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gli amici di julian barbour

 

Il rifiuto della “geometria piana”, di cui Proust parla, è anche rifiuto del moto uniforme. Questo nemico del tempo degli orologi, per unità successive, con moto discontinuo. L’effetto di continuo è ottenuto mediante scatti tendenzialmente isocroni, ognuno dei quali è il periodo. Un periodo mai diretto e paratattico ma avvolto su se stesso, elicoidale.

 

(…)

 

È come se guardassimo entro un grande orologio: la tensione della molla maggiore ingrana successive ruote dentate, ognuna con una frazione di ritardo sull’altra; e, quando potresti credere che non ce la faccia più, ecco lo spostamento della lancetta è avvenuto tutt’a un tratto e tutto è avanzato di una unità. Subentra allora un attimo di silenzio, prima che ricominci l’ostinato sforzo di sommuovere ancora una volta un congegno denso di parole. La tensione, o energia, di ogni singolo periodo è, come si è detto, di natura raziocinante; obbedisce ad una meccanica classica, aborre dall’imprecisione non dal vuoto, ogni incertezza rinserra nel suo decorso e ribatte nelle sue clausole. Ma dove invece Proust svela di essere davvero al di là di ogni meccanica classica è nella qualità fluida instabile della forza di coesione che lega periodo a periodo. Questi non si compenetrano: si giustappongono.

 

(…)

 

La vittoria sul tempo non è ottenuta solo col recupero di quello “perduto” o col bronzo dell’opera ma proprio, per antifrasi, svolgendo permutazioni che nel tempo si distruggono a vicenda, che celebrano tremende ma infine futili vittorie ed evocano per converso una identità raccolta e intera, un presente istantaneo ed eterno.

da Verifica dei poteri, Franco Fortini, Garzanti

Lo Scorrevole, Vettor Pisani

Elia Malagò, la poetessa che apro a caso, per legge

Nostalgia

Il gelo abbrevia anche le giornate
e conta poco essere qui o nei salti
bruschi del tempo

possibile inventare ricordi
infanzia sommersa
germogli tra cataste
di neve dura sotto ombre sottili

Il cortile fatto corteccia di ghiaccio per sentieri
appena suggeriti

sedimentate conchiglie (questa mia memoria
di fuochi spenti le pareti di una fantasia mai
avuta
presto orecchio a modulate sirene
il mare
quanto è lontano
il colore del mare onde di delfini sul filo d’orizzonte)

nettamente distinguo la mia voce:

-ma se mi prendi sono morta
la mia ombra
l’ombra mama mi insegue
segue me sotto la neve
mama portami via o mi prende per sempre-

e ancora temo la mia ombra
come mai il terrore adesso
in questi ricordi d’accatto anche i colori
sono dure lame

inverno
lastra spessa traspare solo a tratti
la ghiaia del selciato
lontana per l’infinita distanza
che mi separa dalla mia ombra
senza rimedio

è la testa a scoppiare nei segreti
in vetrina
nulla più da coprire una
donna
senza infanzie d’amore

Elia Malagò da Incauta solitudine-Poesie 1999-2009, Passigli Editore

la macchina del tempo

 

In rete uno sconosciuto carica una foto/un video di un momento non necessariamente importante della propria vita: immaginiamo che questo signore scelga la foto di gruppo che ritrae un divertente bagno di mezzanotte alla Secca di Moneglia, immortalato nei primi minuti del 13 agosto 1991 e immaginiamo
ora che, proprio e solo in questa foto, si veda sullo sfondo il terrazzino della camera numero 12 dell’Hotel Leopold e un signore che fuma una sigaretta (la sua ultima). Lo sconosciuto carica la foto/il video su facebook o su youtube indicizzando con la seguente dicitura “La Secca, Moneglia, 13 agosto 1991″.
Ora invece ecco un’altra persona che sceglie di caricare in rete la foto o il video di una serie di onde di una mareggiata a Moneglia avvenuta in un giorno di luglio alla fine degli anni ’70 e, per caso o per scelta, include nello sguardo dell’obiettivo l’ abbraccio salvifico di un bambino intorno al piccolo tronco di una bambina che arriverà ad essere un albero carico di frutti grati.

Questa è la mia macchina del tempo. Io non potrò viaggiare fino alla mia infanzia, ma grazie alla precisa
indicizzazione di ciascuna foto e di ciascun video, forse i miei figli potranno viaggiare nel proprio tempo (non quello scelto dall’occhio dei genitori), almeno virtualmente.

Le foto che si scattano in famiglia e tra amici non sono davvero quelle rappresentative degli istanti di “radicamento”. Le foto/i video scattate/ripresi da sconosciuti possono invece casualmente cristallizzare quei momenti. La foto della bambina che rotola sulla sabbia, immaginando di lottare con il lupo, non sarà memorabile per lei (che giocava alla lotta ma non è uscita mutata dal gioco): sarà solo una bella foto, ben scattata, forse poetica.

 

Ci si radica inconsapevolmente, non è possibile riconoscere un momento come importante (e quindi scegliere di fotografarlo) mentre lo si vive. Non si può essere testimoni della propria vita (artificio dell’autobiografia).

L’unica foto che mi sorprende in uno dei momenti di ‘radicamento’ è quella che chiamo “Una giornata perfetta”: mio padre la scattò in un giardino labirintico e a terrazze a Molinetti di Recco nel 1979 e lui fu uno sconosciuto inconsapevole  dell’importanza di quell’istante; altrimenti non avrebbe scattato la foto.

 

Se volete donare una macchina del tempo ai posteri, indicizzate esattamente le foto e i video oppure seguite l’articolo di Chiara Somajni nell’inserto Domenica del Sole 24 ore del 30 maggio 2010

http://www.librinecessari.it/macchina del tempo.jpg

per alan

 

Orfeo. Euridice. Ermete di Rainer Maria Rilke

Orfeo. Euridice. Ermete

Era la prodigiosa miniera delle anime.
Come vene d’argento silenziose
scorrevano il suo buio. Tra radici
sgorgava il sangue che affluisce agli uomini
e greve come porfido appariva nel buoi.
Di rosso altro non c’era.

Rupi c’erano,
selve incorporee e ponti sul vuoto
e quell’enorme, grigio, cieco stagno,
sospeso sopra il suo lontano fondo
come cielo piovoso su un paesaggio.
E in mezzo a prati miti di pazienza,
pallida striscia, un unico sentiero era visibile
come una lunga tela distesa ad imbiancare.

E per quest’unico sentiero essi venivano.

In testa l’uomo snello in manto azzurro,
guardando innanzi muto e impaziente
divorava la strada col suo passo
a grandi morsi senza masticarla. Gravi, chiuse,
dalle pieghe del manto pendevano le mani,
dimenticata ormai la lieve lira
ch’era incarnata nella sua sinistra
come tralci di rosa nel ramo dell’ulivo.
Ed i suoi sensi erano in due divisi:
mentre l’occhio in avanti correva come un cane,
tornava ed ogni volta nuovamente lontano
alla prossima svolta era ad attenderlo –
l’udito gli restava – come un odore – indietro.
Talora gli sembrava di percepire il passo
degli altri due viandanti che dovevano
seguirlo fino al colmo dell’ascesa.
Poi nient’altro che l’eco del suo ascendere
dietro di lui e il vento del suo manto.
E tuttavia venivano, si disse
a voce alta, e udì perdersi la voce.
Venivano, gli parve, ma con passo inudibile,
i due. Se per un attimo
gli fosse dato volgersi (se il volgersi a guardare
non fosse la rovina dell’intera sua opera
prima del compimento) li vedrebbe
i silenziosi due che lo seguivano:

il dio dei viandanti e del messaggio
lontano, sopra gli occhi chiari il pètaso,
lo snello caducèo proteso innanzi,
e alle caviglie il battito dell’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.

La Tanto-amata che un’unica lira
la pianse più che schiera di prèfiche nel tempo,
e dal lamento un mondo nuovo nacque,
ove ancora una volta tutto c’era: selva, valle,
paesi, vie, e campi, e fiumi e belve;
e intorno a questo mondo del lamento
come intorno ad un’altra terra, un sole
ed un cielo stellato taciti si volgevano,
un cielo del lamento pieno di astri stravolti -:
Lei, la Tanto-amata.

Ma ella andava alla mano di quel dio,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza;
chiusa in sé come un grembo che prepari una nascita,
senza un pensiero all’uomo innanzi a lei,
né alla via che alla vita risaliva.
Chiusa era in sé. E il suo essere morta
la riempiva come una pienezza.
Come d’oscurità e dolcezza un frutto,
era colma della sua grande morte,
così nuova che tutto le era incomprensibile.
Ella era in una verginità nuova
ed intangibile. Il suo sesso chiuso
come un giovane fiore sulla sera,
e le sue mani erano così immemori
di nozze che anche il dio che la guidava
col suo tocco infinitamente lieve,
come un contatto troppo familiare l’offendeva.

E non era più lei la bionda donna
che echeggiava talvolta nei canti del poeta,
isola profumata in mezzo all’ampio letto;
né più gli apparteneva.

Come una lunga chioma era già sciolta,
come pioggia caduta era diffusa,
come un raccolto in mille era divisa.

Ormai era radice.

E quando il dio bruscamente
fermatala, con voce di dolore
esclamò: Si è voltato -,
lei non capì e in un soffio chiese: Chi?

Ma in lontananza – oscuro contro la soglia chiara –
qualcuno in volto non riconoscibile
immobile guardava
la striscia di sentiero in mezzo ai prati
dove il dio messaggero, l’occhio afflitto,
si voltava in silenzio seguendo la figura
che per la via di prima già tornava,
e il passo le inceppavano le lunghe bende funebri,
incerta, mite e senza impazienza.

traduzione di Giacomo Cacciapaglia