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Giorno per giorno, notte per notte

Sotto la marea montante vide le alghe contorte sollevare languidamente e ondulare braccia riluttanti, alzando le gonnelle, nell’acqua sussurrante ondulando e altovolgendo timide fronde argentee. Giorno per giorno, notte per notte: sollevate, inondate e lasciate cadere.
Signore, sono spossate: e, in risposta al sussurro, sospirano. Sant’Ambrogio lo udì, il sospiro di foglie e di onde, mentre aspettavano, attendevano la pienezza dei loro tempi, diebus ac noctibus iniurias patiens ingemiscit.
Senza alcun fine raccolte: poi vanamente liberate, fluttuanti in avanti, indietro rivolgenti: telaio della luna.

da Ulisse, James Joyce, Mondadori, Medusa, trad. di Giulio de Angelis, pag.72

sul tavolo


La guardiana, georges de la tour

 

qui ci sono stati merli prima del silenzio,
ci sono state tovaglie bianche e azalee,
pioggia d’aprile, vetri del tuo sorriso
in serate nel terrazzo dell’orizzonte.

ci sono state domeniche e giardini profondi,
mani di mare e baci per sempre,
in ogni angolo ci sono stati amore e luce,
lucciole segrete dei parchi.

dove adesso scriviamo c’è stata vita,
linfa felice che si seccò in legno,
travi del tavolo che ci salva
dall’afflizione di non saperci salvare.

Dove sgorgava la resina, adesso
ripassiamo il nodo e la corteccia,
e aprile ci copre di foglie bianche, nidi
nell’azzardo degli uccelli di voce.

da Nettunaria e altre poesie, Eloy Santos, Via del Vento Edizioni, trad.di Alessandro Ghignoli

quando il testo offre in figura il suono


Alphabet, Robert Mapplethorpe

Il silenzio con cui le parole ci confrontano – perché è vero, le parole scritte tacciono, non più udibile è la voce che le ha pronunciate- non fa che ripetere il silenzio del mondo. Perché anche le cose tacciono; e tuttavia il mondo è pieno di suoni, e tutto ha la sua voce. È solo questione di ascolto, ma disciplinando l’orecchio potremo finalmente raggiungere quell’attenzione dell’anima che ci farà udire, nelle lettere mute della scrittura, la voce -lì dove la lettera si ricongiunge ad un corpo.

da Nomi, Nadia Fusini, Feltrinelli

all’amica lontana

Bastianelli eseguiva l’Eroica di Beethoven e dopo la Marcia funebre stava attaccando con lo Scherzo e già si sentiva palpitare nelle dita la vivacità di quelle note quando Michaelstaedter, spalleggiato da Arangio, saltò su gridando che la sinfonia finiva lì ed era inutile procedere oltre. Inde irae.

“Carissimi Micaelstätter e Arangio,
ho riflettuto a lungo in questo inchiodamento a letto, a quello che avvenne sabato scorso. Non è possibile che mi trattenga dal dirvi alcune cose in proposito che, vi dispiacciano o non vi dispiacciano, peserebbero tanto sulla mia coscienza, se non ve le dicessi, da farmi le mani di piombo quando fossi ancora con voi al pianoforte.

Come fare a celarvi che, non so per quale curioso ed irritante groppo di fatalità, voi siete stati davanti a uno dei più puri capolavori umani, non reagendo dovutamente, non comprendendolo, anzi con una certa leggerezza, generalizzando la comprensione che di lui avevate parziale, per condannarne il vero significato totale?

Dell’Eroica non v’è piaciuto che il 2° tempo e non avete compreso il tema generante il 1° tempo e l’ultimo generante, con uno svolgimento a rovescio del 1°, l’ultimo tema.

Io constatai, in quel momento che suonavo e più dopo, quando come per darmi la riprova che in voi non s’era fatto tutto quel silenzio religioso e quello stupore che segue le vere rivoluzioni, voi vi poneste a parlare di Croce e Spinoza; che nessuna cosa al mondo vi avrebbe fatto varcare la muraglia che ponevate ostilmente tra lo sforzo che io facevo per farvi comprendere, e la vostra diffidenza. Disse bene Aragio: poche persone sono così fredde come voi.

In altre parole sento che anche se tentassi per iscritto di farvi comprendere il valore unico di quel 1° tema e la dipendenza del 2° dal 1° e la giustizia di quella marcia e di quello scherzo nella intera sinfonia; io non esercito in voi quella confidenza e non inspiro in voi quella fede di cui c’è bisogno per rivelarsi reciprocamente qualunque idea.

E ho tale pratica delle cose d’amicizia (e specialmente della vostra) che so ancora che se tentassi, rifacendovi la Terza sinfonia, di farvene comprendere il significato altissimo e vi ripeto unico, voi vi irrigidireste in modo da rendere tutti i miei tentativi inutili se non ridicoli.
E men ti piaccio se più m’affatico. Le cose devono venire da sé. Vuol dire che io non ero quello destinato a farvi capire Beethoven.

E so ancora che non potrei più seguitare a leggervi Beethoven perché come in una dimostrazione se manca la comprensione d’una sua proposizione , tutta la dimostrazione cade, così nella rivelazione dell’arte d’un genio, se resta oscura una sola parola importante (e qui si tratta niente meno dell’Eroica, una delle pietre miliari non solo per capir Beethoven ma tutta la modernità) resta tutto oscuro o avvolto in una penombra penosa.

E non è una di quelle malignità del caso, che mi feriscono così tragicamente e così spesso, che proprio la sinfonia, che insieme alla Nona e la Messa, desideravo di più godere insieme con voi, mi abbia lasciato il disgusto amaro del fiasco, non che tante altre constatazioni dolorosissime per me e per voi.

Tutti noi non comprendiamo che ciò che abbiamo avuto. Voi ponevate nell’interpretazione di Beethoven una esperienza, perdonatemi, inadeguata a lui. Io ho provato per una buona metà di Beethoven l’impressione che vi mancassero gli elementi per sentirla. Nell’Eroica vi manca l’eroismo di non contentarvi del Dolore. E come fare allora a capire, che se Beethoven nell’Eroica scopre l’eroismo, l’immenso eroismo dei romantici, egli nella Nona supera ancora l’Eroismo e arriva a una contemplazione così universale delle cose umane che, a mio parere, nessuna filosofia moderna ha saputo ritrarre e svolgere?

E per farvi arrabbiare anche di più, che cos’è la Ginestra e tutto Leopardi davanti a questo gigantesco e impassibile Beethoven? Non mi ricordo più dove ho letto che un dio costretto a raccontare la sua vita la direbbe tutta -in due parole. Ebbene Beethoven l’ha fatto e le due parole sono l’Eroica e la Nona. Maledicetemi, ridete di me; ma è così e mi farei ammazzare piuttosto che dire in un altro modo.

vostro Giannotto Bastianelli”
da  A ferri corti con la vita. Biografia di Carlo Michaelstaedter, Sergio Campailla, Comune di Gorizia, 1981

silenzio


Monica di Marilena Pellegrini

Come dal fondo della musica
sboccia una nota
che mentre vibra cresce e s’assottiglia
fino a che in altra musica si tace,
sboccia dal fondo del silenzio, torre acuta, spada,
e sale e cresce e ci sospende
e mentre sale cadono
ricordi e speranze,
le piccole menzogne e quelle grandi,
e vogliamo gridare e nella gola
il grido si disperde:
sfociamo nel silenzio
dove i silenzi ammutoliscono.

da Libertad bajo palabra, Octavio Paz, Guanda, trad. Giuseppe Bellini

duplice silenzio

Segnalibro per lettori notturni, di Ilaria Bartocci

Vi sono qualità -entità senza corpo-
che hanno duplice vita: così è quella che sgorga
gemella da materia e da luce, e ne sono
prove l’ombre dei corpi. C’è un duplice silenzio:
anima e corpo, mare e spiaggia. Uno dimora
in luoghi solitari, di fresca erba coperti:
certe grazie solenni, certi umani ricordi,
una scienza grondante di lacrime, lo rendono
spoglio d’ogni terrore; il suo nome è “mai più”.
È il silenzio corporeo, e non devi temerlo:
non ha potere alcuno, in sé, di fare il male.
Ma se un destino avverso (o sorte prematura!)
ti porta ad incontrare la sua ombra (fantasma
senza nome che infesta le deserte regioni
che il piede umano ignora), raccomandati a Dio!

da La città nel mare e altre poesie, Edgar Allan Poe, Forum/Quinta Generazione, trad.di Franco De Poli

più salivo in alto


da Sangue di un poeta, Jean Cocteau

 

Più salivo in alto
più il mio sguardo s’offuscava,
e la più aspra conquista
fu un’opera di buio;
ma nella furia amorosa
ciecamente m’avventai
così in alto, così in alto
che raggiunsi la preda.

da Poesie, Juan de la Cruz, Einaudi

questo è il bosco

foto di Ribes Sappa

 

Questo è il bosco
e qui, per un momento,
il mio cuore spia…
Vanno e vengono
i discendenti degli alberi
-nascosti animali geometrici.
Si chiudono nelle proprie materie concave,
tempie aeree, lontani fantasmi con ali sommerse.
Si distendono,
gravitano contro l’ombra,
reali parti ascendenti
del poderoso e abitante ossigeno.
Questo è il bosco distante
e qui, in una forma di sete
lascio il mio cuore a riposare,
a retrocedere,
un pensiero di foglie che fu mio.
Qui, sopra la tempestosa apparenza
di una campana gettata nell’erba.
Questo è il bosco
e qui il mio cuore, denudandosi,
è solo un rumore,
un’allegria che deviò dentro me
e incessantemente si perse
e non si può trovare
e nemmeno può assomigliare a se stessa.
Qui il mio cuore
-questo è il bosco-
riposa celebrando la sua morte.
Se ne va,
andrà presto in cammino,
come un domani,
come un tempo,
come se “andarsene sempre” fosse il suo pronome.
Parte verso ieri,
verso il giorno di un anno che nessuno vide crescere,
perché si divorò,
perché mangiò la sua stessa sostanza.
Se ne va oggi,
se ne andò ieri,
sempre andrà in cammino
abbandonando deserti,
spine,
ossa alacri,
il luogo che sembrava contenere il mondo,
e non era che uno specchio infiammato.
Se ne va, se ne andrà,
sempre se n’è andato
abbandonando cammini invitti,
mesi inabitati,
case serrate dal tempo verde.
Se ne andrà, se ne andò,
insieme
a tutto ciò che contiene l’aria
di frontiere diffuse
e spume prolungate fino al canto;
insieme
a tutto ciò che vive
portato dallo spazio
e abbandonato dai frutti del mare,
del sole, del vento;
da ciò che dona la terra
girando sulla propria estasi;
da ciò che mai più si disse eternamente,
negando l’atmosfera.
Andiamo, àlzati,
è ora di partire.
Dove andiamo, compagno, senza nulla al sole?
Andiamo alla sacra forma
che più non dorme;
all’affaticato aroma solitario, al sangue
che solo d’improvviso ascende al vento,
logorando ciò che tocca nel suo transito.
Andiamo al gran torrente che immagina
ciò che palpiamo e non vediamo,
accecati dal suo tatto illuminato
e dal suo annegato splendore.
Andiamo al luogo della tempia, al passare delle ossa
perfette, spopolate, spellate.
Andiamo ai nostri giorni in segreto;
alla nostra pelle che occultamente passa per mani
atmosferiche
attraverso un tatto elevato a potenza.
Ho freddo. Abbiamo.
Non dovevamo uscire per essere scrutati,
per avere qualcosa di nostro,
e strappati
e divisi
come albero che siamo
che ci sogna.
Camminiamo.
Entriamo
per non uscire mai più:
per compiere il nostro obbligo di palpitare,
di singhiozzare,
di morire in sola compagnia
dell’ultima delle nostre ossa
che udì chiamare la terra.

da Questo è il bosco e altre poesie, Eunice Odio, Via del Vento Edizioni, trad. di Tomaso Pieragnolo

la macchina del tempo

 

In rete uno sconosciuto carica una foto/un video di un momento non necessariamente importante della propria vita: immaginiamo che questo signore scelga la foto di gruppo che ritrae un divertente bagno di mezzanotte alla Secca di Moneglia, immortalato nei primi minuti del 13 agosto 1991 e immaginiamo
ora che, proprio e solo in questa foto, si veda sullo sfondo il terrazzino della camera numero 12 dell’Hotel Leopold e un signore che fuma una sigaretta (la sua ultima). Lo sconosciuto carica la foto/il video su facebook o su youtube indicizzando con la seguente dicitura “La Secca, Moneglia, 13 agosto 1991″.
Ora invece ecco un’altra persona che sceglie di caricare in rete la foto o il video di una serie di onde di una mareggiata a Moneglia avvenuta in un giorno di luglio alla fine degli anni ’70 e, per caso o per scelta, include nello sguardo dell’obiettivo l’ abbraccio salvifico di un bambino intorno al piccolo tronco di una bambina che arriverà ad essere un albero carico di frutti grati.

Questa è la mia macchina del tempo. Io non potrò viaggiare fino alla mia infanzia, ma grazie alla precisa
indicizzazione di ciascuna foto e di ciascun video, forse i miei figli potranno viaggiare nel proprio tempo (non quello scelto dall’occhio dei genitori), almeno virtualmente.

Le foto che si scattano in famiglia e tra amici non sono davvero quelle rappresentative degli istanti di “radicamento”. Le foto/i video scattate/ripresi da sconosciuti possono invece casualmente cristallizzare quei momenti. La foto della bambina che rotola sulla sabbia, immaginando di lottare con il lupo, non sarà memorabile per lei (che giocava alla lotta ma non è uscita mutata dal gioco): sarà solo una bella foto, ben scattata, forse poetica.

 

Ci si radica inconsapevolmente, non è possibile riconoscere un momento come importante (e quindi scegliere di fotografarlo) mentre lo si vive. Non si può essere testimoni della propria vita (artificio dell’autobiografia).

L’unica foto che mi sorprende in uno dei momenti di ‘radicamento’ è quella che chiamo “Una giornata perfetta”: mio padre la scattò in un giardino labirintico e a terrazze a Molinetti di Recco nel 1979 e lui fu uno sconosciuto inconsapevole  dell’importanza di quell’istante; altrimenti non avrebbe scattato la foto.

 

Se volete donare una macchina del tempo ai posteri, indicizzate esattamente le foto e i video oppure seguite l’articolo di Chiara Somajni nell’inserto Domenica del Sole 24 ore del 30 maggio 2010

http://www.librinecessari.it/macchina del tempo.jpg

per alan