Tag Archives: adriana cavarero

SSM (e Il pigiama di Piantedosi)

“un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”

Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 1986, p.100 citato da Adriana Cavarero in Orrorismo. Ovvero della violenza sull’inerme, Castelvecchi, 2022 p.55

Il vero scopo della macchina violenta del lager nazista, ma anche degli interventi di Minniti, Salvini, Piantedosi (a favore della criminalità organizzata) “prevale largamente anche sulle finalità economiche di sfruttamento degli internati (o delle persone trasformate in sans papiers) come forza lavoro schiavizzata (…)”.

Il potere tra i sessi

“Si tratta di pensare diversamente il rapporto fra i sessi. Pensare diversamente, ripensare la differenza fra i sessi e non pensarla come una eguaglianza, perché non è un’eguaglianza. A mio avviso, va dato senso alla differenza sessuale, va restituito un significato alla differenza sessuale, ma non un significato che indichi gerarchie di potere, ma un significato che valorizzi la differenza.” (da 20:23)

Di Demetra e Kore, ci scrive Adriana Cavarero

è dunque cruciale che sia di nuovo la figura di Demetra a tracciare un ordine simbolico femminile nel quale la maternità stessa sia un luogo e non un posto. Soprattutto il luogo da cui si viene e a cui si guarda con gli occhi di figlia, così com’è nell’ordine fattuale prima che simbolico, perché ciascuna nasce figlia prima di poter divenire madre. Certo può essere forte il desiderio di divenirla, eppure non della forza coercitiva di chi deve corrispondere all’unica identità (del resto stravolta in quanto definita dal dis-tratto figlio) concessale, ma chi ha scelto di ripetere quell’esperienza materna che tuttavia sua madre non le ha imposto. Insomma, nella reciprocità degli sguardi fra madre e figlia, la figura della maternità è già nella sua completezza da ambedue i lati della generante e della generata, senza che alcun dovere venga a forzare nella figlia un desiderio di generazione che può pertanto sopportare con quieto rimpianto le sue eventuali e contingenti frustrazioni. Infatti la potenza materna, come luogo simbolico dell’umana origine assegnata al sesso femminile, non è negata ad alcuna figlia che voglia trattenere il suo sguardo sulla madre, mentre invece proprio nell’ordine patriarcale che questo sguardo vuole impedire, lasciando dunque sola la figlia senza più femminile theoria, il divenire madre può diventare per costei l’unico mezzo per guardare alla maternità nella forma diretta di una incarnazione personale.

Se l’etica, appunto in quanto bioetica, ha scansioni logiche, allora a ciascuna che nasce figlia spetta innanzitutto riconoscersi come tale, nel genere femminile e orientandosi a partire da quel radicamento in umana madre che già è dato e che nessuno le può togliere. Anche se può apparire paradossale, in questa prospettiva fondata sulla potenza materna è infatti prima necessario l’apprendistato del proprio essere figlia perché il desiderio di divenire madre possa radicarsi in una soggettività libera e non invece essere comandato dal codice del padre e del figlio. I quali hanno molte figure rappresentative nell’ordine simbolico patriarcale, essendo capaci di nominare anche con devozione la Madre del Figlio, ma mai la madre della figlia e, tanto meno, lo sguardo di questa a quella. La coppia primigenia che il mito di Demetra inscena ha così il merito di nominare una madre che non solo pone come primaria la reciproca relazione con la figlia, ma che soprattutto vuole che la figlia sia tale: Demetra vuole Kore, la fanciulla, la vergine nata da lei, non la figlia gravida e il generare ininterrotto***.

A partire da qui, dall’orizzonte di un genere femminile che conosce origine e mediazione, un desiderio di maternità della figlia è appurato possibile – anzi probabile- ma difficilmente assegnato, in ogni caso e a tutti i costi, a quelle spettacolari vicende di embrioni futuribili che la scienza mette a disposizione sul mercato di un ruolo riproduttivo tanto più forzosamente accollato all’identità femminile, quanto più costretto a porre ossessivamente rimedio alle sue insopportabili frustrazioni.

da Demetra, in Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, Adriana Cavarero, Ombre Corte, 2009

*** è qui cruciale, rispetto al modello consueto, che sia la figlia ad essere vergine, e cioè che essa sia vergine per la madre e non invece per l’uomo che può pertanto assicurarsi l’intatto possesso di una moglie non prima da altri violata.

A Marta

appunti per Trentasei e dieci vedute n.4

Bruno Illich

Gertrude Stein riesce notoriamente a sconvolgere i canoni fondamentali del genere autobiografico. Scrivendo l’Autobiografia di Alice Toklas, ella infatti contravviene alla regola elementare per cui il protagonista di un’autobiografia ne è anche l’autore. Nel libro in questione tale coincidenza salta. Come annuncia il titolo, Gertrude Stein scrive e firma l’autobiografia di un’altra, ossia l’Autobiografia di Alice Toklas, dove Alice parla in prima persona.

(…)

L’Autobiografia di Alice Toklas è dunque un’autobiografia di Gertrude Stein, scritta da Gertrude Stein, dove Gertrude medesima compare però nel testo come un personaggio narrato da Alice. Il gioco della finzione può anche essere formulato diversamente. Si può infatti anche dire che, nell’Autobiografia di Alice Toklas, Alice stessa, pur figurando nel ruolo autobiografico della prima persona, viene tuttavia a svolgere il ruolo della biografa di Gertrude Stein. Insomma, la finzione è complessa e divertente proprio perché è esplicita. Il genere autobiografico e quello biografico si sovrappongono.

da Tu che mi guardi, tu che mi racconti. Filosofia della narrazione, di Adriana Cavarero, Feltrinelli