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polizia

Prehistoric bird, Fred Becker, 1941

 

L’aspetto ignominioso di questa autorità – che è avvertito da pochi solo perché le sue attribuzioni bastano di rado agli interventi più massicci, ma possono operare tanto più ciecamente nei settori più indifesi e contro le persone accorte da cui le leggi non proteggono lo Stato-, consiste in ciò che, in essa, è soppressa la divisione fra violenza che pone e violenza che conserva la legge. Se si esige dalla prima che mostri i suoi titoli nella vittoria, la seconda è soggetta alla limitazione di non doversi porre nuovi fini. La polizia è emancipata da entrambe le condizioni. Essa è potere che pone -poiché la funzione specifica di quest’ultimo non è che di promulgare le leggi, ma qualunque decreto emanato con forza di legge-, ed è potere che conserva il diritto, poiché si pone a disposizione di quegli scopi. L’affermazione che gli scopi del potere di polizia siano sempre identici o anche solo connessi a quelli del rimanente diritto, è profondamente falsa. Anzi, il diritto della polizia segna proprio il punto in cui lo Stato, vuoi per impotenza, vuoi per le connessioni immanenti di ogni ordinamento giuridico, non è più in grado di garantirsi -con l’ordinamento giuridico- gli scopi empirici che intende raggiungere ad ogni costo. perciò la polizia interviene, “per ragioni di sicurezza”, in casi innumerevoli in cui non sussiste una chiara situazione giuridica, quando non accompagna il cittadino, come una vessazione brutale, senza alcun rapporto con fini giuridici, attraverso una vita regolata da ordinanze, o addirittura non lo sorveglia.

(…)

E benché la polizia, nei particolari, si somigli dovunque, non si può tuttavia fare a meno di riconoscere che il suo spirito è meno distruttivo dove essa incarna (nella monarchia assoluta) il potere del sovrano, in cui si congiunge la pienezza del potere legislativo ed esecutivo, che nelle democrazie, dove la sua presenza, non sollevata da un rapporto del genere, testimonia della massima degenerazione possibile della violenza.

da Per la critica della violenza, in Angelus novus, Walter Benjamin, Einaudi, trad.di Renato Solmi

il significatore

collage di Hannelore Baron

 

“Vedete, ‘nella vita’ io facevo il filologo. Avete idea di cosa significa? Significa incontrare un testo grasso, flaccido, pieno di macchie e di impurità, e dirgli: testo, io ti riporterò alla tua verità. Mi seguite?”

“Sì”.

“Allora dovete scegliere gli strumenti più affilati. Le lame della paleografia, la grattugia della recensio, lo squartamento della tradizione nelle nudità dello stemma, l’amputativo tronchese della variantistica: e poi sezionare, eviscerare, potare: e poi prendere dei secchi, delle casse, scavare delle fosse, e metterci dentro tutto quel crassume escerpato, tutta quella schifosa corruzione, ah! Sto male soltanto a pensarci! Insomma, quando avete pulito e asciugato dappertutto siete voi due soli, voi e il testo, perfetto nella sua semplicità originaria, nudo, scheletrico, puro! Avete capito?”

“Sì”.

“No, non potete. Non avete mai fatto un’edizione critica”.

Ancora quel rantolo, ora più gorgogliante. Quando riprese a parlare mi parve più vecchio di quanto avessi immaginato fino a quel momento.

“Anche se non tutto quello che ho detto vi è chiaro, so cosa state pensando: che per mera inerzia analogica io sia passato dai testi agli umani, tentando l’intreccio dei visceri dopo aver saggiato quello delle parole e delle forme”.

“No, no, io non penso niente…”

“Male! Mi avete chiesto perché uccido? In un certo senso è per avere degli interlocutori. Voi entrate in casa mia dopo avermi rotto la finestra, frugate nelle mie tenebre con la vostra torcia indiscreta, e non volete essere mio interlocutore? Mmmmh…penso che non sappiate nemmeno cos’è l’ermeneutica, per cui ve la dirò io. È la scienza dell’interpretare, sommamente decisiva al filologo e al critico. Ora immaginatevi questo: un uomo che per tutta la sua vita sveste e riveste i testi di interpretazioni, che li ruota fra le mani come prismi per trarne sempremai nuove luci, che inventa nuove rubriche ove ascriverli, un uomo che li palpa, i testi, e palpandoli li sente gonfi di tutte le interpretazioni che prima di lui altri uomini han dato loro, interpretazioni cui la sua, sopraggiungendo postrema, conferirà nuovi accenti…I capolavori! Ma siamo noi che li abbiamo fatti diventare tali, leggendoli e rileggendoli, e caricandoli di senso fino a saturarli di storia e di energia, ecco, quando ho capito questa cosa io, il significatore, ho cominciato a chiedermi: e a me chi lo conferisce il senso? Chi mi interpreta?(…)”.

 

Da La serietà della serie in Euridice aveva un cane, Michele Mari, Einaudi

il viaggio

 

Nulla mi avrebbe impedito di prendere in affitto una camera in una delle strade tortuose sulle colline di Beyoglu, in riva al mare, e di starmene seduta alla finestra , un piano sopra il cupo suono dei vicoli guardando in basso, giorno dopo giorno, imperturbabile, fino a sera.

(…)

Non avevo una meta precisa, né intendevo un giorno fermarmi, trovar pace, pensare di essere giunta in un paradiso terrestre, perciò tutto questo mi diceva poco. Nel momento stesso in cui ci avvicinavamo a un orizzonte a lungo contemplato, scomparivano il campanile e i campi di grano, si spegnevano le bandiere, le campane tacevano, le donne portavano fazzoletti e gonne ondeggianti di foggia diversa; invece di vitelli bianchi, intenti a pascolare, vedevo bufali indolenti, lucidi come l’olio, distesi nel fango caldo sotto un ponte. Finite le ampie catene di colline e i campi estivi, una strada stretta scendeva lungo il versante di una romantica valle avvolta di ombre gialle, marroni e viola e si inoltrava nel cuore di montagne senza nome.

A cosa mai mi sarebbe servito conoscerne il nome! Una volta in viaggio si dimentica il desiderio di sapere, non si conosce più l’addio né il rimpianto, non ci si chiede più da dove né verso dove si va. Al massimo sono le lancette dell’orologio a dirti che è passata qualche ora e che si è andati ancora più verso est. Con il passare dei giorni diventa sempre più impossibile ritornare e, in fondo, non lo si vuole nemmeno. Strapparsi gli abiti, ammettere che si è andati troppo lontano, che in queste regioni straniere si è come un mendicante, un bambino senza culla, un prete senza chiesa, un cantante senza voce – ammettere che si cerca la sicurezza e si teme di vivere inutilmente? Che si vorrebbe riparare qualcosa, recuperare quanto si è perso?

Non sappiamo di cosa viviamo, come possiamo allora perdere qualcosa e rimpiangerlo? Era già tardi la sera in cui, arrivando a Istanbul, passai, esausta, sotto l’antichissimo arco della porta cittadina: il selciato risuonava, le piccole lampade a olio illuminavano il vicolo del bazar e arrivai infine alle acque scintillanti del Bosforo, che fluivano in silenzio incessante. Allora avrei potuto forse trarre un sospiro di sollievo e credere per un istante di aver raggiunto una meta, di aver ampiamente meritato questo incontro dai mille accenti. Ma poi sarei stata subito assalita da dubbi terribili e mi sarei chiesta se questa era davvero la meta giusta, l’ultima; avrei visto in sogno le cattedrali di altre città e al risveglio ne avrei cercato i nomi altisonanti sui cartelli stradali e sulle cartine geografiche. Il viaggio non richiede alcuna decisione e non mette la nostra coscienza di fronte a scelte che ci rendono colpevoli e pentiti, umili e ostinati fino a farci dubitare di ogni giustizia, pensando che questa nostra vita sia solo un labirinto, una prova fatale. La partenza è liberazione – oh, unica libertà che ci è rimasta!- e richiede solo un coraggio indomito, che ogni giorno si rinnova…

 

Da Therapia-La via per Kabul 1939-1940, Annemarie Schwarzenbach, Il Saggiatore (regalo di Rocco & Vincenzo della Libreria Simon Tanner di Roma)

gli amici di julian barbour

 

Il rifiuto della “geometria piana”, di cui Proust parla, è anche rifiuto del moto uniforme. Questo nemico del tempo degli orologi, per unità successive, con moto discontinuo. L’effetto di continuo è ottenuto mediante scatti tendenzialmente isocroni, ognuno dei quali è il periodo. Un periodo mai diretto e paratattico ma avvolto su se stesso, elicoidale.

 

(…)

 

È come se guardassimo entro un grande orologio: la tensione della molla maggiore ingrana successive ruote dentate, ognuna con una frazione di ritardo sull’altra; e, quando potresti credere che non ce la faccia più, ecco lo spostamento della lancetta è avvenuto tutt’a un tratto e tutto è avanzato di una unità. Subentra allora un attimo di silenzio, prima che ricominci l’ostinato sforzo di sommuovere ancora una volta un congegno denso di parole. La tensione, o energia, di ogni singolo periodo è, come si è detto, di natura raziocinante; obbedisce ad una meccanica classica, aborre dall’imprecisione non dal vuoto, ogni incertezza rinserra nel suo decorso e ribatte nelle sue clausole. Ma dove invece Proust svela di essere davvero al di là di ogni meccanica classica è nella qualità fluida instabile della forza di coesione che lega periodo a periodo. Questi non si compenetrano: si giustappongono.

 

(…)

 

La vittoria sul tempo non è ottenuta solo col recupero di quello “perduto” o col bronzo dell’opera ma proprio, per antifrasi, svolgendo permutazioni che nel tempo si distruggono a vicenda, che celebrano tremende ma infine futili vittorie ed evocano per converso una identità raccolta e intera, un presente istantaneo ed eterno.

da Verifica dei poteri, Franco Fortini, Garzanti

Lo Scorrevole, Vettor Pisani