Category Archives: stella polare

don Lorenzo Milani a Aldo Capitini

“Si sarebbe potuto correre generosamente da un capo all’altro d’Italia e d’Europa e forse anche in India a incontrare tutti coloro che son pensosi dei problemi dei poveri e degli oppressi e leggerci gli uni agli altri i nostri libri e scriver riviste profonde chiedendoci uni agli altri di collaborare e poi riuscire a promuovere provvedimenti legislativi che assicureranno domani la scuola ai poveri e durante tutto questo nostro correre per loro i poveri avrebbero intanto seguitato a zappare per noi”.

don Lorenzo Milani, A Aldo Capitini, 10 luglio 1960, in OO, vol.II., pp.1279-1280

Potersi informare e quindi schierarsi

“Sono abbonato al Giornale del Mattino. Sono abbonato anche a un giornale cattolico francese. Se non avessi avuto il secondo non mi sarei mai accorto sul primo di quel che fa la polizia francese. Non che la notizia non ci fosse, ma era riporta di rado e non vista e in forma dubitativa e senza particolari. Quanto basta per non accorgersene. Oppure accorgersene ma non dargli il suo posto. Accorgersene e non schierarsi.”

Frammento della lettera del 1959  di don Lorenzo Milani a Nicola Pistelli, l’assessore di Firenze vicino a Giorgio La Pira, direttore della rivista “Politica”. La lettera è riportata a p.149 de La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole, Vanessa Roghi, Laterza Editori (2023)

Subordinando la varietà a un unico nome, a un’unica dicitura generica, si sabota l’esistenza stessa di ogni singola persona

Walter Benjamin scrive in un racconto: “Sull’isola esistono, a quanto si dice, diciassette tipi di fichi. Bisognerebbe conoscerne il nome, osserva tra sé e sé l’uomo che cammina sotto il sole”(1). Ogni specie di fico è quindi unica, non interscambiabile. Tale singolarità impedisce di dare un solo nome a queste diciassette specie di fico. Il termine generico elimina l’individualità, la specificità dei nomi propri. Per via di tale singolarità ogni specie di fico ha un proprio nome, un nome proprio: merita di essere chiamata, invocata con questo nome. Come se il nome fosse un codice istantaneo capace di garantire l’accesso all’essenza, all’essere, come se solo tramite il nome proprio l’atto di chiamare e invocare raggiungesse la propria essenza. Subordinando la varietà a un unico nome, a un’unica dicitura generica, si saboterebbe l’esistenza stessa di ogni singola specie di fico. Si può invocare solo il singolare. Chiamare, invocare il nome proprio è la chiave per esperire in prima persona quella particolare specie di fico. Per l’esattezza, non è una questione di conoscenza, di evocazione. L’oggetto di un’esperienza autentica, cioè dell’invocazione, non è il generico bensì il singolare. Solo questo consente di imparare confrontandosi.

citato in Elogio della terra (Nottetempo, nella trad. di Simone Aglan-Buttazzi), da Todesarten. Philosophische Untersuchungen zum Tod, Byung-Chul Han, Wilhelm Fink Verlag, 1998

1) Walter Benjamin, “Sotto il sole”, in Opere Complete – Vol.5 – Scritti 1932-1933, a cura di E. Ganni, trad. it. di G. Schiavoni, Einaudi, 2003

E quindi, subordinando la varietà a un unico nome, a un’unica dicitura generica, si sabota l’esistenza stessa di ogni singola persona, perché la si priva di realtà.

Fede

La tieni tra le braccia.
Dormi, e la sogni,
e sai che è un sogno
ciò che di lei vedi.
E il cuore si squarcia,
trema di fede.
Soltanto una cosa
a lei proposta
ti dà garanzie
che ti vorrà sveglio.
Sa che è un sogno
ciò che di lei le dici,
ma che, sotto
il sogno, è lei
che tieni tra le braccia.

da Teoria dei corpi, Gabriel Ferrater, Occam Editore, traduzione di Amaranta Sbardella

Reversibilità del Tempo e terreno incolto (lungo l’Evre)

(…) Dal cielo coperto cade un torpore pesante; non si sente alcuna fonte gorgogliare, alcun uccello cantare. Non è tanto l’orma di un passato favoloso a far pesare sul vallone morto un’imprecisata minaccia, bensì un sentimento di disastro totale rispetto al consueto fluire della vita. Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo. Quando mi ci trovo fatico sempre a staccarmi da questi ingrati crepacci dell’Ovest, acquarellati senza allegria dal giallo smorto dei ginestroni; ho l’impressione che potrei camminare per tutto il giorno, tra le umide gravine di La Hague che in mezzo a colline gonfie e rotonde come seni precipitano verso il mare color di lillà, tra i burroni di brughiera della montagna limosina, pervasi dal tintinnio dell’acqua e dai sonagli delle mucche, chiazzati di rosa e di un giallo esplosivo come quei tappeti che in Oriente si lasciano ad asciugare, nella più assoluta solitudine, sui guadi rocciosi. In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti: il falsario di Ossian, qui, senza saperlo, si ritrova poeta. Là dove non c’è più né strada, né recinto, né diga, la mente si libera anche del morso e della briglia, che qui mai hanno potuto stringere il loro giogo sul pelo selvaggio: il sentimento della vera libertà, per me, non è mai interamente separabile da quello del terreno incolto.

da , di Julien Gracq, L’Orma Editore, trad. di Lorenzo Flabbi

L’amore è rotondo (o sferico)

(…) (Antonello da Messina) si limita a dotare la forma, soprattutto la forma umana di volumi ideali che tendono in sostanza alla sfera e al cilindro, senza naturalmente cadere in coincidenze prettamente geometriche. Mi domanderete ancora che bellezza ci sia nelle forme semplici e metriche? In tal caso ritornate alle idee sulla forma prospettica o sull’architettura, o sciogliete questo problema: Perché un uomo malauguratamente calvo carezza la sua lustre e globosa calvizie? Per riparare, vi dico seriamente, alla sventura di carattere pratico di mancare di un elemento utile come è la capigliatura, con piacere inizialmente estetico di sentire che la propria calvizie si avvia verso la forma nobile della sfera. Trovatemi un’altra spiegazione di questo fatto o dell’altro per cui ci piace accarezzare un braccio tornito per esempio.

p.116, Breve ma veridica storia della pittura italiana, Roberto Longhi, Abscondita, Aesthetica, Con uno scritto di Cesare Garboli, 2013

Quindi, i gomiti affaccendati di Agafia che innamorano Oblomov…
Ma prima un seno e il viso di neonata/o.

L’esperienza unitiva

Nel sufismo più elevato dell’Islam l’ “esperienza unitiva” non consiste, per l’ego finito, nella cancellazione della propria identità attraverso una sorta di riassorbimento dell’Ego infinito: è piuttosto l’infinito che passa nella stretta piena d’amore finito.

Iqbal a pag.258 de I mistici dell’Islam. Antologia del sufismo, a cura di Eva de Vitray-Meyerovitch, Guanda, Biblioteca della Fenice, 1991, I edizione, trad.di Stefano Tubino