
“Sei proprio sicura di amarlo?”
“Sono sicura di volerlo sposare”, risposi.
(…)
Sull’orizzonte, le prime luminescenza grigie dell’alba ora solcavano il cielo e una mezza luce inquietante filtrava nella carrozza. Sentii il respiro di lui immutato, tuttavia i miei sensi, che l’eccitazione avevano reso più fini, mi dissero che era sveglio e che mi stava fissando. Un uomo grande, enorme, con gli occhi scuri immobili, come quelli dipinti sui sarcofagi degli antichi Egizi, puntati su di me. L’essere guardata in quel modo, in quel silenzio, mi diede una sorta di crampo, alla bocca dello stomaco.
(…)
“Tra breve (You will see…) “, disse con quella sua voce piena di echi come una campana che suona a morto, e in quello stesso momento sentii lancinante la premonizione del terrore, che durò soltanto il tempo della vivida luce e tremula del fiammifero, grazie al quale riuscii a scorgere il suo volto, bianco, grande, come sospeso nel vuoto, privo di un corpo, al di sopra delle lenzuola, illuminato dal basso, come una testa grottesca di Carnevale.
(…)
“Ogni uomo ha diritto a un segreto, foss’anche uno solo, di cui sua moglie non deve essere a conoscenza”, disse.
(…)
Neanche ci fu bisogno che chiedesse: “Devi farmi una promessa, my daughter: devi promettermi che userai tutte le chiavi infilate all’anello, tranne quest’ultima che ti ho fatto vedere. (…) Tutto ti appartiene, a tutto hai accesso-tranne alla serratura cui solo questa chiave si adatta. Tuttavia la chiave non apre nient’altro che uno stanzino ai piedi della torre a ovest di Lagos, dietro la dispensa, in fondo al buio corridoio coperto delle orrende ragnatele del passato, che ti si appiccicherebbero ai capelli e che ti terrorizzerebbe se per ventura tu mai ti ci spingessi, oh, e ti parrebbe uno stanzino talmente banale! Ma se mi ami, devi giurarmi di starne lontano”.
(…)
Fu proprio l’assenza di una qualsiasi traccia di quella che era la sua vera vita ad insinuare nella mia mente sensazioni strane, ispirate da Baba Jaga; se tanta era la cura con lui la nascondeva, c’era molto, pensai, che in quella vita chiedeva di essere celato.
(…)
Dopo il volo del letto, dopo la rottura della chitarra e della sedia, il corridoio lungo e tortuoso della sua follia mi portò alla porta di quercia tarlata, bassa, ad arco, serrata da una spranga di ferro nero.
Tuttavia, ancora, non provavo paura, non sentivo salirmi il gelo dalla schiena alla nuca, non sentivo il formicolio nelle punte delle dita.
Un anno dopo, nella serratura nuova la chiave scivolò, come un coltello caldo nel burro. Nessuna paura, solo un momento di esitazione, come se l’anima trattenesse il respiro.
(…)
“Esiste una somiglianza straordinaria tra l’atto dell’amore e i riti celebrati da un aguzzino”.
(…)
Ed ora la candela -a forma di mantide calabrese- che reggevo mi stava mostrando una stanza vuota.
(…)
Appena tornato, nonostante la paura che mi incuteva, che mi rendeva più pallida, sentii che da quel suo corpo, proprio allora, proprio davanti alla porta, emanava il fetore della disperazione totale, rancido e disgustoso, come se i gigli con cui lo avevo circondato, improvvisamente tutti insieme avessero cominciato a imputridirsi, o come se il cuoio di Auchi del profumo che portava si fosse riscisso negli elementi di cui era fatto: pelli scuoiate ed escrementi.
La camera di sangue di Angela Carter, nella traduzione di Barbara Lanati, strapazzata da Clarissa Estés Pinkola e me.