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Poeta, non letterato

Che cosa significa che un poeta si fermi più del lecito a sfruttare il paese? Significa che finga a sé stesso di non sapere quel che già sa. Fonte della poesia è sempre un mistero, un’ispirazione, una commossa perplessità davanti a un irrazionale – terra incognita. Ma l’atto della poesia – se è lecito distinguere qui, separare la fiamma dalla materia divampante – è un’assoluta volontà di veder chiaro, di ridurre a ragione, di sapere. Il mito e il logo. Chi ha veduto una volta la propria ispirazione, chi ha ridotto a parole, a discorso, articolandola nel tempo e nello spazio, l’estatica meraviglia dell’essere, si rassegni e a proposito del mito in questione non finga a sé stesso, per rigustare il tormentoso piacere, una verginità che ha perduto. Se, beninteso, la sua occhiata, la sua riduzione dal mito a figura, è stata esauriente e sovrana (e quest’occhiata non è mai folgorante; occorrono giorni e anche anni di tormentosi tentativi e di ricerche); costui può contentarsi e attendere con equanimità che dal groviglio della coscienza, del ricordo e della macerazione gli nasca una nuova verginità, una nuova ispirazione, un nuovo mito. Per ora dovrà contentarsi. O fingendo di non sapere quel che già sa, cincischiare il pubblicato mistero e farsi letterato.

da Poesia è libertà, Saggi sul mito, Cesare Pavese, La Noce d’Oro, Tebaide, 2021

a.k.a Constance Dowling

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi –
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

22 marzo ’50

Cesare Pavese

Death will come and will have your eyes –
this death that accompanies us
from morning to night, sleepless,
deaf, like an old remorse
or an absurd vice. Your eyes
will be a vain word,
a silent cry, a hush.
So you see them every morning
when you bend over yourself
in the mirror. O dear hope,
then we too will know
that you are life and you are nothing.

For all, death has a look.
Death will come and will have your eyes.
It will be like quitting a vice,
like seeing in the mirror
a dead face re-emerge,
like listening to a closed lip.
Mute, we will descend into the chasm.

In the morning you always come back

Lo spiraglio dell’alba
respira con la tua bocca
in fondo alle vie vuote.
Luce grigia i tuoi occhi,
dolci gocce dell’alba
sulle colline scure.
Il tuo passo e il tuo fiato
come il vento dell’alba
sommergono le case.
La città abbrividisce,
odorano le pietre –
sei la vita, il risveglio.

Stella sperduta
nella luce dell’alba,
cigolio della brezza,
tepore, respiro –
è finita la notte.

Sei la luce e il mattino.

20 marzo ’50

da Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Cesare Pavese

L’unità

(…) l’unità di un gruppo di poesie (il poema) non è un astratto concetto da presupporsi alla stesura, ma una circolazione organica di appigli e di significati che si viene via via concretamente determinando. Succede anzi che, composto tutto il gruppo, la sua unità non ti sarà ancora evidente e dovrai scoprirla sviscerando le singole poesie, ritoccandone l’ordine, intendendole meglio. Mentre l’unità materiale di un racconto si fa per così dire da sé ed è cosa naturalistica per il meccanismo stesso del raccontare.

da A proposito di certe poesie non ancora scritte, appendice a Lavorare stanca, Cesare Pavese, Einaudi

e mi scopersi un giorno mugolare

Mi ero altresì creato un verso. Il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza che esso usa pretendere dalla fantasia. Sul verso libero whitmaniano, che molto invece ammiravo e temevo, ho detto altrove la mia e comunque già confusamente presentivo quanto di oratorio si richieda a un’ispirazione per dargli vita. Mi mancava insieme il fiato e il temperamento per servirmene. Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e di gratuitamente (così mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé; e del resto troppo li avevo usati parodisticamente per pigliarli ancora sul serio e cavarne un effetto di rima che non mi riuscisse comico.
Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso (…).

da Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca), Cesare Pavese, Einaudi

La notte

Ma la notte ventosa, la limpida notte
che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,
è un ricordo. Perduta una calma stupita
fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,
di quel tempo di là dai ricordi, che un vago
ricordare.

                     Talvolta ritorna nel giorno
nell’immobile luce del giorno d’estate,
quel remoto stupore.

                                               Per la vuota finestra
il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati:
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
e le piante e le vigne, eran nitide e morte
e la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.

                                           Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.

da Lavorare stanca, Cesare Pavese, Einaudi

Sono libri

martaeclementina

 

Nuto rovistava in quella cassa –c’era un carico di libri stracciati, di vecchi fogli color ruggine, quaderni della spesa, quadri rotti. Lui faceva passare quei libri, li sbatteva per levargli la muffa, ma a toccarli per un po’ le mani ghiacciavano. Era roba dei nonni, del padre del sor Matteo che aveva studiato in Alba. Ce n’era di scritti in latino come il libro da messa, di quelli con dei mori e delle bestie, e così avevo conosciuto l’elefante, il leone, la balena. Qualcuno Nuto se l’era preso e portato a casa sotto la maglia, “tanto, -diceva- non li adopera nessuno”. – che fai? –gli avevo chiesto, -non comprate già il giornale?
– Sono libri, -disse lui, – leggici dentro fin che puoi. Sarai sempre un tapino se non leggi nei libri.

da La luna e i falò, Cesare Pavese, Einaudi

ai disertori della vanga

A Franca Violani Cancogni, Roma

Torino, 25 agosto 1950

Cara signora,
che Einaudi non la paghi non è niente di nuovo. Si faccia pagare anticipato, la prossima volta, è l’unico modo.
Ho avuto il suo *, ma non so che farne. A me questa poesia mi disgusta profondamente, e imporrei una tassa di 100 000 lire per ogni verso, da pagarsi in lavori forzati.
Le rimando il manoscritto. Se crede, lo presenti a Muscetta (Via Uffici del Vicario) che dovrebbe dirigere una collana di poeti.

Cordialmente.

Senza la firma di Cesare Pavese

Dattiloscritto (copia) nell’Archivio Einaudi

Permetta a un lettore privato si salutarla con gratitudine

Agostino Straulino e Nicolò Rode nel 1950

Marina di Poveromo, 14 agosto 1950

Caro Pavese,
quantunque non abbia il piacere di conoscerla di persona, non posso fare a meno di scriverle: perché mezz’ora fa ho terminato di leggere La luna e i falò.
Solo nelle poche vacanze posso permettermi il lusso di leggere libri di mio gusto. Ho seguito in questi anni con crescente comprensione la Sua opera di narratore. Il secondo racconto di Prima che il gallo canti, che lessi qualche mese fa, m’aveva colpito ancor più degli altri Suoi scritti. Ora, in queste vacanze d’agosto ho potuto leggere con viva ammirazione il trittico di Bella d’estate, e tra ieri e oggi La luna e i falò. E ne sono ancora, più che ammirato, turbato.
Questa è grande arte e poesia vera: di fronte a pagine come queste, dove il dolore della vita è filtrato attraverso la serena contemplazione del ricordo, le polemiche sui fini dell’arte e sulle relazioni tra arte e politica non hanno più senso. Gli artisti veri, senza proporselo, toccano sempre le ferite della loro società, l’accento occasionale che prende nel loro tempo la eterna pena dell’uomo: sono del loro tempo e di tutti i tempi.
Permetta a un lettore privato di salutarla con gratitudine.
Il suo,

Piero Calamandrei

.-.-.-

 

Torino, 21 agosto 1950

Caro Calamandrei,
la sua lettera è venuta come una brezza nel deserto. Traversavo e traverso un periodo tristissimo, e sia pure soltanto un sollievo come quello di sentire che non si è lavorato invano e che i migliori d’Italia se ne sono accorti, è bastato a darmi respiro. Le espressioni che ha voluto usare riguardo alla mia opera sono tali che, se non fossi certo di chi è Calamandrei, quasi avrei creduto a una leggera canzonatura. Ma so bene invece il loro senso, e considero la lettera epoch-making nella mia vita.
Spero di superare queste secche e lavorando dell’altro darle ragione fino in fondo. Ma quella “serena contemplazione del ricordo” che lei rileva nei miei libretti non è stata se non a prezzo di tali rinunzie nella mia vita che oggi ne sono tramortito. Vedremo.
Grazie, caro Calamandrei, suo

Cesare Pavese

Lettere 1945-1950, Cesare Pavese, Einaudi