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appunti per CAPSULA PETRI n.3

Quando Dante si congeda da Virgilio, non si congeda dalla Ragione ma dal pathos di una data luce naturale. Dante non abbandona Virgilio per cercare la grazia ma per trovare una voce con un’impronta propria. Nelle più antiche e autentiche allegorie dei poeti, Virgilio rappresenta la paternità poetica, lo stadio dell’iniziazione che Dante deve trascendere se vuole completare il suo viaggio verso Beatrice.
Beatrice è il più difficile fra i tropo di Dante perché la sublimazione non appare più come una possibilità umana.

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Direi che oggi è così difficile capire Beatrice precisamente perché partecipa sia dell’allegoria dei poeti che di quella dei teologi. Poiché il suo avvento segue la maturazione poetica di Dante, o la scomparsa di Virgilio, suo precursore, Beatrice è un’allegoria della Musa, la cui funzione è di aiutare il poeta a ricordare. La memoria, in poesia, è sempre la via maestra della cognizione, e quindi Beatrice è il potere inventivo di Dante, l’essenza della sua arte. Essendo già la più altolocata delle Muse, Beatrice è anche molto al di sopra di loro perché ha lo statuto di un mito eretico, di una santa canonizzata da Dante o persino di un angelo da lui creato.

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e la figura di Beatrice sarebbe eresia e non mito se Dante non fosse stato un poeta così forte che la chiesa dei secoli seguenti è stata felice di annetterselo.

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intuizione di Curtius, che vede nella Beatrice di Dante la figura centrale di una gnosi puramente personale. Dante era un visionario senza scrupoli, appassionatamente ambizioso e disperatamente testardo: il suo poema esprime in modo trionfante la sua eccezionale personalità.

da Rovinare le sacre verità. Poesia fede dalla Bibbia a oggi, Harold Bloom, Garzanti

 

La cura?

Il cimento nell’arte o

ghirigori d’oro

Come Shelley e Whitman, (Wallace Stevens) era un poeta lucreziano e celebrava un cosmo incentrato sull’inevitabilità dell’entropia e della morte. Sebbene questa sembri una concezione poco gioiosa, in Stevens vi è una gioia epicurea accompagnata da un’esuberanza linguistica simile a quella delle shakespeariane Pene d’amor perdute.
Alla mia veneranda età, mi lascio commuovere soprattutto dall’elegante semplicità di Stevens, che ci fornisce la più convincente difesa contemporanea della poesia:

Da questo nasce la poesia: che viviamo
in un luogo non nostro, e che non siamo noi,
ed è arduo, ad onta dei giorni d’orifiamma.

da Il genio. Il senso dell’eccellenza attraverso le vite di cento individui non comuni, Harold Bloom, Rizzoli

l’angelo ribelle (osvaldo licini – wallace stevens – harold bloom)

Poiché ogni poeta comincia (per quanto “inconsciamente”) con il ribellarsi contro la coscienza della necessità della morte assai più recisamente di quanto non facciano gli altri uomini e donne. Il giovane militante della poesia, o efèbo, come l’avrebbero chiamato gli ateniesi, è già l’uomo antinaturale o antitetico, e fin dai suoi inizi come poeta egli va alla ricerca di un oggetto impossibile, così come prima di lui aveva fatto il suo precursore.

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Il poeta che sta in ogni lettore non esperisce la stessa separatezza da ciò che legge che invece sente necessariamente il critico che sta in ogni lettore. Ciò che dà piacere al critico che sta nel lettore può dare invece angoscia al poeta che sta in lui, un’angoscia che abbiamo imparato a trascurare, in quanto lettori, a nostro rischio e pericolo. Questa angoscia, questa modalità di melanconia, è l’angoscia dell’influenza, l’oscuro, demonico terreno in cui stiamo per addentrarci.
Com’è che gli uomini diventano poeti, o per usare una fraseologia più antiquata, com’è che s’incarna il temperamento poetico? Quando un potenziale poeta scopre inizialmente (o viene scoperto dalla) dialettica dell’influenza, quando scopre inizialmente  che la poesia è insieme esterna e interna a lui, egli intraprende un processo che terminerà soltanto quando non avrà più poesia dentro di sé, molto dopo aver perduto il potere (o il desiderio) di scoprirla ancora fuori di sé.

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L’influenza per noi è motivo di angoscia quanto lo era per Johnson e Hume, ma il pathos aumenta in questa storia a mano a mano che ne diminuisce la dignità.

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L’Influenza Poetica – quando interessa due autentici, forti poeti – procede sempre attraverso il travisamento di un poeta precedente, attraverso un atto di correzione creativa che è di fatto e necessariamente un’interpretazione sbagliata. La storia della fruttuosa influenza poetica, che costituisce la principale tradizione della poesia occidentale dal Rinascimento a oggi, è una storia di angosce e di caricature autoliberatorie, di distorisioni, di revisionismi perversi e ostinati senza i quali la poesia moderna in quanto tale non potrebbe esistere.

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La poesia può realizzare o no la propria salvezza in un uomo, ma essa si concede solo a quelli che ne hanno un estremo bisogno immaginativo, anche se può allora arrivare portando terrore. E tale bisogno emerge dapprima attraverso l’esperienza che l’efèbo o giovane poeta fa di un altro poeta, dell’Altro la cui pericolosa grandezza è accresciuta dal fatto che l’efèbo lo vede come uno splendore bruciante a fronte di una oscurità limitante, in qualche modo come il Bardo dell’Esperienza di Blake vede la tigre, o Giobbe vede il Leviatano e Behemot o il capitano Achab vede la Balena Bianca o Ezechiele il Cherubino Protettore, che sono tutte visioni di una Creazione diventata malvagia e inceppante, di uno splendore che minaccia il Cercatore Prometeico che ogni efèbo si avvia a diventare.

da L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Harold Bloom, Abscondita, trad.di Mario Diacono