Tag Archives: fotografia

della corretta disposizione dei libri

foto di André Kertesz

Francoforte , 9.12.1957

Ingeborg, mia cara Ingeborg,
Io ho, poi, guardato ancora una volta dal treno, anche tu ti eri voltata a guardare, ma io ero troppo lontano.
Dopo improvvisa una sensazione violentissima di soffocamento.
E quando sono rientrato nello scompartimento, è accaduto qualcosa di molto strano. è stato così strano che mi ci sono abbandonato per un lungo tratto del viaggio – adesso te lo racconto, esattamente come è accaduto – ma ti chiedo sin d’ora scusa del mio comportamento forse un po’ troppo impulsivo.
Rientrato, dunque, nello scompartimento ho preso dalla cartella le tue poesie. è stato per me come annegare tutto in una luminosa trasparenza.
Quando ho alzato lo sguardo ho visto la giovane signora che occupava il posto accanto al finestrino tirare fuori Akzente, l’ultimo numero, e incominciare a sfogliarlo. Lei continuava a sfogliare, il mio sguardo, che seguiva il suo sfogliare, sapeva che le tue poesie e il tuo nome sarebbero comparsi. Alla fine erano lì e la mano che sfogliava si è fermata. Mi sono accorto che aveva smesso di sfogliare, i suoi occhi, adesso, leggevano, e tornavano di nuovo a leggere. Ancora e ancora. Le sono stato così grato. Poi, per un istante, ho pensato che doveva trattarsi di una persona che ti aveva ascoltato leggere, ti aveva visto e riconosciuto.
Ho voluto, allora, saperlo. Gliel’ho chiesto. E le ho detto che eri tu, fuori.
Ho poi invitato la signora a prendere un caffè, era una giovane scrittrice che a Monaco aveva consegnato un manoscritto alla casa editrice Desch e, come ha detto, scriveva anche lei poesie. Dalle sue parole, allora, ho capito quanto fosse grande la sua ammirazione per te.
Sono stato abbastanza cauto nel parlare, Ingeborg, ma lei aveva già capito tutto, per lei questo era un fatto straordinario.
Alla fine le ho regalato entrambi i miei volumi di poesie e l’ho pregata di leggerli soltanto quando fossi sceso dal treno.
Era una giovane donna, avrà avuto trentacinque anni, ora sa tutto, ma non credo vada a dirlo in giro. Credo proprio di no. Non essere arrabbiata, Ingeborg. Ti prego, non essere arrabbiata.
Era così strano, strano come lo sono le cose del nostro mondo – la persona a cui lo dovevo era giusto che sapesse chi aveva avuto davanti a sé. Dimmi cosa ne pensi – ti prego!
Penso anche che potresti inviarle un saluto, l’indirizzo è:

Margot Hindorf
Koeln-Lindenthal
Duerener Str.62

Scrivimi una riga a Parigi, mercoledì sera sarò lì.
A Francoforte, erano le otto, ho telefonato subito alla signora Kaschnitz – nessuno ha risposto. Domani tenterò di nuovo.
Devo rivederti, Ingeborg, sì ti amo.
Paul

Qui sono ospite da Christoph Schwerin: i nostri libri stanno l’uno vicino all’altro.

la resistenza

foto di Luca Donnini


Una domenica di quell’inverno si trasformava del 1944, uno dei più freddi, sotto la tempesta di neve, ritrovai di nuovo il mio giovane ‘musulmano’. Seduto al suo fianco, mi scaldai prima di intraprendere l’ultima parte del percorso. Stavamo entrambi in silenzio.
Davanti a noi, davanti al nostro sguardo che era diventato indifferente, si allineava la lunga fila dei deportati, accovacciati, a defecare. Assorti nel dolore lacerante della defecazione. Poco lontano, alla nostra sinistra, un gruppo di vecchi litigava per un mozzicone che di sicuro non circolava equamente. Alcuni dovevano considerarsi in credito, e protestavano. Ma il loro scarso vigore, la loro vitalità quasi svuotata, facevano di questa protesta,che probabilmente avevano insistito per fare, un simulacro di gesti e di mormorii irrisoriamente lamentevoli.
Non potei fare altro che recitare a voce alta il poema in prosa di Rimbaud a cui avevo già pensato altre volte, da quando conoscevo le latrine del Campo Piccolo.
“Betsaida, la piscina dei cinque portici, era un ritrovo di noia. sembrava un lavatoio sinistro, sempre oppresso dalla pioggia e ammuffito…”
Lanciò una specie di grido rauco, come se d’un tratto si risvegliasse dal suo letargo cachettico.
Io continuai a recitare:
“e, sui gradini interni illividiti da bagliori di tempesta forieri dei lampi dell’inferno, i mendicanti s’agitavano…”
Poi, una lacuna nella memoria: il resto del poema era svanito.
Fu lui che continuò a recitare. La sua voce non aveva più quella specie di gracchio metallico, la risonanza ventriloqua del primo giorno in cui gli sentii pronunciare due parole.
Senza interruzione, tutto d’un fiato, come se recuperasse a un tempo la voce e la memoria – il suo stesso essere – recitò la continuazione.
“…scherzando sui loro ciechi occhi blu, e sulle fasce bianche o azzurre dei loro moncherini. O lavanderia militare, o bagno popolare…”
Piangeva a forza di ridere, la conversazione stava diventando possibile.

da Vivrò col suo nome, morirà con il mio. Buchenwald 1944, Jorge Semprun, Einaudi, trad.di Paolo Collo e Paola Tomasinelli

ars poetica

sergio larrain
foto di Sergio Larrain

 

Sono poeta – che m’importa,
in sé, della poesia! Se in cielo salisse
la stella del notturno
fiume, non sarebbe bello.

Il tempo scorre lentamente, io non cerco
il latte delle favole, mi disseto
al mondo reale, con spuma
di cielo all’orlo.

Bello bagnarsi alla fonte,
la quiete e il tremolio
si fondono, e si alza sulla spuma
un dolce e saggio chiaccherare.

Gli altri poeti – che me ne importa?-
su fino al petto lordandosi, con false
immagini, con alcooli, l’ebbrezza
fingano, io vado oltre

questa moderna osteria,
fino alla ragione e più in là;
con libera mente non recito la parte
sciocca e volgare del servo.

Possa tu mangiare, bere, dormire, far l’amore!
Misurati con l’universo!
Nemmeno a denti stretti io servo
potenze vili che ci opprimono.

Non c’è compromesso – devo essere felice! Oppure
chiunque potrà oltraggiarmi, rosse
macchie lo denunceranno, la febbre
si berrà i miei umori.

Non chiudo la bocca accusatrice,
mi appello alla ragione. Mi guarda
bevendo il mio secolo, mi pensa
arando il contadino, il corpo

dell’operaio tra due rigidi gesti
mi intuisce, e la sera
presso il cinema mi attende
il ragazzo malvestito.

E dove a schiera inseguono i teppisti
l’ordine delle mie poesie
avanzano fraterni carri armati
a diffondere rombando questi versi.

Ancora non è adulto l’uomo, mi dico. Ma
così si immagina, per questo è smisurato.
L’accompagnino i suoi due genitori
con lo sguardo: l’amore e la ragione.

 

da Gridiamo a Dio, Attila Jozsef, Guanda

il poema è l’essere: non poter fare altrimenti (Marina Cvetaeva)

foto di Luca Donnini

Rilke, con il quale la Cvetaeva su questo punto concorda, affermava che per portare a termine la propria missione l’artista deve essere capace di comportarsi con il mondo come san Giuliano l’ospedaliere con il lebbroso: dormire accanto a lui, abbracciarlo, amarlo. Poco importa, qui, se si tratta di un malfattore o di un santo; l’artista deve riconoscersi in lui per poterne rivelare la verità. E’ così che ha agito Puskin quando si è accinto a raccontare la storia di Pugacev, di cui non ignorava che fosse un criminale. Dedicandosi alla propria arte, il poeta deve rinunciare ad atteggiamenti umani, spontanei, per esempio proteggere i propri cari e respingere i nemici. Mosso dal desiderio di voler comprendere tutti gli uomini, il poeta finisce per diventare lui stesso inumano: per dare ascolto alla loro verità, ha accettato di soffocare la voce della propria coscienza.

E’ questa la ragione vera, dunque, sottesa all’impossibilità di arruolare gli artisti al servizio del Bene: il primo dovere che hanno è nei confronti del Vero e, quando i due concetti entrano in conflitto, è l’ultimo a prevalere. Per esempio, Goethe doveva uccidere Werther: “Qui la legge artistica è l’esatto contrario di quella morale (…) In alcuni casi, la creazione artistica è una sorta di atrofia della coscienza, (…) quel vizio etico senza cui non si dà arte”.

(…)

Se l’arte non è altro che la rivelazione del mondo e della vita, non è più possibile, come volevano i romantici nelle loro dichiarazioni programmatiche, contrapporre arte e vita. Cvetaeva batte sempre su questo tasto: il poeta non appartiene a una specie a parte, non esiste una ‘struttura poetica dell’anima’ – la struttura rimane la stessa per tutti, cambiano solamente l’intensità dell’esperienza e la padronanza del verbo. “Il poeta è l’uomo moltiplicato per mille”. Quando si parla con lei di tecnica poetica, Cvetaeva si dichiara incompetente: “è affare degli esperti di poesia. La mia specialità- è la vita”. Il linguaggio è il suo mestiere, ma solo in quanto mezzo – invalicabile – per accedere al mondo: “vivendo attraverso il verbo, disprezzo le parole”. Lo stesso vale per altri artisti che ella approva,come Pasternak: “niente altro che la vita”. Il vero poeta è all’ascolto del mondo, non degli esperti di letteratura; arte e vita devono sottomettersi alle stesse esigenze. Napoleone e Hoelderlin fanno parte del suo Pantheon allo stesso titolo – quello dell’estremo, della potenza del genio. L’arte non può essere separata dalla vita, la vita deve tendere alla legge implacabile dell’arte.
“Il poema, è l’essere: non poter fare altrimenti.”

da La bellezza salverà il mondo. Wilde, Rilke, Cvetaeva, di Tzvetan Todorov, Garzanti, 2011, trad.di Emanuele Lana

nell’incanto di un sogno

Nell’incanto di un sogno, vedo a volte
un’amorosa fata, ed è già pronta
a servirmi con tutta la sua scienza.
Esultando con l’anima ingannata,
io le sussurro i miei miraggi…ebbene?
è strano ma anche nel sogno la gioia
mi è irraggiungibile: sempre ai suoi doni
essa pone una qualche condizione,
malevolmente escogitata, così
che li avvelena oppure li cancella.
Dunque, è schiavo perfino il nostro spirito
del beffardo destino della terra,
dunque, la nostra povera ragione
si sottomette a tal punto al reale
che, senza immaginarlo, le sue leggi
trasporta sino al mondo dei miraggi.

da Liriche, Evgenij Baratynskij, Einaudi, trad.a cura di Michele Colucci

passato, presente e futuro


foto di Ribes Sappa

Passato, presente e futuro sono determinazioni incompatibili. Ogni evento deve essere l’uno o l’altro, ma nessun evento può essere più di una cosa. Se dico che un qualsiasi evento è passato, significa che non è presente né futuro, e viceversa negli altri casi. E questa esclusività è essenziale per il cambiamento, e quindi per il tempo. Infatti l’unico cambiamento che possiamo ottenere è da futuro a presente, e da presente a passato. Quindi le caratteristiche sono incompatibili. Ma ogni evento le ha tutte. Se (un evento) è passato, è stato presente e futuro. Se è futuro, sarà presente e passato. Se è presente, è stato futuro e sarà passato. Così tutte e tre le caratteristiche fanno parte di ogni evento. Come può questa situazione essere coerente con la loro incompatibilità?

John Ellis McTaggart

un tipo di principio antropico

foto di Ribes Sappa

Caso

E pensare che avremmo potuto non conoscerci!
Amore mio, immagini tutto quel che la Sorte
ha dovuto permettere perché fossimo qui
e ci amassimo
e noi fossimo noi?

Dici: – Eravamo nati l’uno per l’altra – Ma
pensa quanti motivi, concorsi e coincidenze
e casi ci vollero per realizzare questo,
soltanto, il nostro amore!

da Toi e moi, Paul Géraldy, Mondadori, trad.di Daria Menicanti

14 agosto 1958

La spiaggia è un teatro di innnumerevoli figure alla Bosch. Gambe, pance, seni, sesso. Corpi avvizziti e deformati dalla vecchiaia, volti che assomigliano a tutte le specie animali. Umanità nuda che sa di carnaio. Quasi tutti i vizi sembrano rappresentati in questo o quel tipo. Ogni corpo ha una sua storia, un suo dramma: spesso è una caricatura grottesca. Certo si potrebbe anche dire che si vedono delle belle donne e degli uomini belli. Eppure hanno qualcosa di artificiale e di costruito. L’occhio cerca, invano, finché si posa sui bambini nei quali la vicenda umana si rinnova per riprendere tenacemente il cammino nnostante la tristezza, il grottesco, il diabolico.
Una piccola francese di quattro anni. Corre in acqua appena può e dopo ogni bagno si addormenta. Reagisce immediatamente a qualsiasi stimolo, buono o cattivo. Piange e ride. I suoi occhi sono di un azzurro vorace, quasi aggressivo.
Senso della vita che si rilancia: intenzionalità. Il processo vivente non avanza mai come una scala, un gradino dopo l’altro. è una curva che tocca un massimo e poi discende, si depaupera, si disgrega. Momenti nei quali ogni essere vivente, ogni civiltà, toccano il meriggio nell’aspirazione alla propria essenza.
Negli occhi dei bambini c’è la purezza del vento del martino sul mare: dell’orizzonte aperto al possibile.

da Diario fenomenologico, Enzo Paci, Il Saggiatore

il dibuk

foto di Ribes Sappa

 

Il Messaggero (con grande calma e chiarezza)

Le anime dei morti tornan quaggiù, ma non spiriti eterei, senza più corpo, come avverrà quando avran raggiunto l’alta purezza! La colpevole anima assume aspetti bestiali o s’imprigiona entro la dura scorza o nei rami contorti degli alberi. O dei novelli nati nelle gracili forme si rifugia.

Leah

Ah, parla, parla ancora!

Il Messaggero

Ed ogni maledetta anima errante che non trova riposo, del corpo altrui talora s’impossessa, ed in quel corpo, alla fine, si purifica. Ciò si chiama “dibuk”!

da Il Dibuk leggenda drammatica in un Prologo e tre Atti, di Scialom An-Ski, riduzione di Renato Simoni per la musica di Ludovico Rocca, G.Ricordi e C.Editori Milano, 1934