Category Archives: sulla gioia

idide degli occhi

 

Ide

 Sui gradini che salgono alla porta di casa lacio un fischio di due toni, nota base e quarta inferiore, press’a poco come l’inizio del secondo tempo dell’incompiuta di Schubert, un segnale che potrebbe anche sembrare la versione musicata di un nome di due sillabe. Subito dopo, mentre mi incammino verso il cancello del giardino, si ode lontano un tintinnio argentino, come avviene quando una marchetta di riconoscimento batte contro la placca metallica di un collare, prima appena percettibile, poi, avvicinandosi rapidamente, sempre più chiaro e distinto. Voltandomi vedo Bauschan sbucare in piena corsa dall’angolo posteriore della casa e dirigersi all’impazzata direttamente su di me, come se avesse l’intenzione di investirmi. La fatica della corsa gli contrae leggermente il labbro, scoprendo due o tre dei suoi incisivi inferiori, che scintillano bianchi e splendenti al primo sole.

Appena mi chino per allungare la mano mi si avvicina con un balzo e, premendo le spalle contro la mia tibia, rimane immobile come una statua; così appoggiato obliquamente alla mia gamba, le zampe robuste ben puntate contro il terreno, alza il muso verso di me, guardandomi dal basso in su e, mentre gli batto affettuosamente la spalla, mormorando qualche buona parola a mezza voce, la sua immobilità emana la stessa appassionata concentrazione che poco prima aveva dedicato al suo frenetico carosello.

da Padrone e cane e altri racconti, Thomas Mann, Feltrinelli, trad.di Ingrid von Anrep

dalla via purgativa all’unione

Così, in questo passaggio, patisce l’anima quanto all’intelletto grandi tenebre, quanto alla volontà grandi aridità e angustie, e nella memoria grave cognizione delle sue miserie, poiché nella visione che ha di sé l’occhio spirituale è chiarissimo

da Fiamma d’amore viva, San Giovanni della Croce, Se Studio Editoriale, a cura di Cesare Greppi

Augusto capì d’essersi perso, d’aver smarrito la strada. La sua vera tragedia, cominciava a capire, stava nel fatto d’essere incapace di comunicare agli altri quella scoperta: che esisteva un altro mondo, un mondo al di là dell’ignoranza, al di là del caduco, al di là del pianto e del riso. Era quello l’ostacolo che lo costringeva a rinchiudersi nella maschera del clown: giullare di Dio, magari, perché nessuno al mondo avrebbe saputo sciogliere il suo dilemma.

E a questo punto gli fu chiaro – oh, com’era semplice!- che nessuno, nessuno, neanche il mondo intero, avrebbe potuto impedirgli d’esser se stesso. Se davvero era un clown, allora doveva esserlo fino in fondo, da quando apriva gli occhi al mattino, fino a sera, quando li richiudeva. In stagione e fuori stagione, a pagamento o per il semplice piacere. Ora sì che era incrollabilmente sicuro della verità di questa idea: e ardeva dal desiderio di cominciare subito…senza cerone, senza trucco, senza costume, senza neppure l’accompagnamento di quel vecchio violino stridulo…Essere così totalmente se stesso che si sarebbe vista solo la verità, che ora gli bruciava dentro come un fuoco.

Richiuse gli occhi, ricadde nelle tenebre. Rimase così, a lungo, respirando piano e quietamente al capezzale di se stesso. E quando alfine riaprì gli occhi, vide un mondo dal quale il velo era stato strappato via. Un mondo esistito da sempre nel suo cuore, sempre sul punto di manifestarsi, ma che solo nell’attimo in cui il cuore batte finalmente all’unisono, comincia a pulsare di vita.

Augusto ne fu così commosso da non credere ai propri occhi. Se li sfregò col dorso della mano, ma soltanto per sentirseli ancora umidi delle lagrime di gioia che inavvertitamente gli erano sgorgate. Stette diritto, impettito sulla panchina, con gli occhi sbarrati, fissi davanti a sé, sforzandosi di adattare la visione alla visione. Dal profondo di se stesso saliva incessante un mormorio di ringraziamento.

Quando il sole soffuse la terra dell’ultima febbre dorata, egli s’alzò dalla panchina. Forza e desio gli correvano per le vene. Rinasceva, moveva i primi passi nel magico mondo della luce. D’istinto, proprio come gli uccelli spiegano le ali, egli spalancò le braccia nel gesto di abbracciare tutto il creato.

La terra svaniva lentamente nel rosso scuro che annuncia e precede il crepuscolo. Augusto camminava barcollando, estasiato.

“Finalmente! Finalmente!” urlò, ma in realtà il suo grido era solo un pallido riverbero dell’immensa gioia che lo sconvolgeva.

 

da Il sorriso ai piedi della scala, Henry Miller, Feltrinelli, trad.di Valerio Riva

più salivo in alto


da Sangue di un poeta, Jean Cocteau

 

Più salivo in alto
più il mio sguardo s’offuscava,
e la più aspra conquista
fu un’opera di buio;
ma nella furia amorosa
ciecamente m’avventai
così in alto, così in alto
che raggiunsi la preda.

da Poesie, Juan de la Cruz, Einaudi

di tanto vivere convinto

Molte di più, 4
o 5,le voci nella gola
mia figlia cambia e ricrea

nel giocare da sola;
quasi in ali di cera
a rivestire pupazzi,

opprimendoli già di doveri
scolastici, con sillabe
e deliziosi rancori

quando inveisce: “su Paolo”,
restio a capirle i furori
di tanto vivere convinto,

lui, che la sa lunga
sulla storia dell’esistenza,
essendo solo un birillo dipinto.

da Siamo esseri antichi, Carlo Villa, Einaudi

Isabella e Giacomo Disvetri

 

 

[…] Se noi avessimo mai il dono di cantare il pianto e il rancore, la
disperazione e l’ostinata speranza, la previsione dell’amarezza e l’impossibile
rinuncia all’amore disperso, in mezzo ai disastri del mondo e all’implacabile
andare del tempo o dell’uomo che sia; noi vorremmo dire, con la certezza di
darne il senso e l’idea, quale era, nei suoi indelimitabili contorni, la
panoramica del ricordo della Basca nei pensieri e negli strappi di Giacomo
Disvetri vent’anni dopo il suo unico e assoluto incontro.

Se noi fossimo la Luna in persona, come lo era la Basca e come lo è tutt’ora
nel pensiero di lui (e adesso anche nel nostro), noi diremmo, con singolare
chiarezza, la storia più strana e illimitata che natural mente umana possa
concepire.

Se noi fossimo le stelle ch’erano in cielo quelle notti lontane, e tuttavia
così vicine al nostro cuore, racconteremmo milioni di storielle, con fiori e
montagne, case bianche scrostate e disperse, e minimi vaghi delitti colpevoli
della più ignobile innocenza.

Se noi fossimo il sole, il grande spettatore di quell’insonne mattino, con un
soffio daremmo fuoco alle nostre angoscie [così nel testo, ndr] perché
sprizzassero in ogni punto dell’universo. E se davvero il sole ardesse nella
nostra mente, incendieremmo il cuore di tutti perché in ognuno si facesse vivo
il ricordo di lei.

Pure essendo luna, stelle, sole, non potremmo dir niente che avesse qualcosa
da dire. Quel qualcosa che è sulla bocca di tutti, e che nella nostra si spegne
nell’inconsolabile disperazione.

Ma essendo ciò che noi siamo, che altro ci resta da fare se non quel pàffete
conclusivo, quella caduta nell’abisso – ch’è quanto può definire nel nostro
cuore l’irrimediabile tragedia di questo ricordo?

Ché se la fede poi fosse ancor viva in Giacomo Disvetri, allora potremmo
mormorare con lui, in una tenerezza piena di rancore e di speranza (come quella
sera che il paese era vuoto della Basca).

«Forse lei non verrà più – forse l’uccideranno – ma il mio cuore è ucciso –
prima che lei sia rapita. – Che cosa devo fare – se non aspettare? – Se non
aspettare la morte – con la quale sarò costretta tradirla. – Se io non fossi
sicuro – che in qualche modo la ritroverò – o prima o dopo – già da qualche ora
– il mio cuore sarebbe tranquillo.»

In silenzio dunque voglio restare, per vederti mia stella, amata e graziosa. E
semmai il canto mi sorgesse improvviso, allora dormi serenamente: poiché, se
anche la mia voce non riuscisse a dar suoni, ugualmente il mio cuore vorrebbe
che fosse un canto, un sogno notturno per te, un sogno che non avrà mai fine,
poiché sempre sarò alla finestra per guardarti.

Ene izar maitea

ene charmagarria

ichilik zure ikhustera

yten nitzaitu leihora;

koblatzen dudalarik,

zande lokharturik:

gabazko ametsa belala

ene canuta zaïtzula

da Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, Garzanti

 

 

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a un medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapevano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.
Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, la quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi”.

da Vita nuova, Dante Alighieri
 

la papera e il lupo

la papera e il lupo, storia di marta, burattini di marta e mila

 

c’era un giorno una papera che passeggiava seguita da

 

un LUPO GRANDE GIGANTE GROSSO E BUONO

 

che voleva solo dire ciao e giocare con lei con un gran sorriso.

ma la papera pensa che il lupo la voglia mangiare e allora fa un grosso grosso

PETO!

e il lupo

sviene ma non muore.

e poi si spiegano e giocano insieme.