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Kien, si lasci abbracciare!!

S’era concesso due intere giornate di libertà sotto il pretesto di rimettersi dagli strapazzi passati, di prepararsi a quelli futuri, e di battere un’ultima volta la città alla ricerca di librerie sconosciute. I suoi pensieri erano lieti e tranquilli, lui seguiva passo passo la rinascita della sua memoria, trascorreva le prime vacanze che si fosse spontaneamente concesso dai tempi dell’università in compagnia di una creatura devota, di un amico che teneva in grandissimo controllo il cervello – come era solito dire lui invece di istruzione – senza peraltro mostrarsi importuno; che portava con sé una biblioteca di notevoli dimensioni, senza aprire abusivamente uno solo dei libri che si struggeva di leggere, deforme e per sua stessa confessione cattivo camminatore, eppure abbastanza robusto e tenace da far buona prova di facchino. Poco mancava che Kien cedesse alla tentazione di credere nella felicità, questa spregevole meta degli analfabeti. Quando essa viene da sola, quando non la si rincorre e non la si tiene stretta a forza e la si tratta con un certo distacco, si può tranquillamente sopportarne la vicinanza per un paio di giorni.

da Auto da fé, Elias Canetti, Garzanti, trad. di Luciano e Bianca Zagari

il ricordo più muto e segreto che ho di lei

 

Una sola volta mi apparve costernata e incapace di controllarsi, è il ricordo più muto e segreto che ho di lei, l’unica volta in cui la vidi piangere per strada, di norma era talmente padrona di sé e delle sue emozioni che mai si lasciava andare in pubblico. Passeggiavamo lungo il Limmatquai, io volevo mostrarle qualcosa nelle vetrine di Rascher. In quel momento ci venne incontro un gruppo di ufficiali francesi nelle loro vissute uniformi. Alcuni di essi faticavano a camminare e gli altri si adeguavano al loro passo claudicante; noi ci fermammo per lasciarli lentamente passare. “Sono feriti di guerra,” disse la mamma “sono in Svizzera per la convalescenza. Vengono scambiati con prigionieri tedeschi”. E già dalla parte opposta arrivava un gruppo di tedeschi, anche fra loro ce n’erano alcuni con le stampelle, e gli altri camminavano più lentamente per tenersi a quel passo. Ricordo ancora lo spavento che mi passò per le vene: che cosa accadrà adesso, si aggrediranno a vicenda? In quello smarrimento non ci scostammo tempestivamente e d’un tratto ci trovammo chiusi nel mezzo fra i due gruppi che volevano passare oltre. Eravamo sotto i portici, spazio ce n’era abbastanza, ma ora li vedevamo in volto proprio da vicino, mentre si incrociavano. Contrariamente a quel che mi aspettavo, nessuno di quei volti era contratto dall’odio o dalla collera. Si guardarono in faccia tranquilli e cortesi, come se niente fosse, alcuni portarono la mano al berretto in segno di saluto. Camminavano molto più lentamente dell’altra gente ch’era per la strada e ci volle parecchio tempo – un’eternità, mi parve – prima che tutti fossero passati. Uno dei francesi si voltò indietro ancora una volta, sollevò in aria la stampella e gridò “Salut!” ai tedeschi che intanto erano passati oltre. Un tedesco lo sentì e subito lo imitò, anche lui aveva la stampella che agitò in aria restituendo il saluto in francesce: “Salut!”. Si potrebbe pensare che le stampelle si fossero levate in alto in un gesto di minaccia, ma non era affatto così, quei soldati si mostravano l’un l’altro, per un ultimo saluto, ciò che gli era rimasto in comune: le stampelle. La mamma era salita sul marciapiede e se ne stava dritta davanti alla vetrina volgendomi le spalle. Vedendo che tremava, mi avvicinai e la guardai cautamente di sbieco: piangeva. Ci mettemmo in posa come se fossimo intenti a guardare la vetrina, io non dissi niente, neanche una parola, e quando lei si fu ripresa ci avviammo verso casa in assoluto silenzio; anche in seguito di questo incontro non parlammo mai.

da La lingua salvata, Elias Canetti, Adelphi, trad. di Amina Pandolfi e Renata Colorni

… parlavo piuttosto con la tappezzeria

Dalma

A casa, nella stanza dei bambini, giocavo per lo più da solo. In verità giocavo poco, parlavo piuttosto con la tappezzeria. I molti cerchi scuri nel disegno della tappezzeria li vedevo come persone. Inventavo una quantità di storie in cui essi figuravano da protagonisti, qualche volta ero io a raccontargliele, ma qualche volta anche loro partecipavano al gioco; comunque non mi stancavo mai di questi personaggi della tappezzeria ed ero capace di stare ore e ore a discutere con loro.

da La lingua salvata, Elias Canetti, trad.di Amina Pandolfi e Renata Colorni

to be or not to be

to be or not to be Lubitsch

Così Elias Canetti ricorda la prima volta in cui aveva ascoltato Kraus in occasione di una conferenza al Konzerthaus:

Un ometto piccoletto piuttosto mingherlino, con un volto affilato di inquietante vivacità, che mi disorientò (…). La voce, tagliente e irritata, dominava facilmente la sala con bruschi e frequenti salti di volume (…). Il fatto incomprensibile e indimenticabile – indimenticabile anche se avessi vissuto trecento anni – era che (la voce di Kraus al min.8.22) si imponeva come una legge di fuoco: si irradiava, bruciava e annientava (…) e il manifestarsi di questo castigo sterminatore, compiuto pubblicamente, diffondeva un tale orrore e una tale violenza che nessuno riusciva a sottrarvisi…

Chiunque abbia ascoltato la voce di Kraus nelle registrazioni esistenti avrà potuto notare una simile terrificante esperienza. Il fatto è che, dopo la Seconda guerra mondiale, è ormai un’altra voce, raggelante, che ascoltiamo attraverso la sua, una voce che ha preso la sua maschera. Il Führer parla con la voce di Karl Kraus. Il giovane vagabondo, studente di belle arti negli anni viennesi, aveva avuto la curiosità di andare ad ascoltare le sue conferenze? Diciamo piuttosto che, proprio come a Monaco avrebbe appreso ad atteggiare il corpo, a controllare ogni espressione e ogni gesto dalle fotografie che Hoffmann gli scattava, il piccolo austriaco dal ruvido tedesco e dalla dizione grossolana avrebbe imparato a dosare la propria voce sino a riprodurre il più straordinario prodotto dell’arte oratoria dell’epoca, copiando il fraseggio di Kraus, le sue sincopi, i suoi modi taglienti e brucianti. Karl Kraus suo malgrado, è divenuto maestro di dizione di Hitler, proprio come, mutatis mutandis, Marinetti, così di buona voglia per parte sua, lo era stato di Mussolini.

da La responsabilità dell’artista. Le avanguardie tra terrore e ragione, Jean Clair, Abscondita, trad.di Stefano Chiodi

 To be or not to be, Mel Brooks

angoscia della posizione eretta

L’espressione sconvolgente “angoscia della posizione eretta” si trova in una lettera a Felice. Kafka le spiega un sogno di cui lei gli ha parlato, e dalla sua spiegazione non è difficile dedurne il contenuto.
“Voglio dirti invece l’interpretazione del tuo sogno. Se non ti fossi sdraiata per terra in mezzo agli animali, non avresti potuto contemplare il cielo stellato e non saresti stata salvata. Forse non saresti neanche sopravvissuta all’angoscia della posizione eretta. Lo stesso succede anche a me; è un sogno che abbiamo in comune, che tu hai sognato sia per me che per te”.
Bisogna sdraiarsi per terra fra gli animali per essere salvati. la posizione eretta rappresenta il potere dell’uomo sugli animali, ma proprio in questa chiara posizione di potere egli è più esposto, più visibile, più attaccabile. Giacché questo potere è anche la sua colpa, e solo se ci sdraiamo per terra tra gli animali possiamo vedere le stelle che ci salvano dall’angosciante potere dell’uomo.

Elias Canetti da Un po’ di compassione, AA.VV., Adelphi