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Novo Mesto, 3 maggio 1943
Il mulo è morto. Stavamo distesi nel fango da due giorni ed ormai intorno alla casa non c’era più neve. Il fango era tutto opaco di sangue rappreso e l’odore ammorbava l’aria. Di tutti i muli che stavano legati alla staccionata quando eravamo arrivati, uno solo era rimasto in piedi. Il guinzaglio non era più annodato, eppure pendeva fra la testa immobile ed un paletto, quasi fosse permeato dell’anima del mulo.
Con un orecchio leggermente rizzato e l’altro completamente indietro, Laurino restava immobile con la testa bassa sul diagonale sinistro. Il suo corpo pareva già privo di vita come un sacco sorretto; solo un leggero pulsare delle fontanelle sopra gli occhi socchiusi rivelava la vita. Le ore passavano, ed ogni tanto un telo tirato sulla porta di quella casetta si apriva per lasciare uscire un morto, un cadavere ormai irrigidito che andava a rotolare sotto il naso di Laurino. I soldati, nelle buche, ogni tanto alzavano la testa e guardavano il mulo. Uno, che stava in un riparo proprio sotto la staccionata, disse: “Ora lo faccio andare; lì, se viene colpito, mi cade addosso”. Ma il comandante insorse: “Lascialo stare, forse lì è defilato; ne ha fatta tanta di naja anche lui, è stato in Africa, e sempre portatestata”. Le pallottole tagliate, che producono un rumore simile a quello di una mosca nel bicchiere, passavano ronzando e si andavano a schiacciare con uno schiocco secco contro l’intonaco della casa. Verso mezzogiorno si sparse la notizia che venivano i rinforzi, che saremmo stati liberati. “Fra due ore arrivano, lo ha comunicato la radio”. Ci fu un rimestio generale nelle buche.
Ci si accorgeva solo allora di essere stati nel fango, nell’acqua, di essere sporchi di sangue, di aver perso…
Ed i soldati cominciavano a girare sempre meno cauti. Laurino stava immobile, sempre in piedi, e teneva la testa così bassa, che sembrava prossimo ad un collasso.
Il conducente, tanto per muoversi anche lui, gli si avvicinò, e Laurino, il drago del reggimento che solo il siciliano Galatola poteva governare, si lasciò carezzare ed esplorare da un conducente che lo aveva per le mani da quattro giorni.
Verso le due si sentirono i mortai, verso le quattro la “Breda” cominciò a cantare sui colli di fronte ai nostri ed arrivò l’ordine: “Pronti, ché, appena stabilito il collegamento, si ripiega”. Non si riusciva più a tenere gli uomini. Improvvisamente un fuoco infernale si scatenò su di noi. “Vengono”, si sentì, e l’hurrà. La sparatoria era stata breve e violenta; il nemico aveva tentato l’ultima carta prima che arrivassero i rinforzi. Guardai i soldati e vidi le loro facce convergere: mi voltai anch’io da quella parte: Laurino stava con la testa quasi alta, le orecchie appiattite sulla nuca ed il guinzaglio s’era staccato dalla staccionata.
Dalla spalla sinistra una fontanella di sangue cupo sgorgava forte, zampillava: quel sangue rosso era la vita che usciva e tutti eravamo sospesi dinanzi a quel mistero di quella vita rossa, che è vita fin tanto che è contenuta dentro un sacco di pelle. Fuori, pareva acqua e intrideva l’argilla proprio dove il guinzaglio toccava terra. Ero abbacinato e restavo fisso a guardare quel getto rosso. Durò molto: poi Laurino cominciò a tremare ed a me venne l’ordine di raccogliere i feriti e me ne andai. Tornai sul posto prima di partire:non c’era più nessuno nelle buche ed era ormai quasi notte. Accompagnato da qualche pallottola raminga che frullava nell’aria, cercai Laurino. Lo riconobbi fra gli altri e rampava ancora: poi, s’acquetò.
da La traccia sul mare. Diario e lettere (1936-1943), Falco Marin, All’Insegna del Pesce d’Oro