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avanti!

Mi fermo, improvvisamente sono stanco, in avanti, a quanto pare, si scende a rotta di collo, tutt’intorno è l’abisso – non voglio guardarlo”.

Friedrich Nietzsche (Werke, Groß-und kleinoktavausgabe), XII, p.223 (Nietsche e l’eterno ritorno, Bari, 1982, citato da Walter Benjamin nei Passages J 77a, 2)

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So che voglio e non ho cosa io voglia. Un peso pende ad un gancio, e per pender soffre che non può scendere: non può uscire dal gancio, poiché quant’è peso pende e quanto pende dipende. Lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare, che sazi la sua fame del più basso, e scenda indipendentemente fino a che sia contento di scendere. Ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo contenta (…)

da La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter, Adelphi

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Quale morbosa e smodata smania di vivere, insomma,
ci fa così trepidare, quando corriamo un pericolo?
Incombe al certo una fine inevitabile agli uomini,
e non c’è dato schivare la morte sì da scamparla.
Siam chiusi dentro un cerchio e ci aggiriam sempre in esso,
né prolungando la vita s’inventerebbe alcun nuovo
bene: ché il meglio a noi sembra ciò che ci manca e si brama:
e quando questo è raggiunto, bramiam dell’altro e ci tiene
a bocca aperta la stessa sete del vivere, sempre.

dal De rerum natura, Libro III, vv.1075-1084, Lucrezio, Rizzoli, versione di Luca Canali

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Egli dice ancora: “Io penso e ciò non disturba nulla. Sono solo. Che comodità la solitudine! Non mi pesa nulla di dolce. La stessa fantasticheria qui come nella cabina del battello, la stessa al Caffè Lambert… Se le braccia di Berta assumono importanza, io sono derubato – come dal dolore.. Chi mi parla, se non mi prova qualcosa, è un nemico. Preferisco lo sfavillio del più piccolo fatto accaduto. Io sto esistendo e sto vedendomi, sto vedendomi vedere e così seguito…Pensiamo con precisione. Ci si addormenta su qualsiasi argomento… Il sonno continua qualsiasi idea…

da Monsieur Teste, Paul Valéry, SE Studio Editoriale, trad.di Libero Solaroli

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(…) un lusso che puoi permetterti mica riaprir quei dossier, eppure di continuo li apri, come avessi solchi obbligati tutt’intorno al cervello…rotaie! una volta spinto per la discesa il carrello non sceglie, ohp! ohp! che corre per le svolte della miniera, ohp gran toboga! ogni passaggio è coercizione al seguente, due passaggi e sei fritto (…)

da Rondini sul filo, Michele Mari, Mondadori

Pensa a tutto, vertiginoso lettore, somma le attese di tutti in ogni tempo e paese, e ti sfido a non immaginare il nostro pianeta come una palla proiettata nel nulla dalla smania di tutti e di tutto ad arrivare più in là, la smania di quella cosa lì, sì, quella che stai aspettando anche tu.

da Roderick Duddle, Michele Mari, Einaudi

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(…) suppongo sia possibile dire che il colono è il simbolo del cambiamento. Egli è, comunque, l’uomo laborioso che vive nelle illusioni e che, dopo che tutte le grandi illusioni l’hanno lasciato, continua ad avviticchiarsi ad una che lo trafigge.

dalla lettera a Hi Simons del 12 gennaio 1943, Wallace Stevens

 

la retorica

La retorica è senza dubbio antica quanto la filosofia; si dice che Empedocle l’abbia “inventata”. In tal senso ne è la nemica e l’alleata più vecchia: è sempre possibile che l’arte di “ben dire” si emancipi dalla preoccupazione di “dir vero”; la tecnica fondata sulla conoscenza delle cause che generano gli effetti della persuasione conferisce un potere formidabile a colui che la possiede perfettamente: il potere di disporre delle parole senza le cose; e di disporre degli uomini perché si dispone delle parole. Forse dovremo cercar di capire che la possibilità di questa scissione accompagna tutta la storia del discorso umano. Prima ancora di diventare futile, la retorica è stata pericolosa. Per questo Platone la condannava: ritiene infatti che la retorica è nei confronti della giustizia – virtù politica per eccellenza- quel che la sofistica è per la legislazione; e che ambedue sono per l’anima quello che rispetto al corpo, sono la cucina rispetto alla medicina e la cosmesi rispetto alla ginnastica -vale a dire arti dell’illusione e dell’inganno. Tale condanna della retorica, in quanto appartenente al mondo della menzogna, dello pseudo, non dovrà esser persa di vista.

(…)

Che cosa vuol dire persuadere? In che cosa la persuasione si distingue  dalla adulazione, dalla seduzione, dalla minaccia, cioè dalle forme più sottili della violenza? Che significa influire mediante il discorso? Porre questi interrogativi, vuol dire decidere che non è possibile tecnicizzare le arti del discorso senza sottoporle a una riflessione filosofica radicale la quale delimiti il concetto di “ciò che è persuasivo”.

da La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Paul Ricoeur, Jaca Book, trad.di Giuseppe Grampa

Definiamo dunque la retorica come la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere.

da Opere – Retorica, I, 1355b 25), Aristotele, Laterza, Bari, 1973

il punto oscuro e la croce

casa-vascello di Luca Donnini

Quando si erge nei suoi assalti e precisamente nella calma, l’io si fa sentire come un punto oscuro. E la calma si va mutando in semplice immobilità e il tempo si condensa, opprime il cuore. Tra il pensare e il sentire non si stabilisce alcuna comunicazione e i sensi – infallibili indicatori- si ritraggono. La percezione nitida nulla apporta, nulla rivela. Ma poi, in un attimo, il punto oscuro dell’io si viene a trovare come centro di una croce; allora, senza il minimo sussulto, il cuore occupa il suo posto, si fa centro.
E l’essere si sente steso su una croce formata dal tempo e dall’eternità. E questo che si incrocia con l’eternità non è un semplice tempo successivo; si apre o è in procinto di aprirsi in molteplici dimensioni. Il cuore del tempo raccoglie il palpitare dell’eternità, l’aprirsi dell’eternità. E il tempo fluisce come fiume dell’eternità.
E se fosse sempre così, se l’essere umano si mantenesse sempre teso su questa croce, la sua sarebbe vera vita. Ma non può accadere così da sé. O meglio, al contrario, solo da sé potrebbe essere così sempre. Ma intanto, il cuore ancora oscuro, con la sua passività, un vasto col suo vuoto e nient’altro, dovrebbe essere il centro, senza sottomettersi all’io che lo soppianta.

da Chiari del bosco, Maria Zambrano, Mondadori, trad.di Carlo Ferrucci

 

 

l’errante

A Compiègne, anche la donna non ha per poco ricevuto il calcio del fucile in pieno viso. Neppure lei aveva lasciato il suo sguardo diventare opaco, come acqua morta. Si è messa a camminare accanto a loro, sul marciapiede, al passo con loro, come se volesse prendere su di sé una parte, la parte più grande possibile, del peso della loro marcia. Aveva un’andatura altera, malgrado le scarpe con la suola di legno. A un certo momento, ha gridato qualcosa verso uno di loro, ma Gérard non ha potuto sentire. Qualche cosa di breve, forse addirittura una sola parola, quelli che si trovavano alla sua altezza si sono voltati verso di lei e le hanno fatto un cenno con la testa. Ma quel grido, quell’incoraggiamento, o quella parola, qualunque essa fosse, per spezzare il silenzio, per rompere la solitudine, la sua stessa solitudine, e quella degli altri uomini, incatenati a due a due, stretti gli uni agli altri, ma solitari, perché nell’impossibilità di esprimere quel che di comune c’era tra loro, quel grido ha attirato l’attenzione di un soldato tedesco che camminava sul marciapiede, qualche passo davanti a lei. Si è voltato e ha visto la donna. La donna camminava verso di lui, col suo passo deciso, e certamente non distoglieva gli occhi. Camminava verso il soldato tedesco, a testa alta, e il soldato tedesco le ha urlato qualche cosa, un ordine o un’ingiuria, una minaccia, con un viso sconvolto dal panico. Quell’espressione di paura ha sorpreso Gérard, a tutta prima, ma in realtà essa era ben chiara. Qualsiasi avvenimento che non combaci con la visione semplicistica delle cose che si fanno i soldati tedeschi, qualsiasi gesto imprevedibile di ribellione o di fermezza, deve infatti terrorizzarli. Perché evoca istantaneamente la profondità di un universo ostile, che li circonda, anche se la superficie di esso vive una calma relativa, anche se in superficie i rapporti delle truppe di occupazione con il mondo circostante si svolgono senza urti troppo visibili. A un tratto, quella donna che cammina verso di lui, a testa alta, lungo la colonna di prigionieri, evoca al soldato tedesco mille realtà di spari nella notte, di imboscate fatali, di partigiani spuntati dall’ombra. Il soldato tedesco urla di terrore, malgrado il dolce sole invernale, malgrado i compagni d’arme che camminano avanti e dietro di lui, malgrado la sua superiorità su quella donna disarmata, su quegli uomini incatenati, urla e alza il calcio del fucile al viso della donna. Restano qualche secondo faccia a faccia, lui che continua a urlare, e poi il soldato tedesco se ne va in fretta per riprendere il suo posto lungo la colonna, non senza gettare un ultimo sguardo di timore carico d’odio verso la donna immobile.

da Il grande viaggio, Jorge Semprun, Einaudi, trad.di Gioia Zannino Angiolillo

 

Tutti i treni passano tra le mie mani fumigando
tutti i grandi porti cullano navi per me,
tutte le strade dei viandanti si riversano nelle campagne,
e qui esse prendono congedo; poiché all’altro capo,
lieta di portar loro il mio saluto, vi son io che sorrido.

Se solo potessi afferrare un lembo di questo mondo,
se solo trovassi anche gli altri tre, farei un nodo al fazzoletto,
lo appenderei a un bordone, lo poserei sulla mia spalla,
dentro il globo terrestre con le gote accese di rossore,
con i suoi chicchi marroni e il profumo di mela calvilla.

Grevi tralicci di ferro strepitando scagliano via il mio nome,
una casa ingobbita pedina spiando i miei passi;
immagini lontano smarrite tornano dentro le loro cornici,
la mia tazza di viaggiatrice attinge del cieco la brama
e dello zoppo i desideri, assetata bevo sino all’ultima goccia.

Come aratro immergo le nude braccia lottatrici in mari profondi,
tutto il cielo nel mio occhio luminoso faccio penetrare.
Presto o tardi verrà il momento di fermarmi in silenzio sulla lancetta del tempo,
di ordinare le misere provviste, d’incamminarmi esitante verso casa,
d’esser solo sabbia dentro le scarpe di chi dopo di me passerà.

da Metamorfosi e altre liriche, Gertrud Kolmar, Via del Vento Edizioni, trad.di Stefania Stefani

intorno a un plesso solare aperto

xilo di Emilio Mantelli
 

 

Per un minuto, per un’ora, il mio amore riesce a ricoprire tutto, tutti: le pietre del selciato, John che piange sul suo sgabello invece di analizzare i suoi errori, David che mi offre un biglietto della metropolitana come se fosse un biglietto per Cipro, strade morte dove non potrebbe succedere nulla, e buie strade vuote piene di un’eccitazione incipiente; potrei perfino prendermi cura di un ego turbolento, essere instancabile, sempre a portata di mano, immensamente cauta.
Quell’uomo, quando glielo domandarono, non seppe dire perché si fosse alzato la mattina.
“Energia vitale? Così la gente penserà bene di me?”
Oh, ma esultare alle strisce pedonali! Sentire il cuore spezzarsi per i chili di troppo di quella grassona!

da Il riconoscimento delle affinità, di Elizabeth Smart

andare al nòcciolo, al centro

Una penombra come quella del mondo esterno gli oscurava la mente, mentre ascoltava gli zoccoli della cavalla strepitare sulle rotaie della Rock Road e il gran recipiente dietro scuotersi e sbatacchiare.
Ritornava a Mercedes e, mentre rimuginava sulla sua immagine, gli entrava nel sangue un’inquietudine strana. Talvolta una febbre si impadroniva di lui e lo portava a vagabondare nella sera per il viale tranquillo. La pace dei giardini e le luci benevole alle finestre gli versavano un tenero influsso sul cuore irrequieto. Il rumore dei ragazzi che giocavano lo disturbava e le loro voci sciocche gli facevano sentire, anche più acutamente che non avesse sentito a Clongowes, che lui era differente dagli altri. Non aveva desiderio di giocare. Aveva desiderio d’incontrare nel mondo reale l’immagine incorporea che la sua anima contemplava tanto costantemente. Non sapeva dove cercarla o come, ma un preannuncio che lo guidava gli diceva che questa immagine, senza nessun atto aperto da parte sua, gli sarebbe venuta incontro. Si sarebbero incontrati tranquillamente come se si fossero conosciuti e avessero già fissato il loro convegno, forse a uno di quei cancelli o in qualche luogo più segreto. Sarebbero stati soli, circondati dall’oscurità e dal silenzio: e in quell’attimo di tenerezza suprema Stephen sarebbe svanito, sotto quegli occhi, in qualcosa di impalpabile e poi, in un attimo, si sarebbe trasfigurato. In quel magico istante la debolezza, la timidezza e l’inesperienza sarebbero cadute da lui.

da Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, James Joyce, Adelphi, trad.di Cesare Pavese

un inno


Pierre Alechinsky

Con quella qualità dei grandi pugili:
incassare e rimanere
saldi,

ingurgitare grappa dalla bottiglia
aver preso sbornie
sub e superatomiche,
lasciare i sandali
sul bordo del cratere come Empedocle
e poi giù a capofitto,

non dire: ritorno
non pensare: mezzo e mezzo,
mollare i tumuli delle talpe
ai nani che vogliono farsi grandi,
pranzare allround a casa propria
non scindersi
e saper dar via anche la vittoria-

un inno a un uomo siffatto.

da Frammenti e distillazioni, Gottfried Benn, Einaudi, a cura di Maria Carpi

la grazia


Campo di grano, Luigi Bartolini

E per chi, se non per te, io provo amore?
E stringo, chiuso al petto, il libro estremo
Del sommo tra i sapienti, in me nascosto giorno e notte?
Nell’incerta luce di una sola certa verità,
Eguale per mutevolezza alla luce
In cui t’incontro, e riposiamo,
Per un istante al centro di noi stessi,
La fulgida trasparenza che tu emani è pace.

da Note verso la finzione suprema, Wallace Stevens, Arsenale Editrice, a cura di Nadia Fusini

all’amica lontana

Bastianelli eseguiva l’Eroica di Beethoven e dopo la Marcia funebre stava attaccando con lo Scherzo e già si sentiva palpitare nelle dita la vivacità di quelle note quando Michaelstaedter, spalleggiato da Arangio, saltò su gridando che la sinfonia finiva lì ed era inutile procedere oltre. Inde irae.

“Carissimi Micaelstätter e Arangio,
ho riflettuto a lungo in questo inchiodamento a letto, a quello che avvenne sabato scorso. Non è possibile che mi trattenga dal dirvi alcune cose in proposito che, vi dispiacciano o non vi dispiacciano, peserebbero tanto sulla mia coscienza, se non ve le dicessi, da farmi le mani di piombo quando fossi ancora con voi al pianoforte.

Come fare a celarvi che, non so per quale curioso ed irritante groppo di fatalità, voi siete stati davanti a uno dei più puri capolavori umani, non reagendo dovutamente, non comprendendolo, anzi con una certa leggerezza, generalizzando la comprensione che di lui avevate parziale, per condannarne il vero significato totale?

Dell’Eroica non v’è piaciuto che il 2° tempo e non avete compreso il tema generante il 1° tempo e l’ultimo generante, con uno svolgimento a rovescio del 1°, l’ultimo tema.

Io constatai, in quel momento che suonavo e più dopo, quando come per darmi la riprova che in voi non s’era fatto tutto quel silenzio religioso e quello stupore che segue le vere rivoluzioni, voi vi poneste a parlare di Croce e Spinoza; che nessuna cosa al mondo vi avrebbe fatto varcare la muraglia che ponevate ostilmente tra lo sforzo che io facevo per farvi comprendere, e la vostra diffidenza. Disse bene Aragio: poche persone sono così fredde come voi.

In altre parole sento che anche se tentassi per iscritto di farvi comprendere il valore unico di quel 1° tema e la dipendenza del 2° dal 1° e la giustizia di quella marcia e di quello scherzo nella intera sinfonia; io non esercito in voi quella confidenza e non inspiro in voi quella fede di cui c’è bisogno per rivelarsi reciprocamente qualunque idea.

E ho tale pratica delle cose d’amicizia (e specialmente della vostra) che so ancora che se tentassi, rifacendovi la Terza sinfonia, di farvene comprendere il significato altissimo e vi ripeto unico, voi vi irrigidireste in modo da rendere tutti i miei tentativi inutili se non ridicoli.
E men ti piaccio se più m’affatico. Le cose devono venire da sé. Vuol dire che io non ero quello destinato a farvi capire Beethoven.

E so ancora che non potrei più seguitare a leggervi Beethoven perché come in una dimostrazione se manca la comprensione d’una sua proposizione , tutta la dimostrazione cade, così nella rivelazione dell’arte d’un genio, se resta oscura una sola parola importante (e qui si tratta niente meno dell’Eroica, una delle pietre miliari non solo per capir Beethoven ma tutta la modernità) resta tutto oscuro o avvolto in una penombra penosa.

E non è una di quelle malignità del caso, che mi feriscono così tragicamente e così spesso, che proprio la sinfonia, che insieme alla Nona e la Messa, desideravo di più godere insieme con voi, mi abbia lasciato il disgusto amaro del fiasco, non che tante altre constatazioni dolorosissime per me e per voi.

Tutti noi non comprendiamo che ciò che abbiamo avuto. Voi ponevate nell’interpretazione di Beethoven una esperienza, perdonatemi, inadeguata a lui. Io ho provato per una buona metà di Beethoven l’impressione che vi mancassero gli elementi per sentirla. Nell’Eroica vi manca l’eroismo di non contentarvi del Dolore. E come fare allora a capire, che se Beethoven nell’Eroica scopre l’eroismo, l’immenso eroismo dei romantici, egli nella Nona supera ancora l’Eroismo e arriva a una contemplazione così universale delle cose umane che, a mio parere, nessuna filosofia moderna ha saputo ritrarre e svolgere?

E per farvi arrabbiare anche di più, che cos’è la Ginestra e tutto Leopardi davanti a questo gigantesco e impassibile Beethoven? Non mi ricordo più dove ho letto che un dio costretto a raccontare la sua vita la direbbe tutta -in due parole. Ebbene Beethoven l’ha fatto e le due parole sono l’Eroica e la Nona. Maledicetemi, ridete di me; ma è così e mi farei ammazzare piuttosto che dire in un altro modo.

vostro Giannotto Bastianelli”
da  A ferri corti con la vita. Biografia di Carlo Michaelstaedter, Sergio Campailla, Comune di Gorizia, 1981

la sicurezza fisica

La sicurezza fisica si manifesta in tutti nello stesso modo, quella morale presuppone invece uno stato d’animo che non è rintracciabile in ogni soggetto. Ma poiché la sicurezza fisica ha solo valore per i sensi, essa non ha nulla che possa di per sé piacere alla ragione e il suo influsso è puramente negativo, servendo solo ad impedire che non si spaventi l’istinto di conservazione e non si vanifichi la libertà dell’animo.
Ben diversamente accade con la sicurezza interiore o morale. Essa è sì immediata fonte di tranquillità per i sensi, (diversamente risulterebbe essa stessa sublime), ma lo è solo in virtù delle idee della ragione. Noi contempliamo lo spaventoso senza timore, poiché ci sentiamo sottratti, in virtù della coscienza della nostra innocenza o dell’idea di indistruttibilità del nostro essere, al potere che ha su di noi in quanto esseri naturali.

da Del sublime, Friedrich Schiller, SE Studio Editoriale, a cura di Luigi Reitani