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appunti per Mi chiamo M.M. n.11

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Più si acquista la consuetudine del pensiero filosofico, e più si tocca con mano che il filosofo è artista. Non già uno che sa, ma uno che guarda (…): che, cioè, come l’artista, ha una sua certa visione personale delle cose e le esprime nel modo in cui vede. Così egli fa, al pari del poeta, nei trattati i suoi poemi, nei saggi o nei “frammenti” le sue liriche.

da Lettere spirituali, Giuseppe Rensi, Bocca, 1943

per Giacomo Leopardi, Maria Zambrano, Carlo Michelstaedter, Giovanni Amelotti, Wallace Stevens

persona

Edward Steichen

Il desiderio di essere riconosciuti dagli altri è inseparabile dall’essere umano. Questo riconoscimento gli è, anzi, così essenziale, che, secondo Hegel, ciascuno è disposto a mettere in gioco la propria vita. Non si tratta, infatti, semplicemente di soddisfazione o di amor proprio: piuttosto è soltanto attraverso il riconoscimento degli altri che l’uomo può costituirsi come persona.

Persona significa in origine “maschera” ed è attraverso la maschera che l’individuo acquista un ruolo e un’identità sociale. Così, a Roma, ogni individuo era identificato da un nome che esprimeva la sua appartenenza a una gens, a una stirpe, ma questa era, a sua volta, definita dalla maschera di cera dell’antenato che ogni famiglia patrizia custodiva nell’atrio della propria casa. Di qui a fare della persona la “personalità” che definisce il posto dell’individuo nei drammi e nei riti della vita sociale, il passo è breve e persona finì col significare la capacità giuridica e la dignità politica dell’uomo libero. Quanto allo schiavo, così come non aveva né antenati, né nome, non poteva nemmeno avere una “persona”, una capacità giuridica (servus non habet personam). La lotta per il riconoscimento è, dunque, lotta per una maschera, ma questa maschera coincide con la “personalità” che la società riconosce a ogni individuo (o col “personaggio” che, con la sua connivenza a volte reticente, essa fa di lui).

Non stupisce che il riconoscimento della propria persona sia stato per millenni il possesso più geloso e significiativo. Gli altri esseri umani sono importanti e necessari innanzitutto perché possono riconoscermi. Anche il potere, anche la gloria, anche le ricchezze, a cui gli “altri” sembrano essere così sensibili, hanno senso, in ultima analisi, solo in vista di questo riconoscimento dell’identità personale. Si può certo, come si dice amasse fare il califfo Baghdad Hārūn al-Rashid, camminare in incongnito per le vie della città vestiti come mendicanti; ma se non ci fosse mai un momento in cui il nome, la gloria, le ricchezze e il potere fossero riconosciuti come “miei”, se, come certi santi raccomandano di fare, io vivessi tutta la vita nel non-riconoscimento, allora anche la mia identità personale sarebbe perduta per sempre.

da Nudità, Giorgio Agamben, Nottetempo

grandezza e servitù della donna

Nel continuare la recensione del libro di Pittalunga₁, la filosofa (María Zambrano) nota che il sottotitolo recita Situación de la Mujer en la Historia, collocando la ricerca tra i libri di storiografia, motivo per cui la critica della filosofa si fa severa: “La prima cosa che avrebbe dovuto fare l’autore era porsi il problema essenziale, non certo quello della donna nella Storia, ma della Storia in se stessa”.
Diviene chiarissima la posizione politico-filosofica di María Zambrano: è sbagliato impostare la questione in modo che sembri un problema delle donne quello di occupare qualche posto nel farsi della storia, come ha fatto un certo femminismo che ha cercato di collocarle dove non sono state previste e nemmeno viste; è la Storia stessa il problema, il fatto cioè che esista qualcosa che ha questo nome e che procede mangiandosi, simbolicamente e anche concretamente, vite umane. Allora, il problema vero diviene conoscere come si vive il tempo, che senso danno al tempo uomini e donne.

da Una filosofa innamorata. María Zambrano e i suoi insegnamenti, Annarosa Buttarelli, Bruno Mondadori

₁: Grandeza y servidumbre de la mujer, Gustavo Pittalunga

per favore, un po’ di fedeltà!

Lo scrivere richiede fedeltà prima di ogni altra cosa: essere fedeli a ciò che chiede di essere tratto fuori dal silenzio. Una cattiva trascrizione, un’interferenza delle passioni (…) distruggeranno la fedeltà dovuta (…). Così l’essenza dell’uomo scrittore si forma in questa fedeltà con cui egli trascrive il segreto che rende pubblico(…) senza permettere alla vanità di proiettare la sua ombra e sfigurarla. Se infatti lo scrittore rivela il segreto non è per un atto di volontà, né per l’ambizione di mostrarsi qual è(…). In realtà esistono segreti che esigono di per se stessi di essere rivelati, resi pubblici.

da Perché si scrive, in Verso un sapere dell’anima, María Zambrano, Raffaello Cortina Editore, trad.di Eliana Nobili

 

il punto oscuro e la croce

casa-vascello di Luca Donnini

Quando si erge nei suoi assalti e precisamente nella calma, l’io si fa sentire come un punto oscuro. E la calma si va mutando in semplice immobilità e il tempo si condensa, opprime il cuore. Tra il pensare e il sentire non si stabilisce alcuna comunicazione e i sensi – infallibili indicatori- si ritraggono. La percezione nitida nulla apporta, nulla rivela. Ma poi, in un attimo, il punto oscuro dell’io si viene a trovare come centro di una croce; allora, senza il minimo sussulto, il cuore occupa il suo posto, si fa centro.
E l’essere si sente steso su una croce formata dal tempo e dall’eternità. E questo che si incrocia con l’eternità non è un semplice tempo successivo; si apre o è in procinto di aprirsi in molteplici dimensioni. Il cuore del tempo raccoglie il palpitare dell’eternità, l’aprirsi dell’eternità. E il tempo fluisce come fiume dell’eternità.
E se fosse sempre così, se l’essere umano si mantenesse sempre teso su questa croce, la sua sarebbe vera vita. Ma non può accadere così da sé. O meglio, al contrario, solo da sé potrebbe essere così sempre. Ma intanto, il cuore ancora oscuro, con la sua passività, un vasto col suo vuoto e nient’altro, dovrebbe essere il centro, senza sottomettersi all’io che lo soppianta.

da Chiari del bosco, Maria Zambrano, Mondadori, trad.di Carlo Ferrucci

 

 

il mio saluto alla chiusura di splinder


The very young world, Peggy Bacon, 1928

 

Quali radici hanno in noi pensiero e poesia? Per il momento, più che cercare la loro definizione, ci interessa la necessità, l’estrema necessità, che le due forme della parola possono colmare. Qual è l’indigenza d’amore alla quale mettono riparo? E tra le due necessità, qual è la più profonda, sorta nei recessi più nascosti della vita umana? Quale la più imprescindibile?
Se il pensiero è nato solo dalla meraviglia, secondo quanto tramandato da testi illustri, non si spiega certo facilmente come ben presto abbia preso forma di filosofia sistematica; non si spiega neanche come una delle sue migliori virtù sia stata l’astrazione, questa idealità conseguita con lo sguardo, sì, ma con un genere di sguardo che ormai ha cessato di vedere le cose. Perché lo stupore che produce in noi la generosa esistenza  della vita che ci circonda è tale da non permettere un così rapido distacco dalle molteplici meraviglie che l’hanno suscitato. E proprio come la vita, tale stupore è infinito, insaziabile e non disposto a decretare la propria morte.

da Filosofia e poesia, Maria Zambrano, Pendragon, trad.di Lucio Sessa

Maria cara

í

María cara,
tu mi hai salvato dalla confusione. Lascia che io ti aiuti nella fatica: portare i battenti della porta di Gaza in cima alla montagna -(conosco bene ogni pietra, e posso servirti, con umiltà e precisione.)
Tu mi hai detto: “la paura è il demonio stesso” e questo mi ha salvato, in un momento di orrore. Lascia che te lo dica io, nel momento dell’ansia -non avere paura, cara- e lascia che io ti aiuti in silenzio, minutamente.

Vittoria

da Se tu fossi qui. Lettere a María Zambrano 1961-1975, Cristina Campo, Archinto

allo specchio

Molly Bloom allo specchio

Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso, rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. Non ci potrebbe essere realtà consolidata in oggetto, con quella specie di invulnerabilità trasparente che hanno gli oggetti, se non ci fosse una sorta d’amore verso la realtà che è capace di superare l’insuccesso. Tuttavia, la fiducia originaria che abbiamo segnalato in alcuni casi è stata indubbiamente smentita e continua a esserlo. Molte cose ingannano; l’inganno è d’altronde l’esperienza necessaria perché qualcosa si trasformi in oggetto, vale a dire, come è risaputo, in qualcosa che ci sta di fronte, che si è reso indipendente, che si è separato da noi e ha esistenza autonoma.
Il risveglio dall’inganno prodotto dalle apparenze si ha quando incontriamo realmente gli oggetti, anche se, si sa, non tutti gli uomini e non tuttel le culture hanno saputo o voluto farlo.

(…)

L’oggetto è qualcosa che ci sta davanti, quindi qualcosa che ci limita, di fronte al quale dobbiamo fermarci. Non potrebbe esistere senza un certo innamoramento, che è sempre un fermarsi e annullarsi per far posto a ciò che altrimenti non avrebbe per noi esistenza piena, se non fosse appunto per questo vuoto che produciamo annullandoci, e che non si sarebbe potuto trovare lì dov’è se avesse fatto irruzione in esso. Così come nella schiavitù di cui abbiamo parlato la realtà, quella realtà più invulnerabile e trasparente che è costituita dall’oggetto, ci si fa presente grazie a una certa schiavitù. Si tratta della relazione tra amore e conoscenza, su cui poco si è detto da Platone in poi. Ciò che egli stesso in definitiva ci dice è che l’innamorarsi di un essere concreto, di un nostro simile, è un’esperienza necessaria per arrivare alle idee, alla conoscenza della vera realtà: la realtà invulnerabile.

da Verso un sapere dell’anima, Maria Zambrano, Raffaello Cortina Editore, trad.di Eliana Nobili

Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento ef­fettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lon­tananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
È una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espres­sione immediata, quella che sgorga dalla nostra spon­taneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamen­te la responsabilità, perché non emana dalla totalità in­tegrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’ esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo li­beri, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né per­tanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla suc­cessione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. E’ una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta.
E da questa sconfitta intima, umana, non di un singolo uomo ma dall’essere umano, nasce l’esigenza di scrivere. Si scrive per rifarsi della sconfitta subita ogniqualvolta abbiamo parlato a lungo. La vittoria del resto, può darsi solo dove si è subita la sconfitta, nelle stesse parole. Queste stesse parole, avranno ora, nello scrivere, una diversa funzione: non serviranno più il momento oppressore, non serviranno più a giustificarci di fronte all’assalto del momentaneo, bensì, partendo dal centro del nostro essere raccolto in se stesso, ci difenderanno di fronte alla totalità dei momenti, di fronte alla totalità delle circostanze, di fronte alla vita intera.

da Verso un sapere dell’anima, Maria Zambrano, Raffaello Cortina Editore, traduzione a cura di Rosella Prezzo

il centro e l’angoscia

foto di Lorenzo Gramaccioni

 

Sopraggiunge, l’angoscia, quando si perde il centro. Essere e vita si separano. la vita è privata dell’essere, immobilizzato, giace senza vita e senza avviarsi per questo né trovarsi a morire. Giacché per morire bisogna essere vivo e per il trapasso, vivente.
(“Che io, Sancho, nacqui per vivere morendo” è una confessione di un essere, oltre che vivo, vivente.)
L’essere senza alcun contatto col suo centro giace, assoluto in quanto diviso; separato, solitario. Senza nome. Ignaro, inaccessibile. peggio di un qualcosa, avanzo di qualcuno. Sprofonda senza per questo discendere né muoversi, né soffrire alterazione alcuna, resiste alla disgregazione incombente. è tutto.
E la vita semplicemente si riversa dall’essere decentrato. Non trova luogo che l’accolga, rimessa alla sua sola vitalità. Angoscia del giovane, dell’adolescente e persino del bimbo che vaga e ha tempo, tutto il tempo, un tempo inabitabile, inconsumabile, situazione derivata dal non sottostare a un essere e, per suo tramite, a un centro. Tende a tornare alla sua condizione primaria, all’avidità colonizzatrice; si disperde e annega persino in se stessa, acqua senza sponde, finché non incontra, se ha la fortuna di incontrarla, la pietra.

da Chiari del bosco, Maria Zambrano, Bruno Mondadori, trad.di Carlo Ferrucci