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Dedicato al terzo-istruito di Michel Serres, a Elio e a Marta

IL GENIO E L’UNIFICAZIONE

Il “colpo d’occhio” del genio (P 1850-56) unisce filosofia e poesia perché il genio è unificazione.
Quando l’esattezza analitico-matematica della ragione è separata dalla poesia – nel senso che è separata dal conoscere per propria esperienza la natura – l’esattezza “erra per necessità” (P 1853). “L’esattezza è buona per le parti, ma non per il tutto” (ibid.) e per conoscere “i rapporti”: sembra “buona” e vera quando le parti sono “separatamente considerate”.
Si tratta di una bontà e verità apparente, perché il tutto, ottenuto accostando le parti “separatamente considerate”, appare contraddittorio (cioè mostra “mille difficoltà, contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie”, (P 1854), – i molti modi, questi, in cui si presenta la contraddizione), appare un sistema falsissimo di parti verissime, o (= ossia) che tali col più squisito ragionamento si dimostrano (cioè sembrano), considerandole segregatamente”.
Questo effetto deriva dall’ignoranza de’rapporti, parte principale della filosofia, ma che non si ponno ben conoscere senza una padronanza della natura, una padronanza ch’essa stessa vi dia, sollevandovi sopra di se, una forza di colpo d’occhio, tutte le quali cose non possono stare e non derivano, se non dall’immaginazione e da ciò che si chiama genio in tutta l’estensione del termine” (P 1854-55).
L’unità dal molteplice, la totalità e i rapporti che uniscono le parti nella totalità, non possono essere il risultato – la “sintesi” – di un’analisi che considera separatamente le parti, come avviene nella moderna ragione matematica (“il filosofo esatto, paziente, geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e sintesi” (P 1856).
L’analiticità, in quanto è l’essere sciolto del finito dall’infinito, non è l’analisi in cui la ragione moderna considera separatamente le parti. Infatti il finito è veramente sciolto dall’infinito, perché l’infinito non esiste, e solo l’illusione unisce il finito all’infinito: il suo essere così sciolto appare nella visione della verità che è presente nel genio. Invece l’analisi, in quanto separazione e isolamento delle parti, è operata dalla visione della verità, in quanto ragione moderna, cioè in quanto essa stessa separata e isolata dalla poesia, e dunque in quanto non verità.

IL COLPO D’OCCHIO

La vera visione dell’unità al molteplice, della totalità delle parti, dei rapporti che uniscono le parti nella totalità dev’essere quindi qualcosa di immediato: “l’occhiata onnipotente” (P 1859),  il “colpo d’occhio”, il “lampo improvviso” (P 1856), l’intuizione immediata che scaturisce non dal tipo di mentalità che si chiude nella parte isolata, ma da una natura umana aperta al lampo improvviso che attraversa e illumina tutte le parti.
Essa è aperta al lampo improvviso, perché, “eccelsa” (Palinodia, v.87; cfr.XIII, III, 4), sta al di sopra del rimanere chiusi nelle parti, “è situata su di una eminenza” (P 1855), l’eminenza in cui deve trovarsi la “nobile”, cioè gnobilis, riconoscibile, “eccelsa”, natura del genio (anche se “il genio non può essere né giudicato, né sentito, né conosciuto, né apercu che dal genio” (P 3385): “l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d’un occhiata tutto il laberinto e la verità che sebben fuggente non se gli può nascondere” (P 1855).
Il genio non è soltanto “l’occhiata” che scopre la verità, ma è insieme la “forza” (P 1854-55, riportato nel par.4 che porta e situa sulla “eminenza” da cui è possibile gettare il colpo d’occhio: la “forza di colpo d’occhio”(P 1854): il calore, l’entusiasmo, il sentimento, la fantasia con cui il genio vede ed esprime la verità, tenendosi in alto. è la forza della natura, cioè dell’illusione. Volendo esistere ed essere felice, la natura (l’esistenza) è una forza che spinge in alto, “sollevandosi al di sopra di se” (ibid.), cioè al di sopra del nulla; e il genio è il punto più alto a cui tale forza conduce.
Il colpo d’occhio – il lampo improvviso che appare nel colpo d’occhio e in cui si illumina la verità – è reso possibile dalle “grandi illusioni”  e dall’ “immaginazione” del genio. Giacché è pur sempre illusione, proprio perché è “natura” (e “piano della natura”), la forza che fa barriera contro la nullità delle cose – la nullità che, peraltro, nel colpo d’occhio appare al centro della verità.

da L’eminenza del genio, in La matematica e il genio, in Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi“, Emanuele Severino, Rizzoli, 1990

Il cianciatore

Chiudi gli orecchi, amico, e dal torrente
Di rovinose e rapide parole
Difenditi, se puoi: sento che giunge
Il garrulo Alcimon. Odi già come
Fuor de la soglia ancor da lungi grida
Con alta voce, e a le atterrite orecchie
Dà de l’arrivo suo non dubbio avviso.
Sì paziente timpano o sì forte
Non v’è, che un’ora a la incredibil regga
Strana loquacità. Dovunque ei giunge,
Entrato appena, interroga e risponde
Tutto egli solo: e mille cose ei chiede,
Di mille s’informa; logico ragiona,
Storico narra, ed orator perora:
Né fiato prende: e se altro a dir non resta,
Ripete ancora; e senza posa ei parla.
Ognun l’incontro ne paventa, e schiva
D’essergli appresso. Misero colui
Ch’ei coglie incauto. Ei si contorce invano
De le parole al diluviar dirotto;
Ché forza è pur che suo malgrado ascolti:
Qual pellegrin che per deserta via
Colto a l’aperto da improvvisa pioggia,
Ricovra al tronco di ramosa quercia,
E, in se ristretto e rannicchiato, aspetta
Che passi, o scemi il tempestoso nembo.
E qual por freno a l’impeto che il porta?
Digli che taccia: ei non t’ascolta. Parla
Tu stesso: ei grida, e ti sopprime. Dormi:
Egli segue a parlar. Svégliati: e il trovi
Che parla ancora; e con perpetuo suono
Ti senti intorno l’instancabil voce.
Come notturno svegliarin se scocca
L’interno gioco, al turbinoso giro
De la veloce sprigionata ruota,
L’elastico martello il cavo seno
Cedere batte del sonoro bronzo;
Onde, a i colpi frequenti, e quai di densa
Grandine spessi, dal percosso orecchio
Rapido fugge e spaventato il sonno;
Tal non mai ferma la sua lingua o muta,
Di molle sembra artifizioso ordigno,
E sì ruota volubile e sonora,
Che il capo introna, lo stordisce e assorda,
E, con le mani ne gli orecchi, sforza
A cercar scapo con la fuga altrove.
Ma fuggi indarno; ch’ei t’incalza, e dove
Non giunge il passo, alza la voce, e parla
Fin che ti vede; e poiché sol rimane,
A parlar segue; e di parlar contento,
Poco si cura poi che alcun l’ascolti.
Cosa ne la natura ei non abborre
Quanto il silenzio; né a null’altro nacque
Fuor che a parlar. Parlando visse, e vuole
Parlar morendo, e ne la tomba ancora
Continuando de la lingua il moto,
Di franger spera il ferreo sigillo
Che morte al labbro taciturno imprime.

dalle Conversazioni di Clemente Bondi nel volume dedicato alla poesia della Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi

I beni umani

No il posseder, ma lo sperare alletta
L’uom; che nel senso e ne l’idea d’un bene,
Sempre trova minor quello che ottiene,
Finge sempre maggior quello ch’aspetta.

Mesto può fare un cor gioia perfetta,
Se è tal, che di maggior tolga la speme:
Se non lusinga l’avvenir, già sviene,
Nato appena, il piacer che ora diletta.

Per prova il so. T’amai, d’essere amato
Presi lusinga; e il tuo futuro amore,
Sperato solo, mi facea beato.

M’amasti; il seppi: ah che in quel sol momento
Sì esaurì la natura; e or langue il core,
Fatto incapace di un maggior contento!

 

Clemente Bondi, dalla Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi

Sonetto LXXXII (in cui Francesco richiama Laura a veder la crudele agitazione in cui essa sola l’ha posto)

Pace non trovo, e non ho da far guerra;
E temo e spero, ed ardo, e son un ghiaccio;
E volo sopra ‘l cielo, e giaccio in terra;
E nulla stringo, e tutto ‘l mondo abbraccio.

Tal m’ha in prigion che non m’apre nè serra,
Nè per suo mi ritien nè scioglie il laccio;
E non m’ancide Amor e non mi sferra,
Nè mi vuol vivo nè mi trae d’impaccio.

Veggio senz’occhi; e non ho lingua, e grido:
E bramo di perir, e cheggio aita;
Ed ho in odio me stesso ed amo altrui:

Pascomi di dolor; piangendo rido;
Egualmente mi spiace morte e vita.
In questo stato son, Donna, per vui.

dai Sonetti e le Canzoni in vita di Madonna Laura, Francesco Petrarca, Venetiis In Curia Patriarchali die 26 Maji anni 1856 Imprimatur Pro Excell. ac Rever. D.D. P. Aurelio Mutti Patr.Ven. Friedericus Zinelli libris revisendis praefectus, con Prefazione e Interpretazione di Giacomo Leopardi

Sogno del 22 maggio 2016:

Libreria senza pareti né scaffali (la posizione del mio corpo stabilisce la funzione di questo spazio) e davanti alla scrivania alla quale siedo si trova un lungo viale alberato: un caro amico alla sinistra, un molesto cliente alla destra ed entrambi invitati a lasciarmi al comparire del Principe di Danimarca;
Occhiali rosa piccoli e stretti con impressa la data 1 marzo 1951;
Inquadratura, nel sogno, delle mani durante il dono degli occhiali e del libro dal mesto (parola presente nel sogno o al piatto di copertina del libro) principe;
Altissima gioia.

Sulla giornata lavorativa del 24 maggio 2016:

Casa d’altri, Sansoni, 1953: venduta chissà quando;
Non ho avuto voglia di assumere la configurazione di libraia chiarendo che il libro Chien blanc di Romain Gary è in catalogo presso Neri Pozza con la traduzione letterale del titolo, né ho avuto voglia di raccontare la trama del libro e di dire la ragione per cui l’ho esposto in vetrina;
Ancora una volta niente Chris Marker;
Ho scordato La modificazione di Michel Butor;
Questua d’amicizia, a colui che si dichiara cliente storico ma non assiduo, respinta;
Fatica, solitudine, sindrome d’abbandono;
Felice visita di Habté;
Felice scoperta, grazie alla visita di Michelino, di un’interpretazione di Leopardi nel volume di Rime del Petrarca: albero maestro della giornata.

Insomma il principio delle cose, e di Dio stesso, è il nulla. Giacchè nessuna cosa è assolutamente necessaria, cioè non v’è ragione assoluta perch’ella non possa non essere o non essere in quel tal modo ecc. E tutte le cose sono possibili, cioè non v’è ragione assoluta perchè una cosa qualunque non possa essere o essere in questo o quel modo ecc. ecc. E non v’è divario alcuno assoluto fra tutte le possibilità, nè differenza assoluta fra tutte le bontà e perfezioni possibili. Vale a dire che un primo e universale principio delle cose o non esiste nè mai fu, o se esiste o esistè, non lo possiamo in niun modo conoscere, non potendo noi avere il menomo dato per giudicare delle cose avanti le cose e conoscerle al di là del puro fatto reale. Noi, secondo il naturale errore di credere assoluto il vero, crediamo di conoscere questo principio, attribuendogli in sommo grado tutto ciò che noi giudichiamo perfezione, e la necessità non solamente di essere ma di essere in quel tal modo che noi giudichiamo assolutamente perfettissima. Ma queste perfezioni sono tali solamente nel sistema delle cose che noi conosciamo, vale a dire in uno solo dei sistemi possibili; anzi solamente in alcune parti di esso, in altre no, come ho provato in tanti altri luoghi; e quindi non sono perfezioni assolutamente, ma relativamente, nè sono perfezioni in sè stesse e separatamente considerate, ma negli esseri a’ quali appartengono, e relativamente alla loro natura, fine ecc., nè sono perfezioni maggiori o minori di qualunque altra ecc., e quindi non costituiscono l’idea di un ente assolutamente perfetto e superiore in perfezione a tutti gli enti possibili, ma possono anche essere imperfezioni, e talora lo sono, pure relativamente ecc. Anche la necessità di essere o di non essere in un tal modo e di essere indipendentemente da ogni cagione è perfezione relativa alle nostre opinioni ecc. Certo è che, distrutte le forme platoniche preesistenti alle cose, è distrutto Iddio (18 luglio 1821).

dallo Zibaldone, Giacomo Leopardi

L’incivilimento ha mitigato la tirannide de’ bassi tempi, ma l’ha resa eterna, laddove allora non durava, tanto a cagione dell’eccesso quanto per li motivi detti qui sopra. Spegnendo le commozioni e le turbolenze civili in luogo di frenarle, com’era scopo degli antichi (…), non ha assicurato l’ordine, ma la perpetuità, tranquillità e immutabilità del disordine e la nullità della vita umana. In somma la civiltà moderna ci ha portati al lato opposto dell’antica, e non si può comprendere come due cose opposte debbano essere tutt’uno, vale a dire civiltà tutt’e due. Non si tratta di piccole differenze, si tratta di contrarietà sostanziali: o gli antichi non erano civili o noi non lo siamo (10 luglio 1829)”.

Giacomo Leopardi

Have just finished Leopardi’s “Pensieri”

Have just finished Leopardi’s “Pensieri” (translated by P. Maxwell – a scholarly major-general). They are paragraphs on human nature, like Schopenhauer’s psychological observations, Paschals (sic) “Pensées”, (de la) Rochefoucauld’s “Maximes”, etc. How true they all are! I should like  to have a library of such things.

dal Diario, 21 febbraio 1906, Wallace Stevens

24 agosto 1821

L’immaginazione, eccetto ne’ fanciulli, non abbisogna di fondamento nella persuasione. Omero non credeva certo a quello ch’egli immaginava. La scienza può dunque sommamente indebolire l’immaginazione; pur non è incompatibile seco lei. Per l’opposto, il sentimento se non è fondato sulla persuasione è nullo. Quell’uomo che non crede più alla virtù; che sa ch’ella è dannosa; e del resto non si trova in nessuno; che ha perduto l’idea della grandezza degli animi e delle cose e delle azioni; vedendo come tutte queste e tutti quelli son piccoli; che ha conosciuto come l’entusiasmo, l’eroismo, l’amore non hanno verun oggetto reale; che gli uomini e le cose sono indegnissime di destare in lui questi affetti ec. ec., un tal uomo come può far uso del suo cuore, come può provar più verun sentimento forte e durevole; egli che sotto le più belle apparenze, discopre chiaramente o fortemente sospetta, l’inganno, l’astuzia, la malvagità, i secondi fini, la vanità, la viltà, la nullità; la freddezza?

dallo Zibaldone, p. 1557, Giacomo Leopardi

il padre di Carlo Michelstaedter

(Lettera di Leopardi al Giordani del 6 marzo 1820)

“… poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano lontano, mi si risvegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale ero certo di ritornare subito dopo, com’è seguito, m’agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi e senza immaginazione ed entusiasmo; delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi facevano così beato, nonostante i miei travagli. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l’entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza eterna e sovrana dell’amore è annullata a rispetto mio nell’età in cui trovo… questa è la miserabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che, i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose sia sempre e solamente giusto e vero”.

Propriamente il Leopardi non può subire passivamente, “pati”; è in condizione di poter essere solo attivo, di dover dominare la materia che gli si presenta e trasformarla per la sua opera. Ciò significa, che deve vivere doppiamente nel soffrire che lo tiene immobile: da un alto il dolore come una realtà che grava su di lui; dall’altro il senso dell’impossibilità dell’attività, che si tramuta nel pieno avvertimento di quello. Nasce uno stato di conoscenza, che è un girare a vuoto nella mola della vita.

da La filosofia del Leopardi, Giovanni Amelotti, R.Fabris (1937) (in corso di pubblicazione per le Edizioni Emiliano degli Orfini)