Edward Hopper
Un viso come una maschera – non rigido come una maschera, ma mobile come una maschera -, una voce alterata, che sforzandosi timidamente di non attirare l’attenzione, imitava non solo l’altro dialetto, ma anche i modi di dire estranei – “Alla salute!”, “Giù le zampe di lì”, “Oggi mangi di nuovo come un lupo”-, un atteggiamento del corpo studiato, con l’anca piegata, un piede davanti all’altro…tutto questo, non per diventare un’altra persona, ma per diventare un TIPO: per trasformarsi da comparsa d’anteguerra in comparsa del dopoguerra, da fresca contadina in cittadina; per lei bastava la descrizione: ALTA, SNELLA, BRUNA.
Descritta così, come un tipo, una si sentiva liberata persino della propria storia, perché ormai viveva se stessa soltanto come sotto il primo sguardo di un estraneo che ti valuta sessualmente.
Così una vita interiore che non ebbe mai la possibilità di diventare pacificamente borghese, fu consolidata almeno in superficie, imitando goffamente nei rapporti sociali il sistema di valutazione borghese tipico delle donne soprattutto, per cui l’altro è il mio tipo ma io non sono il suo, oppure io il suo ma lui non il mio, oppure siamo fatti l’uno per l’altra, oppure uno non può soffrire l’altro, – per cui insomma tutte le forme di rapporto vengono ormai concepite come regole talmente obbligate, che ogni atteggiamento un po’ più personale, un po’ compartecipe, non è che un’eccezione. “In fondo non era il mio tipo,” diceva, per esempio, mia madre, di mio padre. Si viveva dunque in base a questa dottrina dei tipi, in essa ci si trovava piacevolmente oggettivati e non si soffriva più di se stessi, né della propria origine, né della propria individualità, afflitta forse dalla forfora o dai piedi sudati, né delle condizioni di sopravvivenza che ogni giorno tornavano a riproporsi, come tipo, anche un disgraziato usciva da una solitudine e da un isolamento vergognosi, perdeva se stesso eppure diventava qualcuno, anche se solo di passaggio.
Allora si andava per le strade senza un peso, sospinti da tutto ciò che si poteva sfiorare spensieratamente, respinti da tutto ciò che chiedeva una sosta e ripristinava una fastidiosa coscienza di sé: le lunghe code, un ponte alto sullo Sprea, una vetrina di carrozzine (aveva abortito un’altra volta di nascosto). senza pace per restare in pace, irrequieti per fuggire a se stessi. Parola d’ordine: “oggi non voglio pensare a niente, oggi voglio essere felice”.
(…)
Naturalmente sono un po’ imprecise queste cose scritte su qualcuno ben preciso: ma solo le generalizzazioni che espressamente prescindano da mia madre come possibile protagonista straordinaria di una storia forse irripetibile possono riguardare qualcun altro oltre a me; riferire semplicemente agli alti e bassi d’una vita troncata all’improvviso non sarebbe che pretenzioso.
Il pericolo di queste astrazioni e formulazioni è che tendono a rendersi autonome. Dimenticano la persona da cui sono partite: una reazione a catena di locuzioni e di frasi come le immagini di un sogno, un rituale letterario per cui la vita di un individuo non è che un’occasione.
Questi due pericoli – il semplice referto e lo scomparire indolore di una persona in una serie di frasi poetiche – rallentano la scrittura, perché a ogni frase ho paura di perdere l’equilibrio. Ciò vale per qualunque attività letteraria, ma particolarmente in questo caso, dove i fatti sono così perentori che non c’è quasi più niente da inventare.
da Infelicità senza desideri, Peter Handke, Garzanti