Category Archives: paternità

o della casa come tana

Specchio della mente del suo proprietario, la casa ne sarà anche il corpo: un corpo adeso e catafratto come un carapace, formidabile baluardo ma anche strumento di tortura quale esempligratia la Vergine di Norimberga.
Maggiore la coesione, anzi l’identificazione, fra l’uomo e la casa, maggiore l’intolleranza per ogni intromissione mondana, automaticamente percepita come violenta ed incivile aggressione: laonde, nel vivo, nel moribondo e nel morto, la nota ostilità nei confronti degli intrusi e dei curiosi: ostilità destinata a scurirsi in odio feroce qualora gli intrusi non passino a volo come uccelli migranti, ma accampino ragioni per accampare se stessi nelle adiacenze della casa. Già la mera nozione della loro esistenza è cagione di tumulto quando gli adiacenti diano memento acustico di sé, della loro inopportuna e inutile vita. Donde più scarlatti sogni di sangue nella mente dell’interessato, più frequenti affezioni somatiche quali possono essere un travaso di bile o un’ulcera perforante: e surtutto l’insonnia, un’insonnia così esatta e precisa, date le concause che insistono nello schema generale, da diventare assolutamente connaturale a colui che sarà dunque un insonne a prescindere, sia o non sia l’ora del sonno, ottenga o non ottenga da perigliosi farmaci e da un generoso liquore il breve solacio di una spudorata parvenza di sonno.
Più dovrà difendersi dal rumore mondano, più l’uomo-talpa dovrà rintanarsi: più si rintanerà, più pretenderà la quiete che gli è dovuta: più questa ingenua e commovente equazione verrà smentita, più a fondo dovrà interrarsi sbarrando anditi porte finestre passaggi, rinunciando alla luce e intasando i propri padiglioni auricolari di ogni combinazione di cera, gommapiuma e fibre disvarie. Finché, un giorno, egli vedrà la soluzione, e da quel giorno, a poco a poco, vi si avvicinerà con sistematica volizione: morire, sottrarsi, convertire l’annullamento del mondo nell’annullamento di sé. Immaginare millenni e millenni di solitudine perfetta e di silenzio assoluto, allora, sarà l’unico balsamo alla sua vita riarsa: all’ultimo segmento, della sua vita riarsa.

da Fantasmagonia, Michele Mari, Einaudi

 

TETTO

Ebbene, no! Attenderò tranquillo,
piantato sotto il tetto,
che mi piombi qualche tegola,
per tuo ricordo.

Falciata ho l’erba e lecco
la pietra – sitibondo
come la Colica secca
del Miserere!

Sfonderò – Dio mi danni! –
il tuo timpano o la pelle d’asino
del mio buon tamburo.

Nei tuoi recessi, o Finestra
calma e pura, giace forse

un vecchio signore ignorante e sordo!

da Poesie, Tristan Corbière, Dall’Oglio, a cura di Clemente Fusero

l’angelo ribelle (osvaldo licini – wallace stevens – harold bloom)

Poiché ogni poeta comincia (per quanto “inconsciamente”) con il ribellarsi contro la coscienza della necessità della morte assai più recisamente di quanto non facciano gli altri uomini e donne. Il giovane militante della poesia, o efèbo, come l’avrebbero chiamato gli ateniesi, è già l’uomo antinaturale o antitetico, e fin dai suoi inizi come poeta egli va alla ricerca di un oggetto impossibile, così come prima di lui aveva fatto il suo precursore.

(…)

Il poeta che sta in ogni lettore non esperisce la stessa separatezza da ciò che legge che invece sente necessariamente il critico che sta in ogni lettore. Ciò che dà piacere al critico che sta nel lettore può dare invece angoscia al poeta che sta in lui, un’angoscia che abbiamo imparato a trascurare, in quanto lettori, a nostro rischio e pericolo. Questa angoscia, questa modalità di melanconia, è l’angoscia dell’influenza, l’oscuro, demonico terreno in cui stiamo per addentrarci.
Com’è che gli uomini diventano poeti, o per usare una fraseologia più antiquata, com’è che s’incarna il temperamento poetico? Quando un potenziale poeta scopre inizialmente (o viene scoperto dalla) dialettica dell’influenza, quando scopre inizialmente  che la poesia è insieme esterna e interna a lui, egli intraprende un processo che terminerà soltanto quando non avrà più poesia dentro di sé, molto dopo aver perduto il potere (o il desiderio) di scoprirla ancora fuori di sé.

(…)

L’influenza per noi è motivo di angoscia quanto lo era per Johnson e Hume, ma il pathos aumenta in questa storia a mano a mano che ne diminuisce la dignità.

(…)

L’Influenza Poetica – quando interessa due autentici, forti poeti – procede sempre attraverso il travisamento di un poeta precedente, attraverso un atto di correzione creativa che è di fatto e necessariamente un’interpretazione sbagliata. La storia della fruttuosa influenza poetica, che costituisce la principale tradizione della poesia occidentale dal Rinascimento a oggi, è una storia di angosce e di caricature autoliberatorie, di distorisioni, di revisionismi perversi e ostinati senza i quali la poesia moderna in quanto tale non potrebbe esistere.

(…)

La poesia può realizzare o no la propria salvezza in un uomo, ma essa si concede solo a quelli che ne hanno un estremo bisogno immaginativo, anche se può allora arrivare portando terrore. E tale bisogno emerge dapprima attraverso l’esperienza che l’efèbo o giovane poeta fa di un altro poeta, dell’Altro la cui pericolosa grandezza è accresciuta dal fatto che l’efèbo lo vede come uno splendore bruciante a fronte di una oscurità limitante, in qualche modo come il Bardo dell’Esperienza di Blake vede la tigre, o Giobbe vede il Leviatano e Behemot o il capitano Achab vede la Balena Bianca o Ezechiele il Cherubino Protettore, che sono tutte visioni di una Creazione diventata malvagia e inceppante, di uno splendore che minaccia il Cercatore Prometeico che ogni efèbo si avvia a diventare.

da L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Harold Bloom, Abscondita, trad.di Mario Diacono

al fidejussore

antonio allegri da correggio autoritratto

Fu molto d’animo timido, e con incommodità di se stesso in continove fatiche esercitò l’arte, per la famiglia che lo aggravava: et ancora che e’ fusse tirato da una bontà naturale, si affliggeva nientedimanco più del dovere, nel portare i pesi di quelle passioni, che ordinariamente opprimono gli uomini. Era nell’arte molto maninconico e suggetto alle fatiche di quella e grandissimo ritrovatore di qualsivoglia difficultà delle cose, come ne fanno fede nel Duomo di Parma una moltitudine grandissima di figure, lavorate in fresco e ben finite, che sono locate nella tribuna grande di detta chiesa nelle quali scorta le vedute al di sotto in su con stupendissima meraviglia. Et egli fu il primo che in Lombardia cominciasse cose della maniera moderna.

da Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri. Nell’edizione per i tipi di Lorenzo Torrentino, Firenze 1550, Giorgio Vasari

ogni scarrafona è bella a papà suo…

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Quale oscuro vapore si vede uscir dalle nubi,
quando per la calura si leva bufera orrenda,
tale Ares di bronzo a Diomede Tidide
parve, al cielo vasto con le nubi salendo.
Raggiunse velocemente la sede dei numi, l’Olimpo scosceso,
e sedette vicino a Zeus Cronide, col cuore angosciato,
mostrando il sangue immortale che dalla ferita colava;
e disse lamentoso parole fuggenti:
“Padre Zeus, non t’adiri a veder fatti così atroci?
di continuo noi numi subiamo mali orrendi,
gli uni a causa degli altri, per compiacere i mortali.
Ma tutti l’abbiamo con te, perché hai generato una pazza
funesta, che medita sempre empietà.
Perché tutti gli altri, quanti son numi in Olimpo,
ubbidiscono a te, ti teme ognuno di noi;
ma questa non biasimi mai, né a parole né a cenni;
lasci che faccia, perché l’hai generata tu solo tal figlia funesta (…)”

Iliade, Libro V, vv. 864-881, Omero, Einaudi, versione di Rosa Calzecchi Onesti

secondino fammi un favore, porta l’inchiostro con carta e penna

Il Moro della Vedra

Il primo furto da me compiuto
Lo feci in casa di una signora
Io le puntai il coltello alla gola
E di quattrini in quantità.

E quattrocento marenghi d’oro
Ma mescolati con quej d’argento
Io me ne andai felice e contento
All’osteria a mangiar e ber.

Appena giunta la mezzanotte
E una pattuglia di polizia
Ha circondato quell’osteria
E al numer dù lor mi han portà.

E a tradirmi fu un amico caro
Ma che di nome si chiamava Nero
Io lo credevo un amico sincero
E invece lù così el me ha tradì.

Oh Nero, Nero ma dove sei
O traditore della vita mia
Sei sempre stato una falsa spia
Io te lo giuro me la pagherai.

Oh sì vendetta, sì fu fatta
Con quattro colpi, ma di pugnale
Io t’ ho mandato all’ospedale
Ti giuro che non uscirai mai più.

O secondino fammi un favore
Porta l’inchiostro con carta e penna
Che voglio scrivere alla mia bella
Che in galera mi venga a trovar.

da I testi delle canzoni popolari milanesi, La malahttp://www.canzon.milan.it

12 marzo 2004

Marta, di Marilena Pellegrini

Mai potrò dimenticare la sera di quel mio giorno, con tutto ciò che ancora vidi nella mia ebbrezza. Fu per me ciò che di più bello può dare la primavera della terra e il cielo e la sua luce. Come nella gloria dei santi, ella pervase il rosso della sera, e le esili, piccole nubi dorate nell’etere sorridevano dall’alto, come geni celesti che si rallegrassero della loro sorella in terra, di come si muoveva tra di noi in tutta la sua magnificenza degli spiriti, eppur benevola verso tutto ciò che l’attorniava.

da Frammento di Iperione – Zante, Friedrich Hoelderlin, Il Melangolo, a cura di Maria Teresa Bizzarri e Carlo Angelino