
Vedere suppone la distanza, la decisione separatrice, il potere di non essere in contatto e di evitare nel contatto la confusione. Vedere significa che questa separazione è diventata tuttavia incontro. Ma che cosa avviene quando ciò che si vede, benché a distanza, sembra toccarvi con un contatto penetrante, quando la maniera di vedere è una sorta di tatto, quando vedere è un contatto a distanza? Quando ciò che è visto si impone allo sguardo come se lo sguardo fosse preso, toccato, posto in contatto con l’apparenza? Non un contatto attivo, quel che ci può essere ancora di iniziativa e di azione in un vero toccare; lo sguardo è attratto e assorbito in un movimento immobile e in un fondo senza profondità. Attraverso un contatto a distanza ci è data l’immagine, e la fascinazione è passione dell’immagine.
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La fascinazione è lo sguardo della solitudine, lo sguardo dell’incessante e dell’interminabile in cui la cecità è ancora visione, visione che non è più possibilità di vedere, ma impossibilità di non vedere, l’impossibilità che si fa vedere e persevera – sempre e sempre- in una visione senza fine: sguardo morto, sguardo diventato il fantasma di una visione eterna.
Di chiunque è affascinato si può dire che non scorge nessun oggetto reale, nessuna figura reale, poiché ciò che vede non appartiene al mondo della realtà, ma all’ambiente indeterminato della fascinazione. Ambiente per così dire assoluto. La distanza non ne è esclusa, ma è esorbitante, essendo la profondità illimitata che è dietro l’immagine: una profondità non viva, non maneggiabile, presente in maniera assoluta benché non data, dove sprofondano gli oggetti quando si allontanano dal loro senso, quando si immergono nella loro immagine. Questo ambiente della fascinazione, dove ciò che si vede afferra la vista e la rende interminabile, dove lo sguardo si fissa in luce, dove la luce è la lucentezza assoluta di un occhio che non vediamo, e che però non cessiamo di vedere, poiché è il nostro sguardo che si riflette come in uno specchio, questo ambiente è, per eccellenza, attraente, affascinante: la luce che è anche abisso, una luce in cui ci si inabissa, spaventevole e seducente.
Se l’infanzia ci affascina, è perché l’infanzia è il momento della fascinazione, è essa stessa affascinata, e questa età dell’oro sembra immersa in una luce splendida perché non rivelata: essa è estranea alla rivelazione, non ha niente da rivelare, è puro riflesso, raggio che non è ancora altro che l’irradiarsi di una immagine.
da La solitudine essenziale, in Lo spazio letterario, Maurice Blanchot, Einaudi, trad.di Goffredo Fofi