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Otto Kranewitzer, il postino di Klagenfurt

Io: Da allora so cosa è il segreto postale. Oggi sono già in grado di figurarmelo perfettamente. Dopo il caso Kranewitzer ho bruciato la mia posta vecchia di anni, poi ho cominciato a scrivere lettere completamente diverse, per lo più a tarda notte, fino alle otto del mattino. Ma per me contano solo quelle lettere che non ho mai spedito. In questi quattro, cinque anni debbo aver scritto circa diecimila lettere, per me sola, dove c’era tutto. Molte lettere non le apro nemmeno, cerco di esercitarmi nel segreto postale, di elevarmi al livello del pensiero di Kranewitzer, di comprendere cos’è l’illecito, quell’illecito che potrebbe essere costituito dal leggere una lettera.  (…)

Malina: Perché ti sta tanto a cuore il segreto postale?

Io: Non per via di questo Otto Kranewitzer. Per me. Anche per te. E all’università di Vienna ho giurato su quella mazza. Fu il mio unico giuramento. A nessuno, a nessun rappresentante di una religione o di una politica sono stata mai capace di giurare. Già da bambina, quando non riuscivo a difendermi altrimenti, mi ammalavo subito gravemente, avevo delle vere e proprie malattie con la febbre alta, e non mi si poteva costringere a giurare. Tutti quelli che hanno fatto un solo giuramento lo sentono pesare di più. Più giuramenti si possono violare, ma uno solo no.

(pp.214 e 215 ) Malina, Ingeborg Bachmann, Adelphi, trad. di Maria Grazia Manucci

“Quando una donna dice a un uomo, ti strozzo, si tratta di una metafora, perché non ha la forza di farlo. La sua rabbia si rivolge dunque contro se stessa: ogni suicidio è un omicidio spostato. L’odio che non trova espressione diviene una tossina mortale, provoca un avvelenamento”

di Giannina Longobardi da Chi cade ha ali. Una lettura di Ingeborg Bachmann

figura come prefigurazione

L’opposizione figura/verità va scomparendo, poiché sotto la figura si dissimula qualcos’altro: una verità sempre presente e tuttavia avvenire.

da La testa senza il corpo. Il viso e l’invisibile nell’immaginario dell’Occidente, Julia Kristeva, Donzelli Editore, trad. di Alessia Piovanello. pag. 74

altri appunti: pitture rupestri, scene di caccia, raffigurazioni propiziatorie

Formiggini

Sì, Agafio, il Formìggini si gettò da una torre:

Da Parole in libertà (postumo, Roma, 1945):

Ghirlandéina!
Ghirlandéina dam un còcc
pr’ajuterme a fèr al bòcc!
I diran: cus’è ‘so fagôt ?
To! L’è al pover Furmajôt .
Un modnes ed qui de ‘d via
che, oramai, a-n va piò via!
Furmajin da Modna.

Appenzell, 21 agosto 1938 ore 6.45

La mattina del 29 novembre 1938 si gettò dalla Ghirlandina, la torre del Duomo di Modena, precipitando sul selciato che lui stesso, in una delle ultime lettere, aveva ironicamente chiesto di chiamare, in suo ricordo, al tvajol ed Furmajin, il tovagliolo del Formaggino, in dialetto modenese.

Fra qualche tempo

Fra qualche tempo
ore anni minuti
non sarò neppure
capace di invecchiare
ma quanto
rimarrà in me
non vorrà avere età
per svanire
con qualche vanto
o pianto
di propositi perduti

vorrà forse mostrarsi
con il male ed il bene
da mettere a confronto
e un rimpianto solo
là in fondo
un puntino luminoso
che continuerà a brillare
dentro le ombre.

(1989)

Roberto Rebora

da Tre inediti e un’intervista a cura di Giuliano Donati, Poesia – Mensile di cultura poetica, Anno III, numero 28, Aprile 1990

Tempo fa il Mucògeno mi leccò la faccia nel sonno: ridestandomi nel raccapriccio, capii immediatamente che la sua flegmatica bava, impregnandomi la pelle, mi stava trasmettendo dei dati. Fra questi un apologo, corrispondente a un dipresso al testo che segue:

“Ogne conchiglia ha lo càlcare secreto e formato dalle medulla sue; e tutto e congruo e verace. Ma se il mollusco defunge, e l’asilo deserto viene occupato da l’infingardo Paguro, questa l’addimandiamo Menzogna, poiché tutto è distorto: epperò la natura stessa del parassito la denuncia per tale, sicché a noi sape tuttavia di socratica Verità. Ma dessi anche il caso, ch’è il tertium, per cui il mollusco maliziosamente dia al proprio alloggio forma non necessaria, com’è dire bivalve allora che sia d’uopo di una, oppure in guisa di coclea allor che sua stirpe vorrebbe cuspide ovver cannolicchio: dove non è chi non veda come lo starsi dell’informe mollurie nel càlcare strutturato partecipi eziandio e del falso (poiché mentita è la forma) e del vero (poiché essa è nella Storia). Diximus”.

Non ci vuole molto a cogliere l’antifona: cristallizzandomi, mi sono falsificato: e vivendo e scrivendo, e scrivendo della mia vita e vivendo nella mia scrittura.

da Leggenda privata, Michele Mari, Einaudi

Oggi alle 18 incontro con M.M.

’Associazione Civita – Piazza Venezia, 11 – Roma

Il cianciatore

Chiudi gli orecchi, amico, e dal torrente
Di rovinose e rapide parole
Difenditi, se puoi: sento che giunge
Il garrulo Alcimon. Odi già come
Fuor de la soglia ancor da lungi grida
Con alta voce, e a le atterrite orecchie
Dà de l’arrivo suo non dubbio avviso.
Sì paziente timpano o sì forte
Non v’è, che un’ora a la incredibil regga
Strana loquacità. Dovunque ei giunge,
Entrato appena, interroga e risponde
Tutto egli solo: e mille cose ei chiede,
Di mille s’informa; logico ragiona,
Storico narra, ed orator perora:
Né fiato prende: e se altro a dir non resta,
Ripete ancora; e senza posa ei parla.
Ognun l’incontro ne paventa, e schiva
D’essergli appresso. Misero colui
Ch’ei coglie incauto. Ei si contorce invano
De le parole al diluviar dirotto;
Ché forza è pur che suo malgrado ascolti:
Qual pellegrin che per deserta via
Colto a l’aperto da improvvisa pioggia,
Ricovra al tronco di ramosa quercia,
E, in se ristretto e rannicchiato, aspetta
Che passi, o scemi il tempestoso nembo.
E qual por freno a l’impeto che il porta?
Digli che taccia: ei non t’ascolta. Parla
Tu stesso: ei grida, e ti sopprime. Dormi:
Egli segue a parlar. Svégliati: e il trovi
Che parla ancora; e con perpetuo suono
Ti senti intorno l’instancabil voce.
Come notturno svegliarin se scocca
L’interno gioco, al turbinoso giro
De la veloce sprigionata ruota,
L’elastico martello il cavo seno
Cedere batte del sonoro bronzo;
Onde, a i colpi frequenti, e quai di densa
Grandine spessi, dal percosso orecchio
Rapido fugge e spaventato il sonno;
Tal non mai ferma la sua lingua o muta,
Di molle sembra artifizioso ordigno,
E sì ruota volubile e sonora,
Che il capo introna, lo stordisce e assorda,
E, con le mani ne gli orecchi, sforza
A cercar scapo con la fuga altrove.
Ma fuggi indarno; ch’ei t’incalza, e dove
Non giunge il passo, alza la voce, e parla
Fin che ti vede; e poiché sol rimane,
A parlar segue; e di parlar contento,
Poco si cura poi che alcun l’ascolti.
Cosa ne la natura ei non abborre
Quanto il silenzio; né a null’altro nacque
Fuor che a parlar. Parlando visse, e vuole
Parlar morendo, e ne la tomba ancora
Continuando de la lingua il moto,
Di franger spera il ferreo sigillo
Che morte al labbro taciturno imprime.

dalle Conversazioni di Clemente Bondi nel volume dedicato alla poesia della Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi

I beni umani

No il posseder, ma lo sperare alletta
L’uom; che nel senso e ne l’idea d’un bene,
Sempre trova minor quello che ottiene,
Finge sempre maggior quello ch’aspetta.

Mesto può fare un cor gioia perfetta,
Se è tal, che di maggior tolga la speme:
Se non lusinga l’avvenir, già sviene,
Nato appena, il piacer che ora diletta.

Per prova il so. T’amai, d’essere amato
Presi lusinga; e il tuo futuro amore,
Sperato solo, mi facea beato.

M’amasti; il seppi: ah che in quel sol momento
Sì esaurì la natura; e or langue il core,
Fatto incapace di un maggior contento!

 

Clemente Bondi, dalla Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi