità e desidera fare carriera. Una madre che evidentemente non trova nulla di riprovevole in questa visita e che beve volentieri il vino che le è stato portato. Ma il solo concetto di “quartier generale del Führer” non avrebbe dovuto fa suonare il campanello d’allarme?
Noi, la generazione successiva a quella nazista, siamo portati – e educati da infinite documentazioni – a giudicare il coinvolgimento dei genitori nel crimine più terribile della Storia alla luce dei risultati, che nel frattempo sono sotto gli occhi di tutti. E abbiamo solo il diritto, ma anche il dovere di giudicare questi crimini.
Ma questo diritto e questo dovere non mi sollevano dal compito di calarmi nei panni dei miei genitori. Oppure diciamo, piuttosto: non mi vietano di osservare con curiosità la loro condizione. Come suonava l’espressione “quartier generale del Führer”, all’epoca, per mio padre? Era forse un crimine il fatto di esibirsi lì assieme al suo amico? Il detto principiis obsta, “resisti agli inizi”, si fonda sul sapere di coloro che conoscono gli esiti. Presuppone che la Storia si ripeta. ma come ci si comporta con “inizi” la cui fine è ignota perché ancora non si è verificata? Noi che giudichiamo, che dobbiamo giudicare i nostri genitori, ci troviamo a nostra volta nel bel mezzo di “inizi” di cui ignoriamo gli esiti.

da Gli amori di mia madre, Peter Schneider, L’Orma Editore, trad. di Paolo Scotini

deliberato ottimismo

Fino alla fine degli anni Settanta avrei avuto il tempo di porre queste domande a mio padre. Ma siccome scoprii le lettere solo dopo la sua morte, e le lessi decenni più tardi, non ne ho avuto mai l’occasione. Dubito che avrebbe accettato di darmi qualche risposta. Non era uso parlare di vicende che lo toccavano nell’intimo, o che avrebbero potuto ferirlo. Il suo deliberato ottimismo e la sua avversione quasi giapponese a importunare gli altri con i propri sentimenti, con un dolore o una perplessità, non gli permettevano di mostrare una tale “debolezza”.

Una volta, poco prima che morisse, lo vidi respirare a fatica alla finestra del salotto. All’improvviso sembrò che non riuscisse più a prendere fiato, e si aggrappò alla maniglia della finestra come se soltanto in tal modo potesse evitare di cadere. Quando gli chiesi se aveva bisogno di qualcosa si rimise bene in piedi, inarcò la schiena, scosse la testa e riprese la conversazione con me dopo una pausa, della cui lunghezza probabilmente non aveva avuto coscienza. Niente, non aveva bisogno di niente, si era soltanto dimenticato di cosa stavamo discutendo.

da Gli amori di mia madre, Peter Schneider, L’Orma Editore, trad. di Paolo Scotini