la responsabilità di Aiace

Aiace ha poi un bel sapere che Atena l’ha ingannato, la responsabilità della dea non lo solleva dalla sua. Il fatto di essere stato il giocattolo di una potenza superiore non l’autorizza affatto a dichiararsi innocente. Senza dubbio questo può sorprendere il lettore moderno, tanto abituato a considerare la follia, la nevrosi stessa, ragione di non luogo a procedere; appena si sostituisce una condizione alienante alla volontà dell’individuo, questi non ci sembra più responsabile delle sue azioni. Lo stato morboso è uno spossessamento, e noi attribuiamo al meccanismo causale – meccanismo che rende la colpa estranea all’individuo – gli atti estremi, che cessano perciò di essere imputabili all’alienato. Per Sofocle e per i suoi personaggi non sembra che esista questa via all’innocenza. Che Edipo abbia compiuto parola per parola la predizione dell’oracolo non lava la macchia del re parricida e incestuoso. Che Aiace sia stato accecato da Atena non lo libera dal disonore. Quel che conta è l’atto compiuto. Da chi? Su chi? DI sua volontà? Le sole domande sono queste. Per non aver agito con piena conoscenza di causa, l’individuo non manca di essere macchiato dalla sua azione.
Parole di Tecmessa:

ora è cosciente: e nuova
angoscia ora lo domina.
Preda vedersi di mali discesi
solo dal proprio errore
fa più intenso lo spasimo.

Sofocle resta fedele alla concezione elementare che lega l’opera compiuta, la gloria o il disonore che ne vengono, al braccio che l’ha effettivamente eseguita. Se ogni azione straordinaria implica una componente sovrumana, l’eroe può tuttavia essere semplicemente considerato un giocattolo delle forze che lo guidano. E per quanto importante sia la funzione reggitrice degli dèi e del fato, l’eroe deve assumersi la responsabilità di quel che il fato lo ha costretto a compiere. Una delle fonti del tragico è nel bisogno di Aiace di pagare, solo, per delle azioni a cui non ha preso parte solo, per dei misfatti la cui direzione aberrante gli è stata imposta, ma ai quali ha sovvenuto con tutta la sua forza passionale. Nelle gesta notturne di Aiace, Atena era responsabile della fallace deviazione, non della violenza, non del furore sanguinario, non dell’idea assassina, che sono pienamente imputabili all’eroe.

da Tre furori, Jean Starobinski, SE Studio Editoriale, trad.di Silvia Giacomoni

sulla resistenza

disegno di Alberto Giacometti

Pioggia

Da tre giorni sondavamo il terreno in una nuova area di prospezione. Ognuno di noi aveva la sua fossa da scavare e in tre giorni non avevamo superato il mezzo metro di profondità. Nessuno aveva ancora raggiunto lo strato di terra gelata, la merzlota, benché leve e picconi venissero riparati senza ritardi ogni volta che questo si rendeva necessario, fatto abbastanza insolito: i fabbri non potevano tirare per le lunghe perché la nostra squadra era l’unica al lavoro. E tutto dipendeva dalla pioggia. Pioveva senza sosta da tre giorni e tre notti. Su di un suolo roccioso non è possibile capire se piove da un’ora o da un mese. Una pioggia fredda e sottile. Le squadre accanto alla nostra avevano interrotto il lavoro di scavo da un bel po’ ed erano rientrate alle baracche, ma erano squadre di malavitosi; noi comunque non avevamo neppure la forza per invidiarli.
Il desjatnik, il “caporale”, infagottato in una grande mantella di tela cerata con un cappuccio a punta, si mostrava di rado. I nostri superiori facevano grande assegnamento sulla pioggia, sulle sferzate di acqua diaccia che ci tempestavano la schiena. Da tempo eravamo bagnati fradici, non posso dire fino alla biancheria perché non ne avevamo. Il segreto calcolo dei capo era piuttosto elementare: la pioggia e il freddo ci avrebbero indotti a lavorare. Ma l’odio per il lavoro era più forte ancora, e ogni sera il caporale calava la sua asta graduata di legno nello scavo per poi coprirci di maledizioni. I soldati della scorta ci sorvegliavano tenendosi al riparo di un ‘fungo’, noto elemento dell’architettura concentrazionaria.
Ci era fatto divieto di uscire dalle nostre buche, saremmo stati abbattuti a fucilate. Solo il nostro caposquadra poteva spostarsi da una buca all’altra. Non potevamo neppure gridarci qualcosa l’un l’altro, ci avrebbero sparato addosso. Ce ne stavamo dunque in silenzio, sprofondati fino alla cintola nei nostri pozzi, nelle nostre pozze di pietra che si stendevano senza interruzione, una accanto all’altra, sulla proda di un piccolo corso d’acqua in secca.
Durante la notte i nostri giubbotti non riuscivano ad asciugarsi; casacche e pantaloni ce li facevamo asciugare addosso e al mattino erano solamente umidi.
Affamato e inasprito, sapevo che nessuna cosa al mondo avrebbe mai potuto indurmi al suicidio. Proprio allora avevo cominciato a comprendere l’essenza del grande istinto vitale: una qualità di cui l’uomo è dotato in misura superlativa. Vedevo i nostri cavalli sfinirsi e spegnersi – non posso esprimermi altrimenti, né utilizzare altri verbi. I cavalli non differivano in niente dagli uomini. Il Nord, il lavoro troppo gravoso, il nutrimento scadente, le percosse, ecco cosa li faceva morire; e benché tutto ciò toccasse loro in misura mille volte più lieve degli uomini, essi morivano prima. Fu allora che compresi la cosa più importante, e cioè che l’uomo non è diventato uomo perché creatura di Dio, e neanche perché aveva in ognuna delle due mani quel dito straordinario che è il pollice. Ma anzitutto perché era fisicamente il più forte e resistente di tutti gli animali, e in secondo luogo perché era riuscito a mettere felicemente al servizio del principio fisico il proprio principio spirituale.
Nella mia fossa ripensavo a queste cose per la centesima volta. Sapevo che mai l’avrei fatta finita, perché avevo verificato su me stesso quanto fosse forte l’istinto vitale. Un giorno, lavorando in uno scavo dello stesso genere ma molto più profondo, avevo dissotterrato con il piccone un enorme blocco di pietra. Per molti giorni avevo accuratamente scavato tutt’attorno a quella temibile massa. Da quella massa funesta volevo creare splendide cose – come ebbe a dire il poeta (Mandel’stam). Pensavo di salvarmi la vita rompendomi una gamba. Era veramente un progetto magnifico, un atto squisitamente estetico. La roccia sarebbe franata e mi avrebbe fracassato la gamba. E sarei rimasto invalido per sempre! Questa ardente fantasticheria andava accuratamente organizzata: calcolai il posto dove mettere la gamba, mi figurai il leggero colpo di piccone… e la roccia sarebbe caduta. Misi la gamba destra sotto il masso in bilico e spinsi il piccone che avevo incuneato tra masso e scavo, facendo leva. Il blocco d pietra cominciò a scivolare lentamente lungo la parete dello scavo verso il punto previsto e calcolato. Io stesso non so dire come sia potuto accadere, fatto sta che tirai precipitosamente indietro la gamba. In quello spazio angusto la gamba restò comunque contusa. Due lividi, tre escoriazioni, fu questo tutto il risultato di un’operazione così accuratamente predisposta.
E compresi che autolesionismo e suicidio non facevano per me. Mi restava un’unica risorsa: attendere che al piccolo guaio quotidiano facesse seguito un piccolo momento fortunato e che il grande guaio prima o poi si esaurisse per conto suo. La fortuna più vicina era la fine della giornata lavorativa, tre sorsate di minestra calda, o anche fredda, l’avrei riscaldata sulla stufa di ferro: avevo la mia gamella, un barattolo di conserva di tre litri. E poi avrei chiesto una sigaretta, o piuttosto un mozzicone, a Stepan, il “piantone” della nostra baracca.
In tal modo, rimescolando nel cervello questioni “cosmiche” e piccole inezie, aspettavo, bagnato fino al midollo ma con il cuore in pace. Si può dire che queste considerazioni costituissero una sorta di ginnastica del cervello? Niente affatto. Tutto questo era nell’ordine delle cose, era la vita. Sapevo che il corpo, e quindi le cellule del cervello, ricevevano un nutrimento insufficiente – da parecchio tempo il mio cervello era ridotto a una razione da fame – e che questo si sarebbe immancabilmente tradotto in follia, sclerosi precoce o qualcosa del genere… E mi sorrideva l’idea che non avrei vissuto abbastanza da arrivare alla sclerosi. La pioggia veniva giù a dirotto.
Mi venne in mente quella donna che il giorno prima era passata vicino a noi, sul sentiero, senza badare alle intimazioni dei soldati. L’avevamo salutata e ci era sembrata straordinariamente bella: era la prima donna che vedevamo dopo tre anni. Ci aveva fatto un cenno con la mano, poi aveva indicato il cielo, un angolo del firmamento, e ci aveva gridato: “Manca poco, ragazzi, manca poco!” Le aveva risposto un urlo di gioia. Non l’ho più rivista ma per tutta la vita non ho dimenticato come seppe capirci e consolarci. Indicando il cielo non pensava affatto all’aldilà. No, indicava soltanto che l’invisibile calava verso occidente e che la giornata di lavoro stava per finire. Ci aveva ripetuto a modo suo le parole di Goethe sulle cime dei monti (“Dormono le vette/nel buio della notte/(…)aspetta solo un poco/riposerai anche tu”). E io pensavo alla saggezza di quella donna semplice, che sicuramente era una prostituta o un’ex prostituta (a quei tempi, nella regione altre donne non c’erano, oltre alle prostitute), pensavo alla sua saggezza e al suo grande cuore, e il mormorio della pioggia faceva da eccellente sfondo sonoro a questi pensieri. La grigia riva di pietra, le grigie montagne, il cielo grigio, gli uomini vestiti con abiti laceri e grigi – un tutto morbido, consonante in ogni sua parte. Un tutto che si componeva in un’armoniosa unità cromatica – un diabolica armonia.
E in quel momento si alzò un debole grido dallo scavo accanto al mio. Il mio vicino era un certo Rozovskij, un agronomo di una certa età, la cui notevole competenza scientifica non trovava qui alcun campo di applicazione, al pari delle competenze di medici, ingegneri, economisti. Mi aveva chiamato per nome e io gli risposi senza curarmi del gesto minaccioso che il soldato mi indirizzò da lontano, da sotto il suo fungo.
– Mi ascolti, – gridava, – mi ascolti! Ci ho pensato a lungo! E ho capito che la vita non ha senso…No…
Allora saltai fuori dal mio buco e lo raggiunsi prima che potesse lanciarsi contro i soldati della scorta. Le due sentinelle si stavano avvicinando.
– Si è ammalato, – dissi loro.
In quell’istante ci raggiunse, attutito dalla pioggia, il suono lontano della sirena, e cominciammo a formare i ranghi.
Con Rozovskij lavorai ancora per qualche tempo, finché non si gettò sotto un carrello carico, lungo la discenderia. Aveva messo una gamba sotto le ruote, ma il carrello l’aveva semplicemente saltato, e lui non aveva rimediato neanche un’ammaccatura. Non per questo rinunciarono ad affibbiargli un nuovo delo, ad avviare una causa giudiziaria, per tentato suicidio, venne condannato e ci separammo, perché esiste una regola in base alla quale dopo il giudizio un condannato non viene mai riportato nel luogo di provenienza. Si teme una vendetta a caldo, contro l’inquirente, o i testimoni. È una regola saggia, niente da dire. Ma nei confronti di Rozovskij avrebbero potuto fare a meno di applicarla.

da I racconti di Kolyma, Varlam Šalamov, Einaudi, trad.di Sergio Rapetti, in mio possesso grazie al libraio Federico Fantinel

quotidiani

Se la stampa si proponesse di far sì che il lettore possa appropriarsi delle sue informazioni come di una parte della sua esperienza, mancherebbe interamente il suo scopo. Ma il suo intento è proprio l’opposto, ed essa lo raggiunge. È quello di escludere rigorosamente gli eventi dall’ambito in cui potrebbero colpire l’esperienza del lettore. I principî dell’informazione giornalistica (novità, brevità, intelligibilità e, soprattutto, mancanza di ogni connessione fra le singole notizie) contribuiscono a questo effetto non meno dell’impaginazione e della forma linguistica. Karl Kraus ha mostrato infaticabilmente come e fino a che punto l’uso linguistico dei giornali paralizzi l’immaginazione dei lettori). La rigida esclusione dell’informazione dall’esperienza dipende anche dal fatto che essa non entra nella tradizione.

da Agelus Novus. Saggi e frammenti, Walter Benjamin, Einaudi, a cura di Renato Solmi

limiti

Di queste vie che scavano il ponente
Una certo (non so quale) ho percorso
Ormai l’ultima volta, indifferente
E senza saperlo, sottomesso

A Chi prefigge onnipotenti norme
E una misura rigida e segreta
Alle ombre, ai fantasmi e alle forme
Che tessono e che disfano la vita.

Se per tutto c’è termine e c’è regola
E l’ultima volta e per sempre ed oblio
Chi potrà dirci a chi, in questa casa,
Senza saperlo abbiamo detto addio?

Fa grigio il vetro la notte morente,
della pila di libri che una tronca
Ombra allunga sul tavolo impreciso
Ce n’è qualcuno che non leggeremo.

C’è al Sud più d’un portone consumato
Coi suoi vasi di pietra e i fichi d’India,
Che al mio passo nostalgico è vietato
Come se fosse una litografia.

Hai richiuso per sempre qualche porta
E c’è uno specchio che t’attende invano,
E quel crocicchio che ti sembra aperto
È vegliato dal quadrifonte Giano.

Fra tutti i tuoi ricordi, ce n’è uno
Che s’è perduto irreparabilmente;
Non ti vedran riandare alla sua fonte
Il bianco sole né la gialla luna.

Non riandrà la tua voce quel che il perso
Disse in suo idioma d’uccelli e di rose,
Quando al tramonto di luce dispersa
Vorresti dire memorande cose.

E l’incessante Rodano ed il lago
Tutto l’ieri sul quale oggi mi chino?
Sarà perduto come lo è Cartago
Che con fuoco e con sale arse il latino.

Credo udire nell’alba un frettoloso
Rumore, come gente che va via:
È quello che m’ha amato e obliato;
Già spazio, tempo, Borges mi abbandonano.

da Poesia, Anno IV, Luglio-Agosto 1991 n.42, Jorge Luis Borges a cura di Francesco Tentori Montalto

vittoria

Sul paese vecchio faceva la campagna.
Era meriggio solatio, quando nella piazza
incontrò una vecchia col capo coperto.

Facite la campagna? disse ritraendosi
e mutando il viso in quello di una serpe.
Poi curiosa negli occhi: a chi appartenete?

Lui le disse il nome, cercò di camuffarlo,
ma fu sopraffatto; lo stritolò come la gatta
soffoca le sue creature. Non lo uccise.

Lui tentò di genuflettersi,
lei con violenta carezza lo trattenne:
lo trattavano bene, era brava gente.

Cercò di spiegare che aveva già vinto
e che insieme guadavano il torrente
dietro la Torre e che se sarà eletto

ruoterà la clessidra e aprirà le porte…
Ma era come se la vita scivolasse
via dal petto.

*

Quando salì sul palco
portava quattro cappelli.
Questo di paglia è di mia nonna contadina,
questo di panno è di mia nonna bottegaia,
questo nuovo di zecca è di mio nonno portiere al ministero,
questo è di mio nonno che fece la marcia,
lo prese tra le mani distante
come fosse un ribrezzo,
poi bruscamente v’affondò il viso.

*

La vittoria ci salutò con sguardo
fuggente; fu un lampo. Aveva occhi
bramosi come di sfinge che fissa
e guardando non vede, guada;
come un vento di tramonto che non sai
donde viene, un attimo, bruciante
anticipo, del dopo un frantume.

da Poemetti occidentali, Giovanni Burali d’Arezzo, Edizioni Il Pavone

 

pioggia

Come la pioggia cade,
così il tuo amore

bagna

Ciascuna schiusa

cosa del mondo –
Nelle case
le impagabili asciutte

stanze

degli illeciti amori
che abitiamo,
ascoltano lo scroscio

dell’acqua

quadri

metalli

lavorati

tessuti –
tutta la ruffianeria

nostra delizia

vede
dalle finestre lo scroscio
primaverile
del tuo amore:

la pioggia

che cade –
Gli alberi
sono già bestie
di fresco emerse
dal mare –
grondano gocce
dai solchi
del cuoio –
Così la mia vita è spesa

nel tenere lontano l’amore

in cui ella piove
sul mondo
di primavera

stilla

e dilata così

le parole

sino ad aprire un varco

al suo amore –

Vi scorrono in mezzo
le gocce-

la pioggia

è un medico dolce

la pioggia

dei suoi pensieri sul-
l’oceano, per ogni-
dove

scorrenti con

piedi
veloci invisibili
sopra le onde

indifese

Amore non di questo mondo,
che non hai speranza
del mondo

e che puoi

tramutare il mondo
a tuo diletto –

Pioggia

cade sulla terra,
ed erba e fiori
sbocciano in perfetta
forma dalla sua

liquida

chiarezza

Ma l’amore

non è di questo mondo

e nulla

ne nasce oltre l’amore
che all’infinito
seguita a cadere
dai pensieri
di lei.

da Poesie, William Carlos Williams, Einaudi, trad.di Cristina Campo

stazione

In sere d’eterno
diluvio m’è grato rifugio
la cupola inferna
della stazione; e mi basta
sentire l’odore di solfo
del fumo dei treni
perché subito si sfreni
la mia fantasia sedentaria
e via se ne fugga
fuor della scura tettoia
cercando nel buio dei prati
la gioia
dell’erba nera che succhia la pioggia.

Cammino su e giù per l’asfalto
di questa gran piazza coperta
che simula un vuoto mercato
o una cattedrale smessa.
I greci avevano il portico candido,
ma a noi meglio si conviene
questo fumoso chiesone
sconsacrato, ridotto a stazione.

Chiaror di lampi celebra
sotto l’arco di ferro
il puro altare delle montuose nevi.

da Conclave di sogni, Giorgio Vigolo, Poesia Anno VI Ottobre 1963 n.66

nella sua stanza c’era l’amore

Il diavolo viveva nella stanza di mia sorella Valerija, -al piano di sopra, proprio di fronte alla scala – una stanza rossa, di raso, moire e damasco, con un’eterna, violenta ed obliqua colonna di sole, in cui la polvere volteggiava senza sosta e quasi immobile.

da Il diavolo, Marina Cvetaeva, Editori Riuniti, trad.di Luciana Montagnani

sotto il doppio mento di Carlo Emilio Gadda