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il “Sì” leggero, innocente, della lettura

La lettura è più positiva della creazione, più creatrice, sebbene non produca niente. Essa partecipa della decisione, ne ha la leggerezza, l’irresponsabilità e l’innocenza. Essa  non fa niente, e tutto è compiuto. A Kafka l’angoscia, i racconti incompiuti, il tormento di una vita perduta, di una missione tradita, ogni giorno trasformato in esilio, ogni notte esiliata dal sonno e, per finire, la certezza che “La Metamorfosi” è illeggibile, radicalmente fallita”. Ma al lettore di Kafka l’angoscia che diventa scioltezza felice, il tormento della colpa che si muta in innocenza e, per ogni brano del testo, il rapimento della pienezza, la certezza del compimento, la rivelazione dell’opera unica, inevitabile, imprevedibile. Tale è l’essenza della lettura, del Sì leggero che, ben più della cupa lotta del creatore con il caos in cui cerca di sparire per rendersene padrone, evoca la parte divina della creazione.

da Lo spazio letterario, Maurice Blanchot, Einaudi, trad. G.Fofi

 

che cos’è disegnare?

Che cos’è disegnare? Come ci si arriva? è l’azione di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile, che sembra trovarsi tra ciò che si sente e ciò che si può. Come si deve attraversare questo muro, poiché non serve a niente battere forte, bisogna minare il muro e trapassarlo con la lima – lentamente e con pazienza, direi.

Vincent Van Gogh, citato (nota 1, p.106) da Maurice Blanchot ne Lo spazio letterario, Einaudi

appunti per Mi chiamo M.M. n.15

Pamina antropomorfa

Vedere suppone la distanza, la decisione separatrice, il potere di non essere in contatto e di evitare nel contatto la confusione. Vedere significa che questa separazione è diventata tuttavia incontro. Ma che cosa avviene quando ciò che si vede, benché a distanza, sembra toccarvi con un contatto penetrante, quando la maniera di vedere è una sorta di tatto, quando vedere è un contatto a distanza? Quando ciò che è visto si impone allo sguardo come se lo sguardo fosse preso, toccato, posto in contatto con l’apparenza? Non un contatto attivo, quel che ci può essere ancora di iniziativa e di azione in un vero toccare; lo sguardo è attratto e assorbito in un movimento immobile e in un fondo senza profondità. Attraverso un contatto a distanza ci è data l’immagine, e la fascinazione è passione dell’immagine.

(…)

La fascinazione è lo sguardo della solitudine, lo sguardo dell’incessante e dell’interminabile in cui la cecità è ancora visione, visione che non è più possibilità di vedere, ma impossibilità di non vedere, l’impossibilità che si fa vedere e persevera – sempre e sempre- in una visione senza fine: sguardo morto, sguardo diventato il fantasma di una visione eterna.
Di chiunque è affascinato si può dire che non scorge nessun oggetto reale, nessuna figura reale, poiché ciò che vede non appartiene al mondo della realtà, ma all’ambiente indeterminato della fascinazione. Ambiente per così dire assoluto. La distanza non ne è esclusa, ma è esorbitante, essendo la profondità illimitata che è dietro l’immagine: una profondità non viva, non maneggiabile, presente in maniera assoluta benché non data, dove sprofondano gli oggetti quando si allontanano dal loro senso, quando si immergono nella loro immagine. Questo ambiente della fascinazione, dove ciò che si vede afferra la vista e la rende interminabile, dove lo sguardo si fissa in luce, dove la luce è la lucentezza assoluta di un occhio che non vediamo, e che però non cessiamo di vedere, poiché è il nostro sguardo che si riflette come in uno specchio, questo ambiente è, per eccellenza, attraente, affascinante: la luce che è anche abisso, una luce in cui ci si inabissa, spaventevole e seducente.
Se l’infanzia ci affascina, è perché l’infanzia è il momento della fascinazione, è essa stessa affascinata, e questa età dell’oro sembra immersa in una luce splendida perché non rivelata: essa è estranea alla rivelazione, non ha niente da rivelare, è puro riflesso, raggio che non è ancora altro che l’irradiarsi di una immagine.

da La solitudine essenziale, in Lo spazio letterario, Maurice Blanchot, Einaudi, trad.di Goffredo Fofi

esistenza che non è ormai altro che una verticale ostinazione

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“L’aurora, riapparendo, mi trova nella medesima posizione, col corpo appoggiato verticalmente, e ritto contro l’intonaco del muro freddo”, e, tuttavia, neppure per un attimo è stata persa “la libera facoltà di muovermi”. E come ritroviamo qui, ma in tutta la sua “luce”, la strana postura di Maldoror quando, accovacciato, e poi in piedi, girava la testa per ore intere

(…)

” Ogni mattina, quando il sole s’alza per gli altri, spargendo per tutta la natura la gioia e il calore salutari, guardando fissamente lo spazio pieno di tenebre (…) come un condannato che saggia i propri muscoli, riflettendo sulla loro sorte ora che sta per salire al patibolo, in piedi, sul mio pagliericcio, a occhi chiusi, giro lentamente il collo da destra a sinistra, da sinistra a destra, per ore intere; non cado morto stecchito”, strofa VIII

Maurice Blanchot sui Canti di Maldoror, di Lautréamont. Suo fratello

a M.P.

un critico, un lettore…

e gli dei stanno a guardare

Un critico, un lettore, non si sbagliano mai del tutto su un’opera quando la sopravvalutano, a condizione che questo non sia il risultato di vane lodi, ma dello sforzo, anche se esagerato, per riconoscervi lo sviluppo di una verità importante.

da L’esperienza di separazione in Lautréamont e Sade, Maurice Blanchot, SE Studio Editoriale, trad.di Vincenzo Del Ninno

per Feder(f)ico

sulla lettura

Perché la lettura sia reale e resti quello che dev’essere, una passività sovrana, la distanza fra il lettore e l’opera non deve forse essere la più grande possibile? La comunicazione non è forse vera solo nel caso in cui si produce a partire da una lontananza infinita, quando, per due esseri, essa diventa la prospettiva di un allontanamento che avvicina, il luogo in cui l’incommensurabile è preso come misura comune?

da L’esperienza di separazione in Lautréamont e Sade, Maurice Blanchot, SE Studio Editoriale, trad.di Vincenzo Del Ninno