
Una volta simili raffinatezze non sarebbero state possibili, ora invece, l'”alta fedeltà” le ha rese concrete, illuminatrici, addirittura pedagogiche: quasi non resisto alla tentazione di portare il nastro all’istituto e di farlo ascoltare ai miei allievi. Cosa ci sarebbe di meglio per illuminarli sul fenomeno del cannibalismo umano? Il pacchetto raccomandato e strettamente personale mi è arrivato due giorni or sono: accuratamente confezionato, quasi civettuolo, mia madre lo aveva allineato, senza però aprirlo, fra gli altri regali che ogni giorno mi vengono recapitati per il mio imminente matrimonio. Debbo confessare che, curioso come sono, l’ho aperto con vivo interesse e che la singolarità del dono aveva colpito favorevolmente il mio istinto del bizzarro. Stavo per informare Teresa della singolare spedizione se non avessi riflettuto che ancora non conoscevo il contenuto del musicale pacchetto. Mi preparai perciòa una audizione solitaria per assicurarmi che l’incisione fosse stata fatta a regola d’arte. teresa, mia fidanzata e collaboratrice scientifica, quel pomeriggio doveva illustrare al suo gruppo la schizogenesi degli anellidi e sapevo che non avrebbe avuto piacere se la avessi disturbata per una cosa tanto futile. La riproduzione asessuata, era solita dirmi, rappresentava il grande amore della sua vita; allora mi rannuvolavo e le chiedevo se per caso non si poteva trovare un po’ di spazio fra un segmento e l’altro per introdurvi anche un po’ d’amore per me. Rideva serena e spontanea e per consolarmi mi assicurava che io ero il suo unico verme, l’archetipo della sua infinita passione. Mi ritirai presto nel mio studio e predisposi tutto il necessario per l’ascolto. Le vecchie rilegature mi guardavano impassibili e serene, i legni caldi e silenziosi m’invitavano a una ricezione distesa. Avevo poco prima telefonato a Teresa: mi aveva risposto la sua voce pacata e confortevole e ci eravamo scambiate tenere parole. Non so perché, avevo dimenticato di parlarle dell’arrivo del pacchetto. In verità sono piuttosto distratto e, tranne i miei studi, poche cose riescono a interessarmi vivamente. Ricordo che durante quel pomeriggio, la mia mente era stata in lunga meditazione sulle stravaganti abitudini della bonellia viridis un verma della grossezza d’una prugna nei cui genitali abita, ospite apprezzato e non pagante, il maschio, privo di bocca, alimentato direttamente dalla carne della femmina attraverso la sua superficie ciliata, uno schiavo del sesso, utile solo alla generazione. Pensavo ancora alla dolce e generosa bonellia quando premetti il pulsante del registratore. La mia stanza tranquilla e ovattata si andò riempiendo di rumori indefiniti: sulle pareti tappezzate di libri frusciavano strani suoni e voci soffocate: il paralume era avvolto da una spirale di presenze inarticolate. Non mi rendevo conto di ciò che stesse per succedere: guardavo un punto lontano, molto lontano sopra le ali del Mercurio alato che tentava d’innalzarsi sopra il mio scrittoio. Leggerissimo, quasi staccato dal suolo, non riusciva però a prendere definitivamente a prendere il volo: qualcosa non doveva funzionare nel suo apparato muscolare. Bello, giovane, divino, non riusciva a librarsi nello spazio: insensibile a quanto si muoveva intorno a lui, fissava gli occhi verso lontani orizzonti eterni e inconsunti, struggendosi di non potere staccarsi da questo mondo plebeo e fangoso. Abbassai gli occhi su di lui: mi parve che una smorfia di disappunto e di sofferenza increspasse le sue divine fattezze. La camera era piena di fruscii equivoci, di una musica da bordello. Incominciavo a capire che si trattava di una sonata libertina. Forse un anonimo amico voleva che alla vigilia delle nozze risentissi una musica d’anni giovanili e lontani. I velluti rossi di Santa Apollonia, gli specchi sul pianerottolo, la montanina con Cupido attorno alla quale si riposavano le signorine, i passi smorzati dalla felpa, o i fruscii delle vesti seriche, i suoni lontani d’un canto amaro e deluso. Ma (non) c’era niente di musicale cigolando, dapprima insensibilmente, poi in seguito, sempre più sonoramente: due corpi vi si dibattevano sopra, sembrava lottassero anelanti. Per qualche momento, fu quasi silenzio: un gemito distrusse l’attesa, un gemito di donna posseduta dal maschio, roco, uterino, bestiale.
Poi il cigolio riprese violento e il gemito si trasformò in un lungo interminabile urlo soffocato. Mercurio sembrava aver rinunciato per sempre al volo: sfiduciato, pareva essere sul punto di sedersi per l’eternità. Sobbalzai sulla poltrona: l’urlo si stava articolando: incitava l’uomo a distruggerla. Si sentivano dei colpi tremendi, corpi che si contorcevano e si scioglievano fra i muscoli. la voce della donna gemente pareva uscisse da tutti gli angoli della stanza. Era lei che aveva preso a condurre la danza frenetica. la giga stava trasformandosi in una sarabanda tumultuosa. la voce dell’uomo si sollevò dal caos per chiamarla come un demente: lei gli fece eco dalla profondità di un mondo senza tempo. Poi riprese a urlare come una furia e lui rantolava succhiandole la carne. Dopo un lungo silenzio la voce di Teresa limpida e scorrevole lo chiamò alla vita. Le rispose una voce rozza, incolta, dialettale, senile. poi il rumore d’un viscido bacio li riportò entrambi alla superficie.
I fianchi di Teresa mi sfiorarono passandomi accanto: sussultai e la salutai vagamente; si voltò per salutarmi gaia e alacre. Mi rituffai a osservare i miei vermi che guizzavano allegri e disinvolti. Erano planarie giovani che qualche tempo prima avevano divorato le più anziane assorbendo, coi loro corpi, anche la loro cultura che, attraverso condizionamento, aveva loro appreso.
Guizzavano le natiche di Teresa, guizzavano come questi felici e condizionati cannibali che avevano introiettato, attraverso la digestione e l’assimilazione, i loro più anziani ed esperti compagni e insieme alla carne, la loro memoria e la loro personalità. Il polpaccio di Teresa era appena scomparso dietro il tavolo e, ripidissimo, mi folgorò il parallelismo dei processi. Anche Teresa si era cibata di quell’uomo, lo aveva succhiato e introiettato, se lo era digerito nella copula e poi lo aveva assimilato. le sue cellule nervose avevano operato il trasferimento della cultura erotica di quell’uomo dentro se stessa: la facoltà mnemonica di Teresa aveva non solo acquisito tutte le nozioni dell’atto sessuale ma in più aveva anche assimilato, attraverso il transfert della memoria, anche tutte le informazioni che il corpo di quell’uomo le aveva fornito. Il suo corpo ora più sapiente che mai era da poco scomparso, ma le mie planarie rimanevano lì, sotto i miei occhi, a ricordarmi le leggi ineluttabili della materia e della vita. Quanta parte di quell’uomo era definitivamente penetrata dentro di lei, fino a che punto lo aveva assorbito? Per conoscere qualcosa di più, era evidente, dovevo continuare a studiare le mie planarie per cercare di capire qualcosa di più della “mia” donna. Una più approfondita conoscenza dei vermi mi avrebbe aiutato a “capire” meglio il cosiddetto spirito di teresa. Il futuro rapporto fra me e lei diventava da quel momento un problema scientifico. Il divenire della planaria mi avrebbe dato la chiave per interpretare l’enigma della nostra vita futura.
Avrei dovuto cercare di conoscere, per es., quale tipo di “cultura” erotica aveva assorbito, fino a che punto la ricordava e fino a che punto le sue cellule ne erano state condizionate. I miei occhi ricaddero sulle planarie che navigavano serene e indifferenti: in quei minuscoli esseri “inferiori” nel loro futuro comportamento era anche il segreto della vita della mia futura moglie. Mi rimisi gli occhiali e mi sprofondai nell’analisi.
Inedito, 1965 di Piero Camporesi, tratto dalla rivista Riga 26, a cura di Marco Belpoliti, 2008 Marcos Y Marcos
La voce di Teresa:
Epigramma per un verme
Un verme tranquillo e bavoso
d’un roseo infantile fa il traghetto
del viale.
Mi domando perché poi
mi faccia quasi tenerezza…Ah sì:
è perché ti assomiglia, mio diletto.
da Altri amici, Daria Menicanti, Forum/Quinta Generazione, 1986