Paolina Leopardi – Recanati (1)
(Roma) 28 gennaio (1823)
Cara Paolina. La tua lettera m’è stata molto gradita, come sempre mi saranno quelle che mi scriverai, ma mi dispiace pur molto di sentirti così travagliata dalla tua immaginazione (2). Non dico già della tua immaginazione, volendo inferire che tu abbi torto, ma voglio intendere che di là vengono tutti i nostri mali, perché infatti, non v’è al mondo né vero bene, né vero male, umanamente parlando, se non il dolore del corpo. Vorrei poterti consolare, e proccurare la tua felicità a spese della mia, ma non potendo questo, ti assicuro almeno che tu hai in me un fratello che ti ama di cuore, che ti amerà sempre, che sente l’incomodità e l’affanno della tua situazione, che ti compatisce, che in somma viene a parte di tutte le cose tue. Dopo tutto questo non ti ripeterò che la felicità umana è un sogno, che il mondo non è bello, anzi non è sopportabile, se non veduto come tu lo vedi, cioè da lontano; che il piacere è un nome, non una cosa; che la virtù, la sensibilità, la grandezza d’animo sono, non solamente le uniche consolazioni de’ nostri mali, ma anche i soli beni possibili in questa vita; e che questi beni, vivendo nel mondo e nella società, non si godono né si mettono a profitto, come sogliono credere i giovani, ma si perdono intieramente, restando l’animo in un vuoto spaventevole. Queste cose già le sai, e non solo le sai, ma le credi, e nondimeno hai bisogno e desideri di vederle coll’esperienza tua propria; e questo desiderio ti rende infelice. Così accadeva a me, così accade e accaderà eternamente a tutti i giovani, così accade agli uomini ancora e agli stessi vecchi, e così porta la natura. Vedi dunque quanto io sono lontano dal darti il torto. Ma voglio che per amor mio tu facci qualche sforzo, ti approfitti un poco della filosofia, proccuri di rallegrarti alla meglio, come io so per lunga esperienza che si può fare anche nel tuo stato, niente meno che in qualunqu’altro. E finalmente non voglio che ti disperi; perché dentro un giorno può svanire la causa delle tue malinconie, e questo è probabilissimo che avvenga; anzi è facilissimo; anzi, andando le cose le cose naturalmente, è certissimo. Quello ch’io potrò per te, devi credere che lo farò. Intanto divèrtiti. Credi tu ch’io mi diverta più di te? No sicurissimamente. Eppure in questi ultimi giorni ho fatto, e seguo a fare, una vita molto divagata. Ma tieni per certa questa massima riconosciuta da tutti i filosofi, la quale ti potrà consolare in molte occorrenze; ed è che la felicità e l’infelicità di ciascun uomo (esclusi i dolori del corpo) è assolutamente uguale a quella di ciascun altro, in qualunque condizione o situazione si trovi questo o quello. E perciò, esattamente parlando, tanto gode e tanto pena il povero, il vecchio, il debole, il brutto, l’ignorante, quanto il ricco, il giovane, il forte, il bello, il dotto; perché ciascuno nel suo stato si fabbrica i suoi beni e i suoi mali; e la somma dei beni e dei mali che ciascun uomo si può fabbricare, è uguale a quella che si fabbrica qualcunqu’altro.
Forse, volendoti consolare, t’avrò annoiata con tanta filosofia.
In ogni modo stammi più allegra che puoi, ed aspettami, ch’io ti consoli a voce; se pur già a quell’ora non sarai consolata dalla fortuna. Saluti ai genitori, ai fratelli, a Carlo in particolare. Io sto bene, e ti amo. Addio.
(1) Alla sorella Paolina, in risposta ad una sua del 13 gennaio
(2) mi dispiace…immaginazione: nella lettera sopracitata la sorella appariva molto afflitta, forse anche per l’ormai previsto fallimento del progettato matrimonio.
Lettera 68 da Giacomo Leopardi – Lettere. Tomo primo. Scelta e commento a cura di Sergio e Raffaella Solmi, Einaudi – Classici Ricciardi, 1977