Zachar Pavlovic, nonostante lo sgomento, pensava al futuro:
“Basta ululare, Nikìforovna” disse a una delle contadine che singhiozzava ad alta voce gridando i tradizionali lamenti funebri. “Se urli, non è per il dolore, ma per essere pianta anche tu quando morirai. Prenditi piuttosto il bambino, tanto ne hai già sei, uno in più in qualche modo camperà”.
Nikìforovna tornò immediatamente nel suo senno di donna e il suo viso si asciugò assumendo un’espressione feroce: piangeva con le sole grinze, senza lacrime:
“Lo dici tu! Ora camperebbe, sì, in qualche modo, ma aspetta che cresca! Quando comincerà a rimpinzarsi e a strappare i calzoni, chi ce la fa a mantenerlo?”
Un’altra donna, Mavra Dvànova, madre di sette figli, si prese il bimbo. Lui le prese la mano, lei gli asciugò la faccia con la gonna, gli soffiò il naso e condusse l’orfanello nella sua isba.
da Il villaggio della nuova vita, Andréj Platonov, Mondadori, 1972, trad. di Maria Olsùfieva