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Mitopoiesi di M.

 Come siamo abituati a immaginare l’esercizio di una professione, di un mestiere, di un’attività produttiva?

 Nella millenaria storia dell’uomo, dalle primitive forme di pastorizia e agricoltura, fino ad arrivare ai manager della City e agli yuppies di Wall Street (senza dimenticare tutti i luoghi delle possibili incarnazioni dell’operaio a partire dalla rivoluzione industriale, dal Falansterio alle presse dell’Ilva),  l’idea del lavoro si è indissolubilmente legata, se non alla fatica e allo sfinimento, quanto mano al movimento, all’azione, all’opera che testimonia la laboriosità dell’individuo.

 M., al contrario, si guadagna da vivere stando ferma, quasi immobile. Certo, nella libreria che divide con il suo socio nel centro di Roma, ogni tanto si alza dallo sgabello: negli scaffali cerca i libri che i clienti le chiedono, li sistema e cataloga, oppure prepara le scatole per i mercati della domenica; ma la sua occupazione si svolge sostanzialmente mediante il silenzio e la fissità, discrezione passiva che è si un invito per il lettore a una libera scelta, ma anche una forma di pudore per l’inconscio filo rosso che la collega alla serietà di un mestiere e una tradizione antichissima.

 Date le premesse, quei mille euro portati a casa ogni mese, sono per lei tutto e niente: parecchio se rapportati a un’impresa antieconomica in tempo di editoria digitale, kindle e dominio dei grandi marchi, poco per sentirsi soddisfatta del contributo dato alla famiglia. Ogni giorno M.  sperimenta, attraverso la sua complicata relazione con il denaro, l’effetto della consapevole scelta di collocare la propria attività imprenditoriale al di fuori dei meccanismi seduttivi del commercio moderno; da qui la difficoltà di instaurare un rapporto “funzionale” con i soldi e lo scomodo e invadente senso di gratitudine verso chi la sostiene stabilmente, oltre l’impossibilità di liberarsi dal pensiero quotidiano di dover fronteggiare i bisogni e far quadrare i conti, unico effettivo cedimento della propria tenace autonomia e indipendenza.

 Ma a bordeggiare tra l’ansia delle privazioni e lo spettro dell’indigenza da una parte, l’acquisto di un profumo artigianale francese o un libro che desidera dall’altra, M. è ormai abituata, e cosi le sole rinunce imposte dal censo lambiscono più il sogno che la vita effettiva: una casa a picco sugli scogli del Mar Ligure, lunghe vacanze, un maggior godimento della natura. Non è certo il volume del portafogli comunque a dettare la sua agenda sociale, che per stare in compagnia degli amici basta la voglia d’ascoltare e un buon ragù, e poi la solitudine è per lei momento prezioso, quello in cui provare a fronteggiare il perenne assedio delle librerie di casa, dedicandosi a una tra le principali fonti di piacere e riflessione della sua vita: la lettura. Poesia, letteratura, filosofia, cinema, saggi che spaziano dai buchi neri alla fotografia, poco o nulla sfugge alla voracità epistemologica di M.! Solo l’attualità politica e la cronaca giornalistica sono scientemente disertate dalla sua curiosità; quel chiacchiericcio, l’intrattenimento, i pettegolezzi elevati alla dignità di notizia, nulla la disturba di più. Così, il rumore di fondo al sapore di razzismo e presunzione,  che sembra essere in tempi recenti la specialità della casa degli italiani, finisce per allontanare dagli altri una come lei, per natura generosa e attenta al prossimo.

 Il paese in cui vive ha un valore puramente anagrafico nella storia di M., e lei, più istriana che milanese nonostante i natali (con l’aggiunta di quarti caldei e transilvani), dell’Italia, “luogo disonesto, sporco e stolido, incapace di valorizzare talenti e risorse e dedito alla dissipazione”, se ne frega. La realtà non si cambia né con il voto democratico né con Dio: se il primo è un lusso dell’egualitarismo, con il tragico inganno del suffragio universale impietosamente svelato dalla miseria di una consapevolezza elettorale da bar, priva di cultura, studio e preparazione, il secondo è questione troppo intima e complessa per reggere il peso di un rinnovamento sociale. Così la sua pratica quotidiana, da “agnostica senza fede mascherata da atea”, è tutta indirizzata a spremere il presente e farsi trovare ben pronta dalla morte, “certa di aver compiuto il massimo e in pace con le proprie aspettative”. Ci prova M., e forse ci riuscirà, se tutto quello che desidera oggi “è quello che ha”.

Lorenzo Gramaccioni

dissipatio humani generis

(…)

Il cartellone-paesaggio, il sole a picco delle Bahamas, l’arena bianca, l’invito “Let’s fly down there Where life is better…”: e se l’Exitus de Aegypto, fosse stato un exitus ad Bahamas? O altre inidentificate Isole Felici?
Chi se ne va da questo mondo “passa a miglior vita”, dicevano. E il cartellone invitava appunto a andare “dove la vita è migliore”. La morte-premio, come emigrazione turistica collettiva, si può concepire, in un secolo, com’era il nostro, vastamente dedito all’educativo esercizio del viaggiare.
Il turismo, surrogato della mobilitazione generale, diceva Hans Enzensberger.
Però si pone il problema logistico. La ‘recettività’ ha la sua importanza anche per i puri spiriti. Né le Bahamas, né tutte le Antille messe insieme, potrebbero ospitare una così smisurata collettività. Il paradiso deve pure offrire un minimo di comfort.
Faccio ritorno alla mia prima ipotesi. Volatilizzazione – sublimazione. Sublimazione – assunzione (nei cieli).
Vediamo. C’è una mia vecchia lettura, un testo di Giamblico, che ho avuto sott’occhio non ricordo per che ricerca. Parlava della fine della specie e s’intitolava Dissipatio Humani Generis. Dissipazione non in senso morale. La versione che ricordo era in latino, e nella tarda latinità pare che valesse ‘evaporazione’, ‘nebulizzazione’, o qualcosa di ugualmente fisico e Giamblico accennava nella sua descrizione appunto a un fatale fenomeno di questo tipo. Rispetto ad altri profeti era meno catastrofico: niente diluvio, niente olocausto “solvens saeclum in favilla”, assimilabile oggi a un’ecatombe atomica. Gli esseri umani cambiati per prodigio improvviso in uno spray o gas impercettibile (e inoffensivo, probabilmente inodoro), senza combustione intermedia. Il che, se non glorioso, perlomeno è decoroso.

da Dissipatio H.G. di Guido Morselli

foto di Lorenzo Gramaccioni

i miei nuclei di condensazione

In tutti i tempi sono sorti uomini eccezionali

(…)

Perché i santi hanno così degli imitatori, e perché i grandi propagatori di bene hanno trascinato dietro di sé folle? Essi nulla domandano, e tuttavia ottengono. Non hanno bisogno di esortare; non hanno che da esistere: la loro esistenza è un richiamo. Tale infatti è il carattere di quest’altra morale. Mentre l’obbligazione naturale è pressione o spinta, nella morale completa e perfetta c’è un richiamo.
La natura di questo richiamo l’hanno conosciuta interamente solo coloro che si sono trovati in presenza di una grande personalità morale; ma ciascuno di noi, in momenti nei quali le sue massime abituali di condotta sembravano insufficienti, si è domandato che cosa quel tale o quel tal altro avrebbe atteso da lui in simile occasione. Questo poteva essere un parente, un amico, che evocavamo così col pensiero; ma poteva anche essere un uomo che non avevamo mai incontrato, di cui ci avevano semplicemente raccontato la vita, e al giudizio del quale sottomettevamo allora, in immaginazione, la nostra condotta, temendo da lui un biasimo, fieri della sua approvazione. Poteva anche essere, tratta dal fondo dell’anima al lume della coscienza, una personalità che nasceva in noi, che sentivamo capace di invaderci interamente più tardi, e alla quale volevamo attaccarci per il momento come fa il discepolo con il maestro.

da Le due fonti della morale e della religione, Henri Bergson, SE Studio Editoriale, trad.di Mario Vinciguerra

Primavera, è tardi


al Gran Sasso, foto di Lorenzo Gramaccioni

Amore che mi guardi

da muri ciechi, scendi da specchiere
nere, mi scuoti: – Primavera è tardi,
corri, che l’azalea vuole sfiorire.-
– Dove mi chiami, rosa, non ho voglia,
ho sonno e sono stanco di partire.
La scena è pronta, affàcciati alla soglia
dei tuoi armadi. Ridammi il lampo scuro,
il gambo della breve fioritura.-
L’urlo del fiore che stanotte è solo.

da Stanze sulla polveriera, Pietro Cimatti, Rusconi

alba


Verità nei boschi, Lorenzo Gramaccioni

Ho abbracciato l’alba d’estate.

Sulla fronte dei palazzi ancora nessun segno di vita. L’acqua era morta. le zone d’ombra non lasciavano la strada del bosco. Ho camminato, risvegliando gli aliti vivi e tiepidi, e le gemme guardarono, e le ali senza rumore si levarono.

La prima impresa fu, nel sentiero già pieno di freschi e pallidi bagliori, un fiore che mi disse il suo nome.

Risi al wasserfall biondo che si scarmigliò attraverso gli abeti: dalla cima argentata riconobbi la dea.

Allora uno dopo l’altro sollevai i veli. Nel viale, agitando le braccia. Nella pianura, dove l’ho denunciata al gallo. Per tutta la città tra companili e cupole, lei fuggiva, e come un mendicante correndo sulle banchine di marmo, io l’inseguivo.

In cima alla strada, vicino a un bosco di lauri, cingendo la nube dei veli la strinsi, e un poco quel corpo immenso sentii. L’alba e il ragazzo caddero in fondo al bosco.

Al risveglio era mezzogiorno.

Da Illuminazioni, Arthur Rimbaud, SE Studio Editoriale, trad,di Cosimo Ortesta

la parte della gamba


foto di Lorenzo Gramaccioni

 

Il centro del racconto, nel bel mezzo del bosco, la favola dichiara la sua stessa misura, il motore logico nascosto che la mette in movimento. Al centro, il racconto svela la sua cifra latente, quasi incidentalemente: più che naso, Pinocchio ha gambe, e va lontano.
Non ancora adulta, non ancora madre, la bella bambina dai capelli turchini pronuncia la formula fondamentale:”Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che hanno il naso lungo: la tua per l’appunto è di quelle che hanno il naso lungo”. La forma, che sia teorica o oracolare, in ogni caso descrive e crea un buco, una frattura che divide il racconto: da una parte, illuminato, evidente, il naso, dall’altra la gamba, in ombra. Pinocchio non dirà mai bugie dalle gambe corte.
Dopo la morte per impiccagione, dopo il ritorno alla vita, dopo la crisi della bugia (dove sono nascoste le monete?) e la sua soluzione, nel limbo ovattato di una camera di convalescenza, alla luce aurorale o nebbiosa di questo luogo di passaggio del racconto, di passaggio dalla morte alla rinascita, quindi nel luogo leggendario di tutti i passaggi e di ogni trasformazione, là si incastra la leggenda della favola, il metalinguaggio che ne permette e ne indica una possibile decifrazione. Questa formula è un grafo che decide della lettura del racconto; un enigma e un perno, il punto più basso, dove tutta si appoggia la parabola del burattino e dove si assegnano luci e ombre.

Un luogo leggendario che circoscrive una zona di indistinzione, dove si dice ciò che è nascosto e si nasconde il detto: Pinocchio è in gamba, è gamba, nonostante l’enorme visibilità dei rari nasi lunghi. Un motore del resto non è altro che un sistema di sbilanciamento produttivo. La gamba, qui, diventa l’articolazione del racconto, la giuntura, la curva. Etimologicamente. Pinocchio piega, declina, si rivolge, nell’ombra, alla gamba.

Pinocchio trova una soluzione all’enigma: scappa a gambe levate. Si dà a gambe. È la soluzione giusta, è la soluzione errata. Fa sprofondare nel dolore la fatina, sfinge, spingendola nella tomba, mentre si salva da lei, dalle sue lusinghe e dalle sue minacce, Trova l’unica soluzione possibile all’enigma, la soluzione enigmatica, e dà alla fiaba la sua morfologia luminosa.

da Pinocchio: la parte della gamba. Corsa e arresti di un burattino, Francesco Zuccherini