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Isabella e Giacomo Disvetri

 

 

[…] Se noi avessimo mai il dono di cantare il pianto e il rancore, la
disperazione e l’ostinata speranza, la previsione dell’amarezza e l’impossibile
rinuncia all’amore disperso, in mezzo ai disastri del mondo e all’implacabile
andare del tempo o dell’uomo che sia; noi vorremmo dire, con la certezza di
darne il senso e l’idea, quale era, nei suoi indelimitabili contorni, la
panoramica del ricordo della Basca nei pensieri e negli strappi di Giacomo
Disvetri vent’anni dopo il suo unico e assoluto incontro.

Se noi fossimo la Luna in persona, come lo era la Basca e come lo è tutt’ora
nel pensiero di lui (e adesso anche nel nostro), noi diremmo, con singolare
chiarezza, la storia più strana e illimitata che natural mente umana possa
concepire.

Se noi fossimo le stelle ch’erano in cielo quelle notti lontane, e tuttavia
così vicine al nostro cuore, racconteremmo milioni di storielle, con fiori e
montagne, case bianche scrostate e disperse, e minimi vaghi delitti colpevoli
della più ignobile innocenza.

Se noi fossimo il sole, il grande spettatore di quell’insonne mattino, con un
soffio daremmo fuoco alle nostre angoscie [così nel testo, ndr] perché
sprizzassero in ogni punto dell’universo. E se davvero il sole ardesse nella
nostra mente, incendieremmo il cuore di tutti perché in ognuno si facesse vivo
il ricordo di lei.

Pure essendo luna, stelle, sole, non potremmo dir niente che avesse qualcosa
da dire. Quel qualcosa che è sulla bocca di tutti, e che nella nostra si spegne
nell’inconsolabile disperazione.

Ma essendo ciò che noi siamo, che altro ci resta da fare se non quel pàffete
conclusivo, quella caduta nell’abisso – ch’è quanto può definire nel nostro
cuore l’irrimediabile tragedia di questo ricordo?

Ché se la fede poi fosse ancor viva in Giacomo Disvetri, allora potremmo
mormorare con lui, in una tenerezza piena di rancore e di speranza (come quella
sera che il paese era vuoto della Basca).

«Forse lei non verrà più – forse l’uccideranno – ma il mio cuore è ucciso –
prima che lei sia rapita. – Che cosa devo fare – se non aspettare? – Se non
aspettare la morte – con la quale sarò costretta tradirla. – Se io non fossi
sicuro – che in qualche modo la ritroverò – o prima o dopo – già da qualche ora
– il mio cuore sarebbe tranquillo.»

In silenzio dunque voglio restare, per vederti mia stella, amata e graziosa. E
semmai il canto mi sorgesse improvviso, allora dormi serenamente: poiché, se
anche la mia voce non riuscisse a dar suoni, ugualmente il mio cuore vorrebbe
che fosse un canto, un sogno notturno per te, un sogno che non avrà mai fine,
poiché sempre sarò alla finestra per guardarti.

Ene izar maitea

ene charmagarria

ichilik zure ikhustera

yten nitzaitu leihora;

koblatzen dudalarik,

zande lokharturik:

gabazko ametsa belala

ene canuta zaïtzula

da Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, Garzanti

 

 

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a un medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapevano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.
Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, la quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi”.

da Vita nuova, Dante Alighieri