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Appunti per Mi chiamo M.M. n.32

Medusa o Baubo?

Rembrandt nella Congiura di Claudio Civile, che è forse il suo capolavoro, rappresenta il re come re orbo, la spada diritta davanti, le lame degli altri congiurati che vanno ad incrociarvisi. Rembrandt verifica la potenza della prospettiva che “buca” il quadro e il fascino del chiaroscuro che consente le fantasmagorie dei suoi complotti tramati nell’ombra, e può farlo perché il suo eroe, un altro se stesso, ha un occhio solo.

(…)

(…) un essere per metà carne e per metà statua di pietra. Così è il pittore che vedendosi vedersi, si pietrifica e si acceca.

(…) sul significato simbolico dell’accecamento che prelude alla morte

(…) la macchia sull’occhio, nella lingua corrente, è un leucoma, una macchia opaca della cornea. In senso figurato significa essere accecati, ad esempio dai pregiudizi. Etimologicamente, la macchia, théke, è la teca, la custodia.

da Medusa, Jean Clair, Abscondita, trad. di Valeria La Via e Giancarlo Ricci

collegare le considerazioni di J.C. al film di Peter Greenaway su La ronda di notte di Rembrandt

Appunti per Capsula petri n.25

La maschera di Medusa non ha il silenzio appagato e definitivo della testa di morto: al contrario, provoca il grido di morte, l’orrore della disorganizzazione dei tratti, la paura di perdere il contegno. Quello che scopriamo non ci rassomiglia. Il grido sarà allora più vicino al pianto del bambino appena nato che al rantolo del morente. E’ il grido pietrificato di colui che scopre di non essere in realtà un dio bensì un mostro deforme, un nano, un essere da incubo. Il confronto meduseo è un gioco di specchi dal rischio mortale. Offre il godimento di un vedere puro, di un vedere senza sapere cosa si vede, ma la scoperta è ripagata dall’orrore di essere visti: vedendo, si scopre che “sì” è proprio “quello”:(…)

da Medusa, Jean Clair, Abscondita

 

 

to be or not to be

to be or not to be Lubitsch

Così Elias Canetti ricorda la prima volta in cui aveva ascoltato Kraus in occasione di una conferenza al Konzerthaus:

Un ometto piccoletto piuttosto mingherlino, con un volto affilato di inquietante vivacità, che mi disorientò (…). La voce, tagliente e irritata, dominava facilmente la sala con bruschi e frequenti salti di volume (…). Il fatto incomprensibile e indimenticabile – indimenticabile anche se avessi vissuto trecento anni – era che (la voce di Kraus al min.8.22) si imponeva come una legge di fuoco: si irradiava, bruciava e annientava (…) e il manifestarsi di questo castigo sterminatore, compiuto pubblicamente, diffondeva un tale orrore e una tale violenza che nessuno riusciva a sottrarvisi…

Chiunque abbia ascoltato la voce di Kraus nelle registrazioni esistenti avrà potuto notare una simile terrificante esperienza. Il fatto è che, dopo la Seconda guerra mondiale, è ormai un’altra voce, raggelante, che ascoltiamo attraverso la sua, una voce che ha preso la sua maschera. Il Führer parla con la voce di Karl Kraus. Il giovane vagabondo, studente di belle arti negli anni viennesi, aveva avuto la curiosità di andare ad ascoltare le sue conferenze? Diciamo piuttosto che, proprio come a Monaco avrebbe appreso ad atteggiare il corpo, a controllare ogni espressione e ogni gesto dalle fotografie che Hoffmann gli scattava, il piccolo austriaco dal ruvido tedesco e dalla dizione grossolana avrebbe imparato a dosare la propria voce sino a riprodurre il più straordinario prodotto dell’arte oratoria dell’epoca, copiando il fraseggio di Kraus, le sue sincopi, i suoi modi taglienti e brucianti. Karl Kraus suo malgrado, è divenuto maestro di dizione di Hitler, proprio come, mutatis mutandis, Marinetti, così di buona voglia per parte sua, lo era stato di Mussolini.

da La responsabilità dell’artista. Le avanguardie tra terrore e ragione, Jean Clair, Abscondita, trad.di Stefano Chiodi

 To be or not to be, Mel Brooks