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appunti per Mi chiamo M.M. n.11

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Più si acquista la consuetudine del pensiero filosofico, e più si tocca con mano che il filosofo è artista. Non già uno che sa, ma uno che guarda (…): che, cioè, come l’artista, ha una sua certa visione personale delle cose e le esprime nel modo in cui vede. Così egli fa, al pari del poeta, nei trattati i suoi poemi, nei saggi o nei “frammenti” le sue liriche.

da Lettere spirituali, Giuseppe Rensi, Bocca, 1943

per Giacomo Leopardi, Maria Zambrano, Carlo Michelstaedter, Giovanni Amelotti, Wallace Stevens

filopsichia

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Così muovendosi nel giro delle cose che gli fanno piacere, l’uomo (retore) si gira sul pernio che dal dio gli è dato (…) e cura la propria continuazione senza preoccuparsene, perché il piacere preoccupa il futuro per lui. Ogni cosa ha per lui questo dolce sapore, ch’egli la sente sua perché utile alla sua continuazione, e in ognuna con la sua potenza affermandosi egli ne ritrae sempre l’adulazione ‘tu sei’.

da La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter, Adelphi

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L’uomo non vive d’altro che di religione o d’illusioni. Questa è proposizione esatta e incontrastabile: tolta la religione e le illusioni radicalmente, ogni uomo, anzi ogni fanciullo, alla prima facoltà di  ragionare (giacchè i fanciulli massimamente non vivono d’altro che d’illusioni) si ucciderebbe infallibilmente di propria mano, e la razza nostra sarebbe rimasta spenta nel suo nascere per necessità ingenita e sostanziale. Ma le illusioni, come ho detto, durano ancora a dispetto della ragione e del sapere.

pp. 213-214 Zibaldone, Giacomo Leopardi, Mondadori, I Meridiani

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Genio: – Che cosa è il piacere?

Tasso: – Non ne ho pratica da poterlo conoscere che cosa sia.

Genio: – Nessuno lo conosce per pratica, ma solo per ispeculazione: perchè il piacere è un subbietto speculativo, e non reale; un desiderio, non un fatto; un sentimento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova; o per dir meglio un concetto e non un sentimento.

dal Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, Giacomo Leopardi

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Il Leopardi attraverso questa scoperta, comprende anche, nel suo intimo fondamento, il desiderio e la volontà che l’animarono e che pur ancora nell’intimo lo animano. L’uomo si protende innanzi perché non ha presente, perché propriamente egli non vive in un atto presente. Il suo destino e di volgersi fuori a scoprire una vita, poiché attualmente vita egli non ha tranne il desiderio e senso di mancanza. La scoperta è capitale: la vita umana in sé propriamente non è, poiché è solo fatta di speranze e di ricordi. E conseguenza naturale di questo fatto l’assenza dell’ “atto proprio del piacere”: (p.532-2 Zibaldone)

“Il piacere umano (così probabilmente quello di ogni essere vivente in quell’ordine di cose che noi conosciamo) si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste solamente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero un piacere, e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere… Il piacere non e mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. E la ragione è che non può esserci piacer vero per un essere vivente se non è infinito (e infinito in ciascuno istante, cioè attualmente); e infinito non può mai essere, benchè confusamente ciascuno creda può essere e sarà, o che anche non essendo infinito sarà piacere; e questa credenza (naturalissima, essenziale ai viventi e voluta dalla natura) è quello che si chiama piacere, e tutto il piacere possibile. Quindi il piacer possibile non e altro che futuro o relativo al futuro, e non consiste che nel futuro (20 gennaio 1821)”.

Come logica e netta conclusione di una teoria (quale questa del piacere), il cui significato profondo è nella sua natura di negazione; essa stessa mette in luce alla fine unicamente la negazione che in lei è implicita, e distrugge completamente e formalmente se stessa (V. ancora p. 4126-3).

Come la teoria dell’illusione, nel suo aspetto estremo, è teoria dell’illusorio meramente piacevole di cui l’uomo, per vivere, deve riempiere la vita; così la teoria del piacere sempre più diviene teoria del non piacere, e più ancora tutta un’indagine attenta del continuo inebriamento, dell’inganno fatuo che l’uomo deve quasi, egli, creare a se stesso, e fingendoselo al tutto vivo e vero, per poter vivere di giorno in giorno, di momento in momento. L’uomo deve concorrere al proprio inganno, e vivere di motivi fittizi, poiché egli in se stesso non ha né una superior ragione d’essere, né d’altra parte ha “motivi e soggetti di piacere reali”:

(dal Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare)

“Genio. – Non vi accorgete voi che nel tempo stesso di qualunque vostro diletto, ancorchè desiderato infinitamente, e procacciato con fatica e molestia indicibili; non potendovi contentare il godere che fate in ciascuno di quei momenti, state sempre aspettando un goder maggiore e più vero, nel quale consista in somma quel tal piacere; e andate quasi riportandovi di continuo agli istanti futuri di quel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzi al giungere dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi lascia altro bene che la speranza cieca di goder meglio o più veramente in altra occasione, e il conforto di fingere e di narrare a voi medesimi di aver goduto, con raccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, ma per aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voi stessi. Però chiunque consente di vivere, nol fa in sostanza ad altro effetto nè con altra utilità che di sognare; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; cose ambedue false e fantastiche.

Tasso. – Non possono gli uomini credere mai di godere presentemente?

Genio. –  Sempre che credessero cotesto godrebbero in fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, ti ricordi di aver detto con piena sincerità ed opinione: io godo. Ben tutto il giorno dicesti e dici sinceramente: io godrò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho goduto. Di modo che il piacere è sempre o passato o futuro, e non mai presente.

Tasso. – Che è quanto dire è sempre nulla.

Genio. – Così pare.

Tasso. – Anche nei sogni.

Genio. – Propriamente parlando.

da La filosofia di Leopardi, Giovanni Amelotti, Arti Grafiche R.Fabris – Genova, 1937

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Due poesie

Mare scrigno d’oro
Che occultamente sveli
La trama dei tuoi inganni,
Libera queste voci lasciale
Che gli annegati cantano
E avvinti alla ruota si muovono
Eternamente come noi
Bambini.

Uccelli, vastità del mondo
Che dorme sotto le campane ferme;
Nella pianura bianca il sole è freddo
E mai c’è nulla da spiegare.
Gli animali sono tristi,
E le donne, e le cose sospinte tutte
E divorate.

da Due poesie, in “Prato pagano. Giornale di nuova letteratura”, n.1, primavera 1985, Roberto Varese

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L’uomo ha bisogno di illusioni; di fronte alla negazione, se vuol essere in qualche modo vivo, deve illudersi. Il dilemma estremo è questo: o illusioni o senso del nulla e della vanità di ogni cosa; o riconoscere un valore qualsiasi alla cosa, o sentirne tutto il peso delle putri e lente ore.

da La filosofia del Leopardi, Giovanni Amelotti, Arti Grafiche R. Fabris – Genova 1937

così ogni cosa è nostra solo perché ne abbiamo bisogno

Rico: Dunque è tuo ciò che t’è caro e t’è caro ciò che potrà in futuro soddisfare un tuo bisogno.

Nino: Precisamente.

Rico: Tuo è ciò di cui non puoi fare a meno. Ma se tu non ne puoi fare a meno, non tu le hai in tua potestà, ma esse hanno te, e tu dipendi da loro che non puoi sussister senza di loro. – E le persone care non forse allo stesso modo ti sono necessarie e tu sei necessario a loro, ma il vostro amore non c’è chi lo possa saziare – né baci, né amplessi, né quante altre dimostrazioni l’amore inventi vi possono compenetrare più l’uno dell’altro? Ma sempre vi tiene un eguale bisogno vicendevole.-
Così ogni cosa è nostra solo perché ne abbiamo bisogno, solo perché ne usiamo – e mai abbiamo usato così delle cose della vita da non desiderare alcuna cosa, ma d’aver la nostra vita in noi. – Perché non possediamo mai la nostra vita, l’aspettiamo dal futuro, la cerchiamo dalle cose che ci sono care perché “contengono per noi il futuro”, per essere anche in futuro vuoti in ogni presente e volgerci ancora avidamente alle cose care per soddisfar la fame insaziabile e mancare sempre di tutto. -Finché la morte togliendoci da questo gioco crudele, non so cosa ci tolga – se nulla abbiamo. – Per noi la morte è come un ladro che spogli un uomo ignudo.-

da Il dialogo della salute e altri scritti sul senso dell’esistenza, Carlo Michelstaedter, Mimesis

Leopardi e i suoi fratelli persuasi

Maurits Cornelis Escher

La coscienza della infelicità, sia poi superata o meno, nasce dal bisogno di una vita più profonda, che la comune non sia; dal bisogno di chiedere alla vita altro, di nobilitarla e elevarla dall’intimo stesso di sé.

(…)

La singolarità particolarissima dell’opera del Leopardi deriva dal fatto, che egli, forse primo nella storia del pensiero (per quanto si sappia di persone come il “persuasor di morire” Egesia, filosofo cirenaico), si ferma all’infelicità e la fa risaltare in un rilievo aspro e forte. In lui non è possibile trovare il “nutrimento”, che danno tanti pensatori cattolici, che cercano di rinnovare tutta la vita al di là dell’ammissione dell’infelicità. In lui è la “verità” nella sua nudità estrema, e la rappresentazione del mondo, qual è in rapporto all’esistenza di una tale verità. L’uomo può trovare, nella sua opera, espressa solo l’essenza del proprio problema, e il mondo, come il mondo è in rapporto a esso.

(…)

Questa estrema nudità, una disperazione tale che resta legata e inchiodata al motivo da cui nasce, né si svaga, né si volge ad altro, né si lascia superare da alcuna speranza, ma è tutta volta a precisarsi, è il duro nocciolo, la petrigna essenza delle Operette.

Dall’assurdo contrasto e contrappunto che, correndo tra la chiarezza estrema della coscienza e della visione e la strana realtà delle cose, mette a nudo infelicità e imperfezione, si sprigiona naturalmente una stupita e profonda ironia. Nel suo complesso, e in ogni suo quadro la rappresentazione, nel suo fondo melanconica e sconsolata, ha non solo un tono ironico: ma in lei prende consistenza vera e propria l’ironia, che è nell’esistenza di un essere quale l’uomo nell’universo, e nell’esistenza stessa di un tale universo in cui è possibile un tale uomo. L’espressione dolorosa deve essere nel suo intimo stesso ironia. L’ironia è delle cose verso l’uomo; e l’uomo, nel rilevarla, nel far lei discorso e dialogo anche suoi, trova il fluido in cui spietrare la chiusa amarezza. L’ironia è il centro stesso della finzione tutta delle Operette; dominata pure come il Leopardi la rende dalla chiarezza calma della mente che ragiona. Egli anzi unisce in una fusione mai prima veduta (e perciò forse difficile a cogliere ed anche più a definire), un acume sottile d’intendimento  e di penetrazione, e una forza piena e sicura di icastica rappresentazione.

da Il Leopardi maggiore (Opera postuma), di Giovanni Amelotti, Emiliano degli Orfini – Genova, 1939

A una specialmente…

A una specialmente voleva bene perché era tutta bianca, e la prendeva in braccio e la stringeva e la accarezzava; un giorno la trovò tutta sporca. “Povera gallina” disse “chi t’ha conciata in questo modo…, vieni dal tuo papà…che ti farà più bianca,…più bianca di prima…sarai contenta?- poi ti darò dolci- poi ti porterò a letto…”. E andava lavandola e fregandola e tanto facendo e con tanta foga che la gallina per troppa contentezza – crepò.
“Bravo Paolino!” gli disse la mamma “non lo sai che non bisogna tormentare le bestie?”.
E Paolino tutto in lagrime: “io…io non volevo tormentarla…io volevo far piacere alla gallina perché era tutta sporca”.
“Tu non puoi sapere quello che fa piacere alla gallina” sentenziò la mamma; “vedi, invece di farle piacere la hai ammazzata – bisogna studiare – e quando sarai un uomo saprai anche questo”.

da Paolino – La melodia del giovane divino, Carlo Michelstaedter, Adelphi

all’amica lontana

Bastianelli eseguiva l’Eroica di Beethoven e dopo la Marcia funebre stava attaccando con lo Scherzo e già si sentiva palpitare nelle dita la vivacità di quelle note quando Michaelstaedter, spalleggiato da Arangio, saltò su gridando che la sinfonia finiva lì ed era inutile procedere oltre. Inde irae.

“Carissimi Micaelstätter e Arangio,
ho riflettuto a lungo in questo inchiodamento a letto, a quello che avvenne sabato scorso. Non è possibile che mi trattenga dal dirvi alcune cose in proposito che, vi dispiacciano o non vi dispiacciano, peserebbero tanto sulla mia coscienza, se non ve le dicessi, da farmi le mani di piombo quando fossi ancora con voi al pianoforte.

Come fare a celarvi che, non so per quale curioso ed irritante groppo di fatalità, voi siete stati davanti a uno dei più puri capolavori umani, non reagendo dovutamente, non comprendendolo, anzi con una certa leggerezza, generalizzando la comprensione che di lui avevate parziale, per condannarne il vero significato totale?

Dell’Eroica non v’è piaciuto che il 2° tempo e non avete compreso il tema generante il 1° tempo e l’ultimo generante, con uno svolgimento a rovescio del 1°, l’ultimo tema.

Io constatai, in quel momento che suonavo e più dopo, quando come per darmi la riprova che in voi non s’era fatto tutto quel silenzio religioso e quello stupore che segue le vere rivoluzioni, voi vi poneste a parlare di Croce e Spinoza; che nessuna cosa al mondo vi avrebbe fatto varcare la muraglia che ponevate ostilmente tra lo sforzo che io facevo per farvi comprendere, e la vostra diffidenza. Disse bene Aragio: poche persone sono così fredde come voi.

In altre parole sento che anche se tentassi per iscritto di farvi comprendere il valore unico di quel 1° tema e la dipendenza del 2° dal 1° e la giustizia di quella marcia e di quello scherzo nella intera sinfonia; io non esercito in voi quella confidenza e non inspiro in voi quella fede di cui c’è bisogno per rivelarsi reciprocamente qualunque idea.

E ho tale pratica delle cose d’amicizia (e specialmente della vostra) che so ancora che se tentassi, rifacendovi la Terza sinfonia, di farvene comprendere il significato altissimo e vi ripeto unico, voi vi irrigidireste in modo da rendere tutti i miei tentativi inutili se non ridicoli.
E men ti piaccio se più m’affatico. Le cose devono venire da sé. Vuol dire che io non ero quello destinato a farvi capire Beethoven.

E so ancora che non potrei più seguitare a leggervi Beethoven perché come in una dimostrazione se manca la comprensione d’una sua proposizione , tutta la dimostrazione cade, così nella rivelazione dell’arte d’un genio, se resta oscura una sola parola importante (e qui si tratta niente meno dell’Eroica, una delle pietre miliari non solo per capir Beethoven ma tutta la modernità) resta tutto oscuro o avvolto in una penombra penosa.

E non è una di quelle malignità del caso, che mi feriscono così tragicamente e così spesso, che proprio la sinfonia, che insieme alla Nona e la Messa, desideravo di più godere insieme con voi, mi abbia lasciato il disgusto amaro del fiasco, non che tante altre constatazioni dolorosissime per me e per voi.

Tutti noi non comprendiamo che ciò che abbiamo avuto. Voi ponevate nell’interpretazione di Beethoven una esperienza, perdonatemi, inadeguata a lui. Io ho provato per una buona metà di Beethoven l’impressione che vi mancassero gli elementi per sentirla. Nell’Eroica vi manca l’eroismo di non contentarvi del Dolore. E come fare allora a capire, che se Beethoven nell’Eroica scopre l’eroismo, l’immenso eroismo dei romantici, egli nella Nona supera ancora l’Eroismo e arriva a una contemplazione così universale delle cose umane che, a mio parere, nessuna filosofia moderna ha saputo ritrarre e svolgere?

E per farvi arrabbiare anche di più, che cos’è la Ginestra e tutto Leopardi davanti a questo gigantesco e impassibile Beethoven? Non mi ricordo più dove ho letto che un dio costretto a raccontare la sua vita la direbbe tutta -in due parole. Ebbene Beethoven l’ha fatto e le due parole sono l’Eroica e la Nona. Maledicetemi, ridete di me; ma è così e mi farei ammazzare piuttosto che dire in un altro modo.

vostro Giannotto Bastianelli”
da  A ferri corti con la vita. Biografia di Carlo Michaelstaedter, Sergio Campailla, Comune di Gorizia, 1981

Una giornata perfetta

“Nella nebbia indifferente delle cose il dio fa brillare la cosa che all’organismo è utile: e l’organismo vi contende come in quella avesse a saziar tutta la sua fame, come quella gli dovesse dar tutta la vita: l’ASSOLUTA PERSUASIONE; ma il dio sapiente spegne la luce quando l’abuso toglierebbe l’uso; e l’animale sazio solo in riguardo a quella cosa si volge dove gli appaia un’altra luce che il dio benevole gli accende; ed a questi contende con tutta la sua speranza; finché ancora la luce si spenga per riaccendersi in un altro punto”(…) “e in quella luce BRILLA TUTTO IL FUTURO DELL’ANIMALE: nell’inseguire un altro animale, la possibilità del mangiare, del dormire, del bere, del giacere; nel mangiare, la possibilità di correre, del riposare, etc etc. Per tal modo adulando l’animale ogni volta con argomenti della sua stessa vita, il saggio dio lo conduce attraverso l’oscurità delle cose con la sua scia luminosa perch’egli possa CONTINUARE e NON ESSERE PERSUASO MAI,-finché un inciampo non faccia cessare il triste gioco. Questo dio benevolo e prudente è il dio della FILOPSICHIA (amore alla vita, viltà) e la LUCE è il PIACERE”

da La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter, Adelphi

Il primo pensiero a dio

“I bambini-quasi vite in provvisorio-hanno molto meno definita la trama, molto più varia e disordinata, qui densa e luminosa, lì sottile e oscuro-trasparente. Essi hanno gioie vive che gli uomini non conoscono più, e molto più spesso che gli uomini sono in balìa di questi terrori. Nelle tregue delle loro imprese, dei loro piani, quando sono soli, e da nessuna cosa di ciò che li attornia sono attratti o a frugare, o a rubare, o a rompere, o a discorrere o a tutte quelle altre occupazioni, si troveranno con la piccola mente a guardare l’oscurità. Le cose si sformano in aspetti strani: occhi che guardano, orecchi che sentono, braccia che si tendono, un ghigno sarcastico e una minaccia in tutte le cose. Si sentono sorvegliati da essere terribilmente potenti, e che vogliono il loro male. Non fanno più un gesto senza riflettere ad “Essi”. Se lo fanno con una mano; lo devono far anche con l’altra. “Oppure non lo devo fare?” “Essi” vogliono ch’io  lo faccia-ma io non lo farò- ma non lo faccio allora solo perché penso a “Loro”- allora lo faccio….”. Quando passano una camera oscura, sembra ai bambini che questi “Essi” gridino mille voci, che con mille mani li abbranchino, che in mille guizzi ghigni il sarcasmo nell’oscurità, si sentono succhiati dall’oscurità; fuggono folli di terrore e gridano per stordirsi”

Carlo Michelstaedter da La persuasione e la rettorica, Adelphi

persuasione

persuaso è chi ha in sé la sua vita

Gorgia

 

chi non ha la persuasione non può comunicarla

S.Luca

 

ma l’uomo vuole dalle altre cose nel tempo futuro quello che in sé gli manca: il possesso di se stesso: ma quanto vuole e tanto occupato dal futuro sfugge a se stesso in ogni presente. Così si muove a differenza delle cose diverse da lui, diverso egli stesso da se stesso: continuando nel tempo.
Ciò ch’ei vuole è dato in lui, e volendo la vita s’allontana da se stesso: egli non sa ciò che vuole.
Il suo fine non è il suo fine, egli non sa ciò che fa perché lo faccia: il suo agire è un esser passivo: poiché egli non ha se stesso: finché vive in lui irriducibile, oscura la fame della vita.

Carlo Michelastaedter

il buco e i puntini

“Cos’è allora nascere, se non una sorta di fine del mondo, una cacciata dall’Eden, e vissuta da un essere già in qualche modo cosciente? Certamente un momento traumatico, quel tunnel da traversare per uscire dal buio. Ma è un male per un bene più grande.” (Dr. Carlo V. Bellieni, neonatologo dell’Ospedale Le scotte di Siena)

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L’incubo ricorrente di quando ero bambina: puntini luminosi che mi vengono incontro velocemente e la sensazione è quella di caduta irreparabile, terrificante.

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“Ogni sensazione si fa infinita; sembra loro che davanti ai loro occhi dei puntini si allontanino infinitamente, che cose piccole diventino infinitamente grandi e che l’infinito li beva; cercano angosciati una tavola di salvezza, un punto saldo, tutto si scompone, tutto cede, fugge, s’allontana”

da La persuasione e la rettorica, Carlo Michelstaedter, Adelphi

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Le Voci:
La porta
BIANCA!

Edipo:
Il SUO colore! l’UNO, il punto del fuoco! il cerchio raggiante!
Io sono il taglio del diamante sotterrato, al quale corrono come /frecce tutte le stelle (…)

da La serata a Colono ne Il mondo salvato dai ragazzini, Elsa Morante, Einaudi

Davanti ai tuoi occhi (…), una miriade di puntini bianchi si organizzano disegnando, a lungo andare, qualcosa di felino, una testa di pantera vista di profilo, che viene avanti, cresce, mettendo in mostra due zanne acute, poi sparisce lasciando il posto ad un puntino luminoso che si allarga, diventa rombo, stella e ti balza addosso, evitandoti all’ultimo momento e passando alla tua destra. (…) Poi nulla, per molto tempo, oppure più tardi, talvolta, da qualche parte, qualcosa come un astro bianco che esplode.

da Un uomo che dorme, Georges Perec, Quodlibet

hello to the new, most important person in you life

“Che cosa ricordano i bambini di quando erano nella pancia della mamma? “Dentro il pancione c’erano i pesciolini e io giocavo con loro. Da lì le nuvole erano arancioni.”. O ancora, dice Ryunsei di 2 anni e 7 mesi: “Dalla pancia della mamma vedevo fuori. C’erano alberi, case, luci. Era come una tenda e io giocavo. Dentro c’erano anche i pesciolini e giocavo con loro.” Mentre Shinnosuke di 1 anno e 8 mesi dice: “Buio nel pancione, caldo, ciac ciac, tap tap. Tanta luce brucia gli occhi.”
Colori, musica, voci e luce. In queste pagine i bambini dagli uno ai sei anni raccontano i lunghi mesi trascorsi nella pancia della mamma e lo straordinario momento della nascita. Le loro parole, raccolte da un medico che studia le memoria prenatale, hanno tutta la poesia e il candore che solo il linguaggio dei piccoli può trasmettere.
Questo libro nasce da uno studio condotto sui bambini da 1 anno a 6 anni ed il risultato è stato stupefacente: il 41 % dei bambini interpellato ha detto di ricordare la propria nascita e il 53 % momenti della vita nell’utero materno.
“Di questi ricordi – scrive Akira Ikegawa – si conosce l’esistenza da almeno un secolo, ma i primi studi scientifici risalgono agli anni Sessanta da cui si evince chiaramente che il futuro bambino sviluppa consapevolezza di sé già nell’utero.
Gran parte dei ricordi dei bambini ha a che fare con i colori, la luminosità e la temperatura nell’utero e con i movimenti del liquido amniotico. Inoltre, risulta spesso che i bambini venuti al mondo con un parto complicato tendono a parlare più diffusamente della loro nascita rispetto a quelli che sono nati senza difficoltà.”

da Quando ero nella pancia della mamma, Akira Ikegawa , Cairo Editore

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Febbraio 1965, un pomeriggio avanzato

Sono stanco, sfinito e abbattuto. Quindici anni di studio e di ricerca sulla “saggezza, pazzia e follia”, non mi hanno reso affatto più saggio, così pare. Vanità delle vanità.  Mi metto sdraiato sul pavimento del mio studio al 21 di Wimpole Street, disteso sulla schiena nell’ asana di “morte”.

Chiudo gli occhi. Mi lascio andare e in quel mentre chiedo, con tutto il mio cuore, se esiste un potere di guarigione, di darmi qualche indicazione della sua natura.

Mi trovo in una piacevole casa di campagna inglese. Un’ampia stanza con porta-finestra; è un delizioso pomeriggio d’estate avanzata. Un uomo più anziano, forse sulla sessantina, entra nella stanza. Rassomiglia abbastanza a uno di quegli studiosi inglesi che forse un tempo era colonnello o qualcosa di simile.

Non ci eravamo mai incontrati prima, ma non sembra un estraneo. Propone che si vada a fare una passeggiata insieme.

Mentre camminiamo, mi rendo conto del sole. Sembra farsi più vicino: più largo, più caldo. Diventa un’infocata fornace che tutto avvolge. Finché non ne sono del tutto assorbito, ridotto a un tizzone.

Ho fatto di nuovo ritorno a quel punto. Bindu? Mi rendo conto di poterlo oltrepassare. Se lo facessi, potrebbe significare la morte fisica. Mi trovo tra la vita e la morte.

Mi trovo steso sull’impiantito del mio studio. Non posso muovermi. Non posso sollevare le palpebre. Non posso muovere gli occhi. Non posso sollevare un dito. Il respiro, avviene. Posso sentire il pulsare del cuore e del sangue.

Ora voglio muovermi. Mi scruto attorno al corpo per vedere se mi riesce di muovere qualcosa. A un tratto mi si contrae un muscolo della guancia destra. Sono un “solco”, un canale di debolissima energia che scorre lungo il lato destro del viso. Mi riesce di farlo appena vibrare; poi la bocca, poi la lingua, poi il pollice destro, poi posso aprire gli occhi e adesso posso rigirarmi sul pavimento. Ne sono fuori. Ritornato.

Sono ritornato.                                                            Tempo: trenta minuti circa

Ricordo quel singolo tizzone, quel segno, quel puntino.

All’età di tre anni udii mio padre dire a mia madre: “Questa volta gliene do da lasciargli un fil di vita”.

Sapevo che cosa mi aspettava.

Me le diede. Nel farlo, cominciò “letteralmente” a farmi a pezzi.

Sapevo che non c’era più nulla da fare.

Mi contrassi in un unico punto.

Là nessuno poteva prendermi.

Sull’altro lato di quel punto c’era…da dove ero venuto?

Dopo un po’, mi avventurai fuori di nuovo. La via era libera. Il danno non era irreparabile.

dall’Autodescrizione di R.D.Laing ne I fatti della vita. Sogni, fantasie, riflessioni sulla nascita, Einaudi, 1978

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All’età di due o tre anni, imparando ad addormentarmi senza la presenza dei miei genitori, sbagliavo strada e tornavo indietro fino farmi puntino tra i puntini, poi riemergevo terrorizzata chiamando mia madre, la quale mi rimproverava il non senso dell’incubo che raccontavo, la paura dei puntini verso i quali mi muovevo velocemente.