Un antichissimo topo diffonde il morbo tra noi
oscuro e involuto il pensiero va divorando
ciò che abbiamo cucinato, corre
da un uomo all’altro. Per questo
l’ubriaco non sa, quando annega
l’umor nero nel vino, di tracannare
il brodo vuoto dei
diseredati che raccapricciano.
E poiché la ragione non spreme dalle nazioni
più freschi diritti, allora
nuova infamia va aizzando le razze
l’una contro l’altra. L’oppressione
gracchia in schiera, sui cuori vivi
piomba come su carogne –
sul globo cola miseria come saliva
sul mento degli idioti. Le estati
infilate allo spillo lasciano pendere
le ali della miseria. Nell’animo nostro
le macchine penetrano
come gli insetti in chi dorme.
Nel più profondo di noi si nascose la riconoscenza,
la fedeltà; la lacrima scorre, di fiamma —
desiderio di vendetta e coscienza
gli uni contro gli altri sospingono.
Urla invano il poeta, sciacallo
che alle stelle vomita grida,
al nostro cielo, dove
risplendono i tormenti…
O stelle! Arrugginiti, volgari
pugnali di ferro, quante volte nell’animo
mi siete penetrate –
(qui solo il morire riesce).
Eppure ho fiducia. Piangendo ti chiamo,
nostro avvenire, non essere lento!…Ho fiducia:
oggi ormai non si impala più l’uomo
come al tempo dei nostri antenati. Ecco, infine
ci dimenticheranno sotto la quieta
ombra dei pergolati.
da Gridiamo a Dio, Attila Jozsef, Guanda, a cura di Sandro Badiali e Gilberto Finzi