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Il Ti amo di Xuela come il salto di Katchen di Kleist

Me ne stavo sotto la veranda, sprofondata nei miei pensieri, e mi godevo pienamente la disperazione che provavo per me stessa. Avevo un vestito indosso; quella mattina mi ero pettinata i capelli; quella mattina mi ero lavata. Non guardavo niente in particolare quando vidi la bocca. Stava parlando con qualcun altro, ma guardava me. Il qualcun altro con cui stava parlando era una donna. In quel momento la sua bocca non era come un’isola che riposa in mezzo al mare, ma piuttosto come un pezzetto di terra visto da una grande altezza e messo in movimento da una forza non facilmente visibile.

Quando si accorse che lo guardavo aprì ancor più la bocca, e quello dev’essere stato il sorriso. Vidi allora che c’era un grande spazio vuoto fra i due denti davanti, probabilmente voleva dire che non ci si doveva fidare di lui, ma non me ne curai. Avevo il vestito umido, le scarpe bagnate, i capelli bagnai, la pelle gelida, tutt’intorno a me c’era gente che rabbrividiva, coi piedi in piccole pozze d’acqua e di fango, ma io cominciai a sudare per uno sforzo che stavo facendo senza rendermene conto; cominciai a sudare perché sentivo un gran caldo, e cominciai a sudare perché mi sentivo felice. Allora portavo i capelli divisi in due trecce, e le loro estremità posavano appena sotto le clavicole; tutta l’acqua che mi cadeva sui capelli si raccoglieva nelle mie trecce e vi scorreva come fossero due grondaie, e quindi mi colava attraverso il vestito appena sotto le clavicole e continuava a scorrermi giù per il petto, fermandosi soltanto dove le punte dei seni toccavano la stoffa, e rivelando i miei capezzoli con l’evidenza di una stampa ancora fresca. Lui mi guardava e parlava con un’altra, e la sua bocca si allargava e si restringeva, piccola e grande, e io volevo mi notasse, ma c’era tanto rumore: tutta la gente che sostava sotto la veranda per ripararsi dalla forte pioggia aveva qualche cosa da dire, non a proposito del tempo (questo ormai non richiedeva più nessun commento) ma qualcosa sulla propria vita, molto probabilmente sulle proprie delusioni, perché la gioia ha vita così breve che non c’è abbastanza tempo per soffermarsi sulla sua comparsa. Il rumore, che era cominciato come un brusio, si era trasformato in un alto clamore, e quell’alto clamore aveva un gusto sgradevole di metallo e di aceto, ma io sapevo che la sua bocca avrebbe potuto togliermi quel gusto, se solo fossi riuscita ad arrivarci; così gridai il mio nome, e fui certa che mi aveva sentito immediatamente, ma non smetteva di parlare con la donna, e allora dovetti gridare forte il mio nome diverse volte finché smise, e ormai il mio nome era come una catena che lo stringeva, così come la vista della sua bocca era una catena che stringeva me. E quando i nostri occhi si incontrarono ci mettemmo a ridere, perché eravamo felici, ma quella cosa faceva anche paura, perché con quell’occhiata ci eravamo domandati tutti: chi avrebbe tradito chi, chi era la preda e chi il cacciatore, chi avrebbe dato e chi avrebbe preso, che cosa avrei fatto. E quando i nostri occhi si incontrarono, e allo stesso tempo ci mettemmo a ridere, io dissi “Ti amo. Ti amo”, e lui disse “Lo so”. Non lo disse per vanità, non lo disse per presunzione, lo disse solo perché era vero.

Da Autobiografia di mia madre, Jamaica Kincaid, Adelphi, Fabula, 1997, trad. di David Mezzapa

La scrittrice dedica il libro a Derek Walcott.

L’erotismo sembra essere una forma di conoscenza che nel momento stesso che scopra la realtà, la distrugge. In altri termini si può conoscere il reale per mezzo dell’erotismo; ma al prezzo della distruzione completa e irreparabile del reale medesimo. In questo senso l’esperienza erotica si apparenta a quella mistica: ambedue sono senza ritorni, i ponti sono bruciati, il mondo reale è perduto per sempre. Altro carattere comune all’esperienza mistica e a quella erotica è che esse hanno bisogno dell’eccesso; la misura, che è propria al conoscere scientifico, è sconosciuta tanto a l’una che all’altra. Quest’eccesso, naturalmente, porta alla morte. Ma nell’esperienza mistica sarà la morte del soggetto; in quella erotica, la morte dell’altro. Questo spiega forse il carattere apparentemente suicida dell’esperienza mistica e omicida dell’esperienza erotica.

dalla Prefazione di Alberto Moravia alla Storia dell’occhio di Georges Bataille, Gremese Editore, 1980

Deadcrush, Alt-J

l’angelo ribelle (osvaldo licini – wallace stevens – harold bloom)

Poiché ogni poeta comincia (per quanto “inconsciamente”) con il ribellarsi contro la coscienza della necessità della morte assai più recisamente di quanto non facciano gli altri uomini e donne. Il giovane militante della poesia, o efèbo, come l’avrebbero chiamato gli ateniesi, è già l’uomo antinaturale o antitetico, e fin dai suoi inizi come poeta egli va alla ricerca di un oggetto impossibile, così come prima di lui aveva fatto il suo precursore.

(…)

Il poeta che sta in ogni lettore non esperisce la stessa separatezza da ciò che legge che invece sente necessariamente il critico che sta in ogni lettore. Ciò che dà piacere al critico che sta nel lettore può dare invece angoscia al poeta che sta in lui, un’angoscia che abbiamo imparato a trascurare, in quanto lettori, a nostro rischio e pericolo. Questa angoscia, questa modalità di melanconia, è l’angoscia dell’influenza, l’oscuro, demonico terreno in cui stiamo per addentrarci.
Com’è che gli uomini diventano poeti, o per usare una fraseologia più antiquata, com’è che s’incarna il temperamento poetico? Quando un potenziale poeta scopre inizialmente (o viene scoperto dalla) dialettica dell’influenza, quando scopre inizialmente  che la poesia è insieme esterna e interna a lui, egli intraprende un processo che terminerà soltanto quando non avrà più poesia dentro di sé, molto dopo aver perduto il potere (o il desiderio) di scoprirla ancora fuori di sé.

(…)

L’influenza per noi è motivo di angoscia quanto lo era per Johnson e Hume, ma il pathos aumenta in questa storia a mano a mano che ne diminuisce la dignità.

(…)

L’Influenza Poetica – quando interessa due autentici, forti poeti – procede sempre attraverso il travisamento di un poeta precedente, attraverso un atto di correzione creativa che è di fatto e necessariamente un’interpretazione sbagliata. La storia della fruttuosa influenza poetica, che costituisce la principale tradizione della poesia occidentale dal Rinascimento a oggi, è una storia di angosce e di caricature autoliberatorie, di distorisioni, di revisionismi perversi e ostinati senza i quali la poesia moderna in quanto tale non potrebbe esistere.

(…)

La poesia può realizzare o no la propria salvezza in un uomo, ma essa si concede solo a quelli che ne hanno un estremo bisogno immaginativo, anche se può allora arrivare portando terrore. E tale bisogno emerge dapprima attraverso l’esperienza che l’efèbo o giovane poeta fa di un altro poeta, dell’Altro la cui pericolosa grandezza è accresciuta dal fatto che l’efèbo lo vede come uno splendore bruciante a fronte di una oscurità limitante, in qualche modo come il Bardo dell’Esperienza di Blake vede la tigre, o Giobbe vede il Leviatano e Behemot o il capitano Achab vede la Balena Bianca o Ezechiele il Cherubino Protettore, che sono tutte visioni di una Creazione diventata malvagia e inceppante, di uno splendore che minaccia il Cercatore Prometeico che ogni efèbo si avvia a diventare.

da L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Harold Bloom, Abscondita, trad.di Mario Diacono

una quercia sana

disegno di Luca Cambiaso

Ma io dico la verità: leggendo la Pentesilea di Kleist ho dimenticato l’epistolario di Kleist. La tragedia m’è bastata completamente per se stessa. La qual cosa può giudicare un mio semplicismo, ma può anche indicare un più puro interesse artistico. La chiarezza solare di caratteri e di immagini che c’è in Pentesilea, alcuni se la sono intorbidita perché non hanno avuto il coraggio, per una più semplice e sana comprensione artistica, di turarsi gli orecchi dinanzi a quella sirena che è la vita di Kleist. A forza di psicologizzare si sono fatti l’enigma. Lo svolgimento del dramma ha in sé tutti i motivi necessari perché andar a cercare per ciò  nella storia dell’individuo Kleist? Da questa storia appunto assillati storditi, è allora anche lo sbranare di Pentesilea ci può sorprendere come chi sa qual mistero patologico della natura kleistiana, che sa quale terribilità realistica. Ma invece pensate: Pentesilea è una natura di donna nella sua verginità originale, è una Urkraft, essere d’una passionalità elementare, non passato non raffinato per alcuna educazione moderna, d’un egoismo non tormentato da alcun concetto etico-sociale. È vero che la sua anima “non si lascia calcolare”,ma non per chi sa quale complicazione di sensibilità vibratili decadenti, ma semplicemente per la intensità e la direzione momentanee della sua energia vitale. Pentesilea è una “quercia sana”.

da Kleist e la Pentesilea, di Carlo Stuparich (raccolto in La Famiglia Stuparich. Saggi critici, a cura di Vittorio Frosini, Del Bianco Editore

appunti per Trentasei e dieci vedute n.25

the woman and the god fritz henle 1938

(…)

non più una questione di Mimesis, ma di divenire: Achab non imita la balena, diventa Moby Dick, transita nella zona di prossimità in cui non può più distinguersi da Moby Dick, e colpendola, colpisce se stesso.

(…)

Qual è il gesto di Achab, quando scaglia le sue espressioni di fuoco e di follia? Egli rompe un patto; trasgredisce la legge dei balenieri che vuole che si dia la caccia ad ogni balena sana che si incontri, senza scegliere. Lui, invece, sceglie, perseguendo la sua identificazione con Moby Dick, gettato nel suo divenire indiscernibile, mettendo il suo equipaggio in pericolo di morte. Ed è questa mostruosa preferenza che il luogotenente Starbuck gli rimprovera amaramente, considerando addirittura la possibilità di uccidere il capitano traditore. Scegliere è il peccato prometeico per eccellenza. Era il caso della Pentesilea di Kleist, Achab-donna che aveva scelto il suo nemico, come suo doppio indiscernibile, in Achille, sfidando la legge delle Amazzoni che proibiva di preferire un nemico. La sacerdotessa e le Amazzoni vedono in ciò un tradimento che la follia sanziona attraverso una identificazione cannibalica.

Gilles Deleuze in Bartleby o la formula della creazione, Gilles Deleuze e Giorgio Agamben, Quodlibet, trad.di Stefano Verdicchio

i migranti

Il mio sentirmi emarginata significava anche non identificarmi per forza o per necessità, non lasciare che altri disegnassero per me una qualche identità. Quella che mi apparteneva era un’identità in movimento, suscettibile di cambiamento (…)

da  Le ali dipinte. Appartenenze e sessualità, Simona Musolino, Sensibili alle Foglie

una bellissima coppia discorde

Cara Bianca,
(…) che cosa pretendi? che ci coccoliamo come due conigli? Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente. Ciascuno ha i suoi sistemi – noi siamo una bellissima coppia discorde, e il sesso – che dopotutto esiste- si sfoga come può.

da Una bellissima coppia discorde – Il carteggio Cesare Pavese e Bianca Garufi (1945-1950) a cura di Mariarosa Masoero, Leo S.Olschki  – Firenze

frutti vermigli

Fu la mia giovinezza un uragano
E una tenebra, rotta da brillanti
Soli. Il tuono e la pioggia han fatto scempio
Tal che del mio giardino
Pochi ritrovo ormai frutti vermigli.

Charles Baudelaire

 

Ulisse:”Bene. La troviamo, l’eroina di Scizia, Achille e io, immota in assetto da guerra, in testa alle sue vergini, succinta: il cimeiero le sovrasta il capo, e muovendo le sue nappe di porpora e d’oro, il cavallo pesta la terra sotto di lei. E pensosa, e per un istante, guarda priva d’ogni espressione la nostra schiera, come se noi fossimo lì, scolpiti nella pietra davanti a lei; ecco, questa palma della mia mano, te l’assicuro, è molto più espressiva del suo volto: finché, adesso, il suo sguardo cade sul Pelide: di colpo, un rossore, giù giù fino al collo le trascolora il volto, come se intorno a lei, di colpo, il mondo divampasse in chiare lingue di fiamma. Si butta, con un gesto improvviso – e uno sguardo truce getta su di lui – giù dal cavallo a terra, ci domanda, affidando le redini a una serva, che cosa ci porti lì da lei, così solennemente. E io: che noi Argivi ci rallegriamo di imbatterci in una nemica del popolo dei Dardani; quale odio divampa, da tempo, contro i figli di Priamo, enl cuore dei Greci; quanto utile, a lei come a noi, sia un’alleanza; e il resto, che il momento mi suggerisce. Ma con stupore, nel flusso del discorso, mi accorgo che non mi sente. Si volta di colpo con un’espressione di sbalordimento, come una fanciulla di sedici anni che torni dai giochi olimpici, verso un’amica che le sta al fianco, e grida: Protoe, un uomo simile mia madre Otrera non l’ha incontrato mai! L’amica, colpita da queste parole, tace; Achille e io ci guardiamo sorridenti. lei, lei, di nuovo indugia, con uno sguardo estasiato, sulla figura smagliante dell’Egineta: finché l’altra, timorosa, le si avvicina e le ricorda che mi deve ancora una risposta. Allora, tingendo la corazza, giù fino alla cintola, col rosso delle guance – fosse furore, fosse invece vergogna – confusa e fiera e scatenata insieme: che è Pentesilea, dice rivolta a me, regina delle Amazzoni, e che dalla faretra verrà la sua risposta!”

da Pentesilea, Heinrich von Kleist, Einaudi, trad. Enrico Filippini