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l’errante

A Compiègne, anche la donna non ha per poco ricevuto il calcio del fucile in pieno viso. Neppure lei aveva lasciato il suo sguardo diventare opaco, come acqua morta. Si è messa a camminare accanto a loro, sul marciapiede, al passo con loro, come se volesse prendere su di sé una parte, la parte più grande possibile, del peso della loro marcia. Aveva un’andatura altera, malgrado le scarpe con la suola di legno. A un certo momento, ha gridato qualcosa verso uno di loro, ma Gérard non ha potuto sentire. Qualche cosa di breve, forse addirittura una sola parola, quelli che si trovavano alla sua altezza si sono voltati verso di lei e le hanno fatto un cenno con la testa. Ma quel grido, quell’incoraggiamento, o quella parola, qualunque essa fosse, per spezzare il silenzio, per rompere la solitudine, la sua stessa solitudine, e quella degli altri uomini, incatenati a due a due, stretti gli uni agli altri, ma solitari, perché nell’impossibilità di esprimere quel che di comune c’era tra loro, quel grido ha attirato l’attenzione di un soldato tedesco che camminava sul marciapiede, qualche passo davanti a lei. Si è voltato e ha visto la donna. La donna camminava verso di lui, col suo passo deciso, e certamente non distoglieva gli occhi. Camminava verso il soldato tedesco, a testa alta, e il soldato tedesco le ha urlato qualche cosa, un ordine o un’ingiuria, una minaccia, con un viso sconvolto dal panico. Quell’espressione di paura ha sorpreso Gérard, a tutta prima, ma in realtà essa era ben chiara. Qualsiasi avvenimento che non combaci con la visione semplicistica delle cose che si fanno i soldati tedeschi, qualsiasi gesto imprevedibile di ribellione o di fermezza, deve infatti terrorizzarli. Perché evoca istantaneamente la profondità di un universo ostile, che li circonda, anche se la superficie di esso vive una calma relativa, anche se in superficie i rapporti delle truppe di occupazione con il mondo circostante si svolgono senza urti troppo visibili. A un tratto, quella donna che cammina verso di lui, a testa alta, lungo la colonna di prigionieri, evoca al soldato tedesco mille realtà di spari nella notte, di imboscate fatali, di partigiani spuntati dall’ombra. Il soldato tedesco urla di terrore, malgrado il dolce sole invernale, malgrado i compagni d’arme che camminano avanti e dietro di lui, malgrado la sua superiorità su quella donna disarmata, su quegli uomini incatenati, urla e alza il calcio del fucile al viso della donna. Restano qualche secondo faccia a faccia, lui che continua a urlare, e poi il soldato tedesco se ne va in fretta per riprendere il suo posto lungo la colonna, non senza gettare un ultimo sguardo di timore carico d’odio verso la donna immobile.

da Il grande viaggio, Jorge Semprun, Einaudi, trad.di Gioia Zannino Angiolillo

 

Tutti i treni passano tra le mie mani fumigando
tutti i grandi porti cullano navi per me,
tutte le strade dei viandanti si riversano nelle campagne,
e qui esse prendono congedo; poiché all’altro capo,
lieta di portar loro il mio saluto, vi son io che sorrido.

Se solo potessi afferrare un lembo di questo mondo,
se solo trovassi anche gli altri tre, farei un nodo al fazzoletto,
lo appenderei a un bordone, lo poserei sulla mia spalla,
dentro il globo terrestre con le gote accese di rossore,
con i suoi chicchi marroni e il profumo di mela calvilla.

Grevi tralicci di ferro strepitando scagliano via il mio nome,
una casa ingobbita pedina spiando i miei passi;
immagini lontano smarrite tornano dentro le loro cornici,
la mia tazza di viaggiatrice attinge del cieco la brama
e dello zoppo i desideri, assetata bevo sino all’ultima goccia.

Come aratro immergo le nude braccia lottatrici in mari profondi,
tutto il cielo nel mio occhio luminoso faccio penetrare.
Presto o tardi verrà il momento di fermarmi in silenzio sulla lancetta del tempo,
di ordinare le misere provviste, d’incamminarmi esitante verso casa,
d’esser solo sabbia dentro le scarpe di chi dopo di me passerà.

da Metamorfosi e altre liriche, Gertrud Kolmar, Via del Vento Edizioni, trad.di Stefania Stefani

le sphinx

Le Sphinx, Franz von Stuck

 

All’ingresso, come a teatro, un lacché raccolse i nostri biglietti di invito e un altro, immediatamente, ci spinse verso un ascensore che, rapidissimo, ci portò al primo piano.

 

Le Sphinx, ingresso

 

Allora ci apparve uno spettacolo impressionante:una grande sala ellittica, il cui soffitto era una altissima cupola scintillante, sostenuta da colonne multicolori in magiche volute. Nel fondo, uno strano palco che si ergeva su sfingi bronzee e dal quale – attraverso scalini d marmo rosa- si scendeva fino a una larga piscina semicircolare, piena di acqua traslucida. Tre ordini di gallerie-in modo che l’asoetto complessivo della grande sala fosse di un opulento, fantastico teatro.

 

Le sphinx, Frank Horvat
 

 

The kiss of the Sphinx, Franz von Stuck

 

da La confessione di Lúcio, Mário de Sá-Carneiro, Sellerio

da Maisons closes parisiennes. Architectures immorales des années 1930, Paul Teyssier, Parigramme

tristano e isotta

L’opera di Wagner Tristano e Isotta è generalmente considerata il culmine del movimento romantico nella musica. La relatività generale è il non plus ultra della dinamica. Detto più esplicitamente, il modo in cui due 3-spazi sono incastrati nel suo nucleo dinamico ricorda due amanti che cerchino l’abbraccio più stretto possibile. Questo è il livello di perfezionamento nel lavoro sui principii che creano il tessuto dello spazio-tempo. è molto più semplice di un blocco quadridimensionale. Ovunque guardiamo, ci racconta la stessa grande storia, ma in innumerevoli varianti, tutte intrecciate in un arazzo di dimensione superiore. Questo è ciò che Einstein ha ricavato dal mazzo di carte magiche di Minkowski. Guardando lo spazio-tempo in un modo, vediamo Tristano e Isotta sospesi in cielo, come in un quadro di Chagall. Guardando in un altro modo, vediamo Romeo e Giulietta, e in un altro ancora Eloisa e Abelardo. Tutte queste coppie, ognuna delle quali perfetta in sé, risultano l’una dall’altra. Esse e le loro storie scorrono l’una attraverso l’altra. creano un tessuto reticolato dello spazio-tempo.
Il concetto di sostanza è portato al limite. Infatti il corpo dello spazio-tempo, il suo ingorssarsi nel tempo, è solo il modo che noi scegliamo di tenere distanti le cose in modo che la storia si sviluppi semplicemente. Almeno è nello spazio-tempo newtoniano. Tutta la dinamica -ciò che effetivamente succede- è disposta in orizzontale. Separiamo le carte in una direzione verticale che chiamiamo tempo per ottenere una rappresentazione semplice. Il tempo è semplificatore distinto. la sostanza è nelle carte. Queste sono le cose; il resto è nella nostra mente.
La relatività generale aggiunge un tocco sorprendente a questa teoria del tempo, apparentemente definitiva. Se considerati da soli, Tristano e Isotta sono sostanza, e la separazione tra di loro è solo la misura della loro differenza. Non possono unirsi del tutto semplicemente perché sono diversi. Questa differenza è ciò che chiamiamo tempo. Ma ciò che è la rappresentazione della differenza tra gli amanti di Wagner fa parte della sostanza stessa degli amanti di Shakespeare. Romeo e Giulietta non sarebbero ciò che sono se Tristano e Isotta non fossero tenuti separati dalla loro differenza. Il tempo che separa Tristano da Isotta è il corpo di Romeo. Questo intrecciarsi di essenza e differenza tutto in uno spazio-tempo è ancora più straordinario del diagramma di Minkowski con due aste, una più breve dell’altra.

da La fine del tempo. la rivoluzione fisica prossima ventura, Julian Barbour, Einaudi

ho sognato un nuovo maestro

Da ieri notte Michele Mari è diventato insegnante di ruolo in una scuola elementare romana. Ho orecchiato mentre il nuovo maestro iniziava i bambini alle meraviglie della geometria leggendo loro Flatlandia di Edwin Abbott: quando sono andata – con la nomina di Rappresentante di Classe e di Consiglio Interclasse per l’anno scolastico 2010/2011 in mano- a complimentarmi con il maestro Mari per la brillante scelta e per chiedergli conto della programmazione educativa e didattica dei discenti, ha annunciato che dopo le festività natalizie i fanciulli godranno di 5 incontri con Michel Serres. Mi sono offerta come merenda.

jeans jesus


nuovo dio al città di roma

 

17 maggio 1973. Analisi linguistica di uno slogan
 
Il linguaggio dell’azienda è un linguaggio per definizione puramente comunicativo: i “luoghi” dove si produce sono i luoghi dove la scienza viene “applicata”, sono cioè luoghi del pragmatismo puro. I tecnici parlano fra loro un gergo specialistico, sì, ma in funzione strettamente, rigidamente comunicativa. Il canone linguistico che vige dentro la fabbrica, poi, tende ad espandersi anche fuori: è chiaro che coloro che producono vogliono avere con coloro che consumano un rapporto d’affari assolutamente chiaro.
C’è un solo caso di espressività -ma di espressività aberrante- nel linguaggio puramente comunicativo dell’industria: è il caso dello slogan. Lo slogan infatti deve essere espressivo, per impressionare e convincere. Ma la sua espressività è mostruosa perché diviene immediatamente stereotipa, e si fissa in una rigidità che è proprio il contrario dell’espressività, che è eternamente cangiante, si offre a un’interpretazione infinita.
 
La finta espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua tecnica che sostituisce la lingua umanistica. Essa è il simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato e acculturato. Di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte.
Ma è possibile prevedere un mondo così negativo? È possibile prevedere un futuro come “fine di tutto”? Qualcuno -come me- tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificabile, ma probabilmente ingiusta.
Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans “Jesus”: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità -subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte- faceva troppo ragionevolmente prevedere.
Si veda la reazione dell’”Osservatore romano” a questo slogan: con il suo italianuccio antiquato, spiritualistico e un po’ fatuo, l’articolista dell’”Osservatore” intona un treno, non certo biblico, per fare del vittimismo da povero, indifeso innocente. È lo stesso tono con cui sono redatte, per esempio, le lamentazioni contro la dilagante immoralità della letteratura o del cinema. Ma in tal caso quel tono piagnucoloso e perbenistico nasconde la volontà minacciosa del potere: mentre l’articolista,infatti, facendo l’agnello, si lamenta nel suo ben compitato italiano, alle sue spalle il potere lavora per sopprimere, cancellare, schiacciare i reprobi che di quel patimento son causa. I magistrati e i poliziotti sono all’erta; l’apparato statale si mette subito diligentemente al servizio dello spirito. Alla geremiade dell’”Osservatore” seguono i procedimenti legali del potere: il letterato o cineasta blasfemo è subito colpito e messo a tacere.
 
Nei casi insomma di una rivolta di tipo umanistico -possibili nell’ambito del vecchio capitalismo e della prima rivoluzione industriale- la Chiesa aveva la possibilità di intervenire e reprimere, contraddicendo brutalmente una certa volontà formalmente democratica e liberale del potere statale. Il meccanismo era semplice: una parte di questo potere -per esempio la magistratura e la polizia- assumeva una funzione conservatrice o reazionaria, e, come tale, poneva automaticamente i suoi strumenti di potere al servizio della Chiesa. C’è dunque un doppio legame di malafede in questo rapporto tra Chiesa e Stato: da parte sua la Chiesa accetta lo Stato borghese -al posto di quello monarchico o feudale- concedendo ad esso il suo consenso e il suo appoggio senza il quale, fino a oggi, il potere statale non avrebbe potuto sussistere: per far questo la Chiesa doveva però ammettere e approvare l’esigenza liberale e la formalità democratica: cose che ammetteva e approvava solo a patto di ottenere dal potere la tacita autorizzazione a limitarle a sopprimerle. Autorizzazioni, d’altra parte, che il potere borghese concedeva di tutto cuore. Infatti il suo patto con la Chiesa in quanto instrumentum regni in altro non consisteva che in questo: mascherare il proprio sostanziale illiberalismo e la propria sostanziale antidemocraticità affidando la funzione illiberale e antidemocratica alla Chiesa, accettata in malafede come superiore istituzione religiosa. La Chiesa ha insomma fatto un patto col diavolo, cioè con lo Stato borghese. Non c’è contraddizione più scandalosa infatti che quella tra religione e borghesia, essendo quest’ultima il contrario della religione. Il potere monarchico o feudale lo era in fondo di meno. Il fascismo, perciò, in quanto momento regressivo del capitalismo, era meno diabolico, oggettivamente, dal punto di vista della Chiesa, che il regime democratico: il fascismo era una bestemmia, ma non minava all’interno la Chiesa, perché esso era una falsa nuova ideologia. Il Concordato non è stato un sacrilegio negli anni Trenta, ma lo è oggi, se il fascismo non ha nemmeno scalfito la Chiesa, mentre oggi il neocapitalismo la distrugge. L’accettazione del fascismo è stato un atroce episodio: ma l’accettazione della civiltà borghese capitalistica è un fatto definitivo, il cui cinismo non è solo una macchia, l’ennesima macchia nella storia della Chiesa, ma un errore storico che la Chiesa pagherà probabilmente con il suo declino. Essa non ha infatti intuito -eterna della propria funzione istituzionale- che la Borghesia rappresentava un nuovo spirito che non è certo quello fascista: un nuovo spirito che si sarebbe mostrato dapprima competitivo con quello religioso (salvandone solo il clericalismo), e avrebbe finito poi col prendere il suo posto nel fornire agli uomini una visione totale e unica della vita (e col non avere più bisogno quindi del clericalismo come strumento di potere).
È vero: come dicevo, alle lamentele patetiche dell’articolista dell’”Osservatore” segue tuttora immediatamente -nei casi di opposizione “classica”- l’azione della magistratura e della polizia. Ma è un caso di sopravvivenza. Il Vaticano trova ancora vecchi uomini fedeli nell’apparato del potere statale: ma sono, appunto, vecchi. Il futuro non appartiene né ai vecchi cardinali, né ai vecchi uomini politici, né ai vecchi magistrati, né ai vecchi poliziotti. Il futuro appartiene alla giovane borghesia che non ha più bisogno di detenere il potere con gli strumenti classici; che non sa più cosa farsene della Chiesa, la quale, ormai, ha finito genericamente con l’appartenere a quel mondo umanistico del passato che costituisce un impedimento alla nuova rivoluzione industriale; il nuovo potere borghese infatti necessita nei consumatori di uno spirito totalmente pragmatico ed edonistico: un universo tecnicistico e puramente terreno è quello in cui può svolgersi secondo la propria natura il ciclo della produzione e del consumo. Per la religione e soprattutto per la Chiesa non c’è più spazio. La lotta repressiva che il nuovo capitalismo combatte ancora per mezzo della Chiesa è una lotta ritardata, destinata, nella logica borghese, a essere ben presto vinta, con la conseguente dissoluzione “naturale” della Chiesa.
 
Sembra folle, ripeto, ma il caso dei jeans “Jesus” è un spia di tutto questo.
Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano -probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi- di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale.
C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.
Ma l’interesse di questo slogan non è solo negativo, non rappresenta solo il modo nuovo un cui la Chiesa viene ridimensionata brutalmente a ciò che essa realmente ormai rappresenta: c’è in esso un interesse anche positivo, cioè la possibilità imprevista di ideologizzare, e quindi rendere espressivo, il linguaggio dello slogan e quindi presumibilmente, quello dell’intero mondo teconologico. Lo spirito blasfemo di questo slogan non si limita a una apodissi, a una pura osservazione che fissa la espressività in pura comunicatività. Esso è qualcosa di più che una trovata spregiudicata (il cui modello è l’anglosassone “Cristo super-star”): al contrario, esso si presta a un’interpretazione, che non può essere che infinita: esso conserva quindi nello slogan i caratteri ideologici e estetici della espressività. Vuol dire – forse – che anche il futuro che a noi – religiosi e umanisti – appare come fissazione e morte, sarà in un modo nuovo, storia; che l’esigenza di pura comunicatività della produzione sarà in qualche modo contraddetta. Infatti lo slogan di questi jeans non si limita a comunicarne la necessità del consumo, ma si presenta addirittura come la nemesi – sia pur incosciente – che punisce la Chiesa per il suo patto col diavolo. L’articolista dell'”Osservatore” questa volta sì è davvero indifeso e impotente: anche se magari magistratura e poliziotti, messi subito cristianamente in moto, riusciranno a strappare dai muri della nazione questo manifesto e questo slogan, ormai si tratta di un fatto irreversibile anche se forse molto anticipato: il suo spirito è il nuovo spirito della seconda rivoluzione industriale e della conseguente mutazione dei valori.
 
Pier Paolo Pasolini, Scritti Corsari (cortesemente trascritto da sor lurè)