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che ci dice il mare?

Durante il mio ultimo viaggio in Portogallo, nelle ore più calde del giorno, quando l’indolenza mi vinceva il corpo e l’anima, sdraiato sul letto io mi divertivo a leggere lentamente lord Byron. Di quando in quando lasciavo il libro per…pensare? no! per fabbricare castelli in aria.
A momenti mi decidevo ad affacciarmi al balcone per contemplare un momento il mare che si stendeva indolentemente sulla spiaggia. Ed il canterellare dell’Oceano, mescolato agli echi di lord Byron, che tanto l’amò, m’aiutava a perseguire cose senza forma né sostanza. Il mio spirito si trovava, ecco, in una disposizione poetica, creatrice, quella che l’indolenza genera. Perché il poeta è prima di tutto un ozioso, un indolente, e dico ciò in onore del poeta.
Farò un elogio all’ozio, io che sono stimato per un uomo lavoratore e attivo? Sì, farò, almeno in parte, l’elogio all’ozio: dirò che l’ozioso è uno degli uomini più attivi.
Che ci dice il mare? Quel che vogliamo che ci dica. 

da Soliloqui e conversazioni, Miguel De Unamuno, Rinascimento del Libro-Firenze, 1939

il poema è l’essere: non poter fare altrimenti (Marina Cvetaeva)

foto di Luca Donnini

Rilke, con il quale la Cvetaeva su questo punto concorda, affermava che per portare a termine la propria missione l’artista deve essere capace di comportarsi con il mondo come san Giuliano l’ospedaliere con il lebbroso: dormire accanto a lui, abbracciarlo, amarlo. Poco importa, qui, se si tratta di un malfattore o di un santo; l’artista deve riconoscersi in lui per poterne rivelare la verità. E’ così che ha agito Puskin quando si è accinto a raccontare la storia di Pugacev, di cui non ignorava che fosse un criminale. Dedicandosi alla propria arte, il poeta deve rinunciare ad atteggiamenti umani, spontanei, per esempio proteggere i propri cari e respingere i nemici. Mosso dal desiderio di voler comprendere tutti gli uomini, il poeta finisce per diventare lui stesso inumano: per dare ascolto alla loro verità, ha accettato di soffocare la voce della propria coscienza.

E’ questa la ragione vera, dunque, sottesa all’impossibilità di arruolare gli artisti al servizio del Bene: il primo dovere che hanno è nei confronti del Vero e, quando i due concetti entrano in conflitto, è l’ultimo a prevalere. Per esempio, Goethe doveva uccidere Werther: “Qui la legge artistica è l’esatto contrario di quella morale (…) In alcuni casi, la creazione artistica è una sorta di atrofia della coscienza, (…) quel vizio etico senza cui non si dà arte”.

(…)

Se l’arte non è altro che la rivelazione del mondo e della vita, non è più possibile, come volevano i romantici nelle loro dichiarazioni programmatiche, contrapporre arte e vita. Cvetaeva batte sempre su questo tasto: il poeta non appartiene a una specie a parte, non esiste una ‘struttura poetica dell’anima’ – la struttura rimane la stessa per tutti, cambiano solamente l’intensità dell’esperienza e la padronanza del verbo. “Il poeta è l’uomo moltiplicato per mille”. Quando si parla con lei di tecnica poetica, Cvetaeva si dichiara incompetente: “è affare degli esperti di poesia. La mia specialità- è la vita”. Il linguaggio è il suo mestiere, ma solo in quanto mezzo – invalicabile – per accedere al mondo: “vivendo attraverso il verbo, disprezzo le parole”. Lo stesso vale per altri artisti che ella approva,come Pasternak: “niente altro che la vita”. Il vero poeta è all’ascolto del mondo, non degli esperti di letteratura; arte e vita devono sottomettersi alle stesse esigenze. Napoleone e Hoelderlin fanno parte del suo Pantheon allo stesso titolo – quello dell’estremo, della potenza del genio. L’arte non può essere separata dalla vita, la vita deve tendere alla legge implacabile dell’arte.
“Il poema, è l’essere: non poter fare altrimenti.”

da La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, di Tzvetan Todorov, Garzanti, 2011, trad.di Emanuele Lana

il resto

Forse si potrebbe azzardare che per Calvino l’infanzia evocata, la vera infanzia, è solo il bianco della pagina intonsa capace di accogliere tutti i segni possibili, la pagine come immaginazione dei segni iscrivibili, come piacere di iscriverli e iscriversi senza fatica, senza ‘resto’ o ‘effetto’, pagina sognata, senza tempo, spazio totale e possibile, foglio del mondo su cui correre senza attrito, senza tracce bianche, correre secondo una progressione:”parole idee sogni ed è finito”. Ma il segno, la scrittura, è un resto, è appunto ciò che resta sulla pagina, è l’indelebile della traccia.

da L’occhio di Calvino, Marco Belpoliti, Einaudi

la sfrontata

foto di Luca Donnini


(…) mentre le vetture del collegio passavano, emergeva come un tipo di quella razza, della razza sua, un’anima-pipistrello che si svegliava alla coscienza di sé nelle tenebre, nel segreto e nella solitudine e, attraverso gli occhi, la voce e i gesti di una donna semplice, invitava nel suo letto il forestiero.

da Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, James Joyce, Adelphi, trad.di Cesare Pavese

naviganti

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore 
.

Umberto Saba

andare al nòcciolo, al centro

Una penombra come quella del mondo esterno gli oscurava la mente, mentre ascoltava gli zoccoli della cavalla strepitare sulle rotaie della Rock Road e il gran recipiente dietro scuotersi e sbatacchiare.
Ritornava a Mercedes e, mentre rimuginava sulla sua immagine, gli entrava nel sangue un’inquietudine strana. Talvolta una febbre si impadroniva di lui e lo portava a vagabondare nella sera per il viale tranquillo. La pace dei giardini e le luci benevole alle finestre gli versavano un tenero influsso sul cuore irrequieto. Il rumore dei ragazzi che giocavano lo disturbava e le loro voci sciocche gli facevano sentire, anche più acutamente che non avesse sentito a Clongowes, che lui era differente dagli altri. Non aveva desiderio di giocare. Aveva desiderio d’incontrare nel mondo reale l’immagine incorporea che la sua anima contemplava tanto costantemente. Non sapeva dove cercarla o come, ma un preannuncio che lo guidava gli diceva che questa immagine, senza nessun atto aperto da parte sua, gli sarebbe venuta incontro. Si sarebbero incontrati tranquillamente come se si fossero conosciuti e avessero già fissato il loro convegno, forse a uno di quei cancelli o in qualche luogo più segreto. Sarebbero stati soli, circondati dall’oscurità e dal silenzio: e in quell’attimo di tenerezza suprema Stephen sarebbe svanito, sotto quegli occhi, in qualcosa di impalpabile e poi, in un attimo, si sarebbe trasfigurato. In quel magico istante la debolezza, la timidezza e l’inesperienza sarebbero cadute da lui.

da Dedalus. Ritratto dell’artista da giovane, James Joyce, Adelphi, trad.di Cesare Pavese

angoscia della posizione eretta

L’espressione sconvolgente “angoscia della posizione eretta” si trova in una lettera a Felice. Kafka le spiega un sogno di cui lei gli ha parlato, e dalla sua spiegazione non è difficile dedurne il contenuto.
“Voglio dirti invece l’interpretazione del tuo sogno. Se non ti fossi sdraiata per terra in mezzo agli animali, non avresti potuto contemplare il cielo stellato e non saresti stata salvata. Forse non saresti neanche sopravvissuta all’angoscia della posizione eretta. Lo stesso succede anche a me; è un sogno che abbiamo in comune, che tu hai sognato sia per me che per te”.
Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati. la posizione eretta rappresenta il potere dell’uomo sugli animali, ma proprio in questa chiara posizione di potere egli è più esposto, più visibile, più attaccabile. Giacché questo potere è anche la sua colpa, e solo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angosciante potere dell’uomo.

Elias Canetti da Un po’ di compassione, AA.VV., Adelphi

un inno


Pierre Alechinsky

Con quella qualità dei grandi pugili:
incassare e rimanere
saldi,

ingurgitare grappa dalla bottiglia
aver preso sbornie
sub e superatomiche,
lasciare i sandali
sul bordo del cratere come Empedocle
e poi giù a capofitto,

non dire: ritorno
non pensare: mezzo e mezzo,
mollare i tumuli delle talpe
ai nani che vogliono farsi grandi,
pranzare allround a casa propria
non scindersi
e saper dar via anche la vittoria-

un inno a un uomo siffatto.

da Frammenti e distillazioni, Gottfried Benn, Einaudi, a cura di Maria Carpi

 

Aggiunta di categoria e tag del 13/03/2024: plusdotazione, neurodivergenza.