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udii poi campane estesissime

Campanile Santa Croce di Moneglia (GE)

In quel tempo, io tornai più volte, in sogno, a Toledo, e non la riconoscevo. Mi ricordo che ero partita nel pomeriggio, sola, di nascosto al mio amico, e dopo cinquemila anni giunta qui, e Toledo non era più. Solo un mare di cenere, e la Collina, e un angelo grandissimo davanti a poche pietre (resto della Fortezza), che vedendomi disse:
“Non piangere. Il sole non è più qui”.
Discesi in centro e, come dissi, la città più non era, ma una radura sparsa di pietre, grandissima, con alcuni alberi anneriti, e dagli alberi pendevano frutti di veleno. Vi erano uccelli che volavano stancamente qua e là, e riconobbi nelle loro facce(perché avevano faccine bellissime) fisionomie nobili e note. Essi beccavano, beccavano nella rena, senza nulla trovare.
Udii poi campane estesissime, e mi svegliai.
Ero nella mia casa marine, tutte le porte mancavano, dovunque era mesta luce, e né Apa e nessun altro degli abitanti esisteva più.

Dio, quanti giorni restai ad attendere passi cari.
Finché vennero, preceduti da una lettera (d’amore), e di nuovo mi ritrovai nella nostra casa della Francia, e riudii i lamenti del mare.

Quando tutti i nostri affannati racconti di gioia, le voci del ritrovamento, si furono quietati, egli mi disse:
“Vedesti cosa capita, cuore, a ritornare sulla via precedente?”
“Sì, vidi. Ma come farò, caro, a vivere qui, sapendo che essi furono?”
“Eppure si potrà” con pietà egli disse.
E, e piegato sulla mia gamba, tolse dal foro una delle navi di ferro che continuamente apparivano, e in un muto furore la gettò via:
“Non finiranno mai, mai di apparire!” così disse.
In quanto a me, guardavo la mia gamba con terrore.

Eppure guarì, dopo un anno era tornata completamente liscia, e in luogo delle navi vi era un prato verdissimo, dove Reyn A. riposava.
Inesauribile era il nostro tempo, ora che io ero guarita e felice.

da Il porto di Toledo, Anna Maria Ortese, Rizzoli

Sagrato della Chiesa Santa Croce di Moneglia

al mio approdo, moneglia

Oltre, sopra un fitto manto del verde più profondo, una catena d’alti colli e scabri, spiccati in basso da un lungo e sottile nuvolario e come vaganti in alto nel terso del mattino, catena che s’incurva e che s’impenna, accidentata e vasta, verso l’occaso, in una bellissima montagna che di balza in balza precipita nel mare.
E più che avanza nel mezzo le braccia del gran golfo la nave mia e in dentro il calmo lago del suo porto, ecco che mi giungono i romori, bronzei e murmuranti di campane, spacconi di bombarde pei legni che vi salpano, e a mano a mano che più prossima si fa alla banchina, tra la boscaglia d’alberi e di vele, ove si scorge il brulicare d’òmini, animali, carrette e mercanzie, s’odon urla, frastuoni, tonfi, stridori e strepitii.
E a mano a mano io mi trovai a passare dal sogno e dall’incanto al risveglio più lucido, alla visione più netta delle cose, ne la luce di giugno più vere e crude, ch’invade l’animo mio d’incertezza e d’ansia pel futuro, finito questo tempo sospeso e irreale del viaggio.

da Retablo, Vincenzo Consolo, Sellerio

 

 

angelus novus

Angelus Novus, Paul Klee

La mia ala è pronta  al volo,

ritorno volentieri indietro,

poiché restassi pur tempo vitale,

avrei poca fortuna.

Gerhard Scholem

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

da Angelus Novus. Saggi e frammenti, Walter Benjamin, Einaudi, a cura di Renato Solmi

che ci dice il mare?

Durante il mio ultimo viaggio in Portogallo, nelle ore più calde del giorno, quando l’indolenza mi vinceva il corpo e l’anima, sdraiato sul letto io mi divertivo a leggere lentamente lord Byron. Di quando in quando lasciavo il libro per…pensare? no! per fabbricare castelli in aria.
A momenti mi decidevo ad affacciarmi al balcone per contemplare un momento il mare che si stendeva indolentemente sulla spiaggia. Ed il canterellare dell’Oceano, mescolato agli echi di lord Byron, che tanto l’amò, m’aiutava a perseguire cose senza forma né sostanza. Il mio spirito si trovava, ecco, in una disposizione poetica, creatrice, quella che l’indolenza genera. Perché il poeta è prima di tutto un ozioso, un indolente, e dico ciò in onore del poeta.
Farò un elogio all’ozio, io che sono stimato per un uomo lavoratore e attivo? Sì, farò, almeno in parte, l’elogio all’ozio: dirò che l’ozioso è uno degli uomini più attivi.
Che ci dice il mare? Quel che vogliamo che ci dica. 

da Soliloqui e conversazioni, Miguel De Unamuno, Rinascimento del Libro-Firenze, 1939

far off-shore

Look, the raft, a signal flying,
Thin-a shread;
None upon the lashed spars lying,
Quick or dead.
Cries the sea-fowl, hovering over,
“Crew, the crew?”
And the billow, reckless, rover,
Sweeps anew!

Herman Melville

 

Lontano in alto mare

Guarda, la zattera, un segnale svolazzante,
esile, uno straccio.
Nessuno giace sulle tavole legate,
sveglio o morto.
Urla l’uccello marino planandoci sopra:
“E la ciurma, la ciurma?”
E le onde rabbiose e indifferenti
la spazzano di nuovo.

“Pezzi di mare. Poesie” di Herman Melville, Acquaviva, trad.di Giuseppe D’Ambrosio Angelillo

naviganti

Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore 
.

Umberto Saba

gli amici di julian barbour

 

Il rifiuto della “geometria piana”, di cui Proust parla, è anche rifiuto del moto uniforme. Questo nemico del tempo degli orologi, per unità successive, con moto discontinuo. L’effetto di continuo è ottenuto mediante scatti tendenzialmente isocroni, ognuno dei quali è il periodo. Un periodo mai diretto e paratattico ma avvolto su se stesso, elicoidale.

 

(…)

 

È come se guardassimo entro un grande orologio: la tensione della molla maggiore ingrana successive ruote dentate, ognuna con una frazione di ritardo sull’altra; e, quando potresti credere che non ce la faccia più, ecco lo spostamento della lancetta è avvenuto tutt’a un tratto e tutto è avanzato di una unità. Subentra allora un attimo di silenzio, prima che ricominci l’ostinato sforzo di sommuovere ancora una volta un congegno denso di parole. La tensione, o energia, di ogni singolo periodo è, come si è detto, di natura raziocinante; obbedisce ad una meccanica classica, aborre dall’imprecisione non dal vuoto, ogni incertezza rinserra nel suo decorso e ribatte nelle sue clausole. Ma dove invece Proust svela di essere davvero al di là di ogni meccanica classica è nella qualità fluida instabile della forza di coesione che lega periodo a periodo. Questi non si compenetrano: si giustappongono.

 

(…)

 

La vittoria sul tempo non è ottenuta solo col recupero di quello “perduto” o col bronzo dell’opera ma proprio, per antifrasi, svolgendo permutazioni che nel tempo si distruggono a vicenda, che celebrano tremende ma infine futili vittorie ed evocano per converso una identità raccolta e intera, un presente istantaneo ed eterno.

da Verifica dei poteri, Franco Fortini, Garzanti

Lo Scorrevole, Vettor Pisani