Category Archives: macchina del tempo

del perché ci si deve sedere sul bordo del letto

Leo Ferré racconta:

“Una porta si muoveva, un caro Padre scivolava attraverso uno spiraglio che restringeva il più possibile quasi temesse per le nostre facce l’alito pungente delle latrine. Camminava sulle piastrelle come Mosè sulle acque. Una silfide! I Cari Padri! Avevano tutti le suole di gomma, non di para, la para era stata inventata da poco e faceva troppo profano. Erano il silenzio che cammina e ci arrivavano addosso con la schicchera sulla punta delle dita pronta a picchiar duro.
– ancora non dormite, bambino mio! – diceva a me che ero nel grembo della notte, nel grembo fisiologico, come al bordello.
E mi palpava un po’ di grasso che avevo sulla guancia. Per lui era un ventre, un ventre liscio come quello delle fanciulle più tenere. Quella mano infarcita di sesso a fior di pelle si eccitava sulla mia faccia e si inumidiva pian piano. Gli usciva da tutti i pori della pelle, parola mia, il suo sporco voto di castità! Avevo voglia di mordergliene un pezzo. Quale piacere avrei così operato in quella carne malata? Per fortuna l’innocenza mi assolve da quel che mi appare oggi, da uomo, una goffaggine o un’acquiescenza. Sotto la mano di quel cercatore ero in vacazione semi-cosciente. Facevo come se non dormivo ma giacevo inerte, più di un morto, e così lui credeva di toccare una pelle senza vita, molle, ed ero salvo-a parte quel contatto, beninteso. Evitavo insomma che andasse oltre, alla scoperta di piaceri più redditizi. Se mi fossi mosso, mi avrebbe fatto secco. Non mi sono mai mosso. Quel palpatore si è accontentato per un po’ della mia faccia facile e cedevole, una guancetta comoda ma insignificante. La psicologia della violenza carnale non funziona senza i rifiuti, le grida, lo spavento: è questo ad armare la parola e il moto del sesso. Il violentatore pensa suo malgrado a una complicità latente del suo “interlocutore”. I rifiuti, le grida, lo spavento, non ne conosce mai il senso preciso, riconduce tutto alla propria follia e crede perentoriamente al piacere della vittima. Sapevo fin dalla più tenera infanzia che neppure i cani più feroci se la prendono con i corpi inerti. Il mio cane feroce si stancò e io, ancora inerte, accarezzavo la Notte e mi ripulivo la faccia.”

Luigi Ramella legge e risponde:

“Definire violentatore quel pretino mi sembra esagerato: più che la psicologia della violenza carnale, credo si tratti della psicologia della vita. Se il piccolo Benoit Misère si fosse seduto improvvisamente sul letto fissando negli occhi il Caro padre, custode del suo tempo e del suo tempio, questi avrebbe sicuramente cessato le molestie, spaventato dallo sguardo cosciente, dal rifiuto, senza necessità di giungere al grido.”

Carmela Aiace Moscatiello commenta:

“Forse il signor Luigi Ramella ha ragione: la ragione dell’esperienza del vile. Un adulto riconosce nel bambino il rattenuto respiro del finto sonno e, nel ranicchiarsi teso, la sottrazione di superficie di corpo, ma preferisce attribuire l’evidente disagio a complicità e accettazione.”

 

San Giorgio sconfigge il drago ipertiroideo

prefigurazione della fine di LR, dopo qualche anno di Parkinson

Il tempo di Lindbergh

Percani trasformò l’impresa sportiva di quel trasvolatore solitario dell’Atlantico in un mal di vivere con cui devo fare i conti ogni volta che il sole vira a occidente, quando tutto arancione, lo vedo alterare la bella geometria del crepuscolo come un’ordinata che abbandoni l’ascissa.
“Fuggiva dal sole e entrava nella notte molto più rapidamente di noi, la percorreva. L’orologio sul quadro di bordo non parlava più americano, era stellare e i battiti del suo cuore d’acciaio diventavano negativi…”, così Percani soliloquiava accecato dalla lente. è chiaro, non era più lì. Io lo ascoltavo incantanto come si ascolta un mago…”Le navi risalgono il sole a passo di formica, vanno troppo piano, non ci si accorge di niente. Con gli uccelli a eliche va già molto meglio…Un giorno, a trecentomila chilometri al secondo, risaliremo indietro nel tempo. Vedremo Luigi XIV grattarsi l’orecchio, Villon ammazzare Sermoise, le piante liberarsi della tunica fossile e riprendere la loro statura, ridiventare seme, rinascere ancora e all’inverso. Si dirà: ho meno 20 anni! e in nastri vecchi della macchina per scrivere ringiovaniranno fino a non essere più. Non si dirà:è morto, ma è nato! è rientrato in sua madre, in suo padre e così via, fino a ritornare mollusco. I ricordi saranno il domani, si predirà il passato senza mai sbagliare. Gli ospedali vedranno uscire uomini sani, i mattatoi sforneranno pecore in serie come coperte di lana, vitelli con la testa non più in pinzimonio e scarpine sulla cute, maiali con il cordone ombelicale rovesciato. Non si dirà più “dopo guerra”ma “ante-guerra”. Bisognerà rivedere gli avverbi di tempo nei libri di grammatica e in tutte le coniugazioni. Diventerà difficile scrivere al passato e il condizionale avrà una brutta cera. La contraddizione non esisterà più, la sintesi neppure a parlarne. Le cose, ripresa la loro qualità essenziale, fuggiranno all’indietro nella notte, munite di passaporto personale. La chimica sarà mutilata e non potrà più combinare. La Gioconda rientrerà nel pugno di Vinci e Chartres finirà nel nulla. La bellezza si ridurrà alla pura espressione di se stessa: il volere nella mano di Dio”.

da Mi racconto il mare…, Leo Ferré, Lindau 2003, trad.di Giuseppe Gennari

giardino privato

El ben, cossa xe el ben?
Una pianta che cressi
a l’ombra, in un momento,
seminada dal vento:

foie picole picole
vien fora una per una
come che gira la luna,
po fiori, tanti fiori,
mai dei stessi colori,
un vero carneval.
E spini, che fa mal.

Una pianta che cressi
senza acqua. No ocori
che una vose, ogni tanto,
o un modo de guardar,

e a volte nanca questo,
che per viver ghe basta
ricordar.

da Le rime per Trieste 1970-1995, Fulvio Muiesan, Edizioni Italo Svevo

l’eternità attraverso gli astri

L’universo intero è formato da sistemi stellari. La natura per crearli, non dispone che di cento corpi semplici. Malgrado il prodigioso profitto che sa trarre da queste risorse, e malgrado l’incalcolabile numero di combinazioni possibili della sua fecondità, il risultato è necessariamente un numero finito, come quello degli elementi stessi, e per popolare lo spazio la natura deve ripetere all’infinito ciascuna delle sue combinazioni originali o tipi.
Ogni astro, qualunque esso sia, esiste dunque in numero infinito nel tempo e nello spazio, e non solamente in uno dei suoi aspetti, ma in tutte le forme che assume in ogni istante della sua esistenza, dalla nascita alla morte. Tutti gli esseri disseminati sulla sua superficie, grandi o piccoli, vivi o inanimati, condividono il privilegio di tale eternità.
La Terra è uno di codesti astri. Ogni essere umano è dunque eterno in ogni istante della sua esistenza. Quel che scrivo in questo momento in una cella di Fort du Taureau, l’ho già scritto e lo scriverò in eterno, su un tavolo, con una penna, con vestiti e in circostanze assolutamente simili. Così per ognuno di noi.
Tutte queste terre si inabissano, una dopo l’altra, nelle fiamme rinnovatrici, per rinascere e ricadervi ancora, monotono deflusso della sabbia di una clessidra che si gira e si svuota eternamente. Il nuovo è sempre vecchio, e il vecchio è sempre nuovo.

da L’eternità attraverso gli astri, di Louis-Auguste Blanqui, SE Studio Editoriale

Elia Malagò, la poetessa che apro a caso, per legge

Nostalgia

Il gelo abbrevia anche le giornate
e conta poco essere qui o nei salti
bruschi del tempo

possibile inventare ricordi
infanzia sommersa
germogli tra cataste
di neve dura sotto ombre sottili

Il cortile fatto corteccia di ghiaccio per sentieri
appena suggeriti

sedimentate conchiglie (questa mia memoria
di fuochi spenti le pareti di una fantasia mai
avuta
presto orecchio a modulate sirene
il mare
quanto è lontano
il colore del mare onde di delfini sul filo d’orizzonte)

nettamente distinguo la mia voce:

-ma se mi prendi sono morta
la mia ombra
l’ombra mama mi insegue
segue me sotto la neve
mama portami via o mi prende per sempre-

e ancora temo la mia ombra
come mai il terrore adesso
in questi ricordi d’accatto anche i colori
sono dure lame

inverno
lastra spessa traspare solo a tratti
la ghiaia del selciato
lontana per l’infinita distanza
che mi separa dalla mia ombra
senza rimedio

è la testa a scoppiare nei segreti
in vetrina
nulla più da coprire una
donna
senza infanzie d’amore

Elia Malagò da Incauta solitudine-Poesie 1999-2009, Passigli Editore

la macchina del tempo

 

In rete uno sconosciuto carica una foto/un video di un momento non necessariamente importante della propria vita: immaginiamo che questo signore scelga la foto di gruppo che ritrae un divertente bagno di mezzanotte alla Secca di Moneglia, immortalato nei primi minuti del 13 agosto 1991 e immaginiamo
ora che, proprio e solo in questa foto, si veda sullo sfondo il terrazzino della camera numero 12 dell’Hotel Leopold e un signore che fuma una sigaretta (la sua ultima). Lo sconosciuto carica la foto/il video su facebook o su youtube indicizzando con la seguente dicitura “La Secca, Moneglia, 13 agosto 1991″.
Ora invece ecco un’altra persona che sceglie di caricare in rete la foto o il video di una serie di onde di una mareggiata a Moneglia avvenuta in un giorno di luglio alla fine degli anni ’70 e, per caso o per scelta, include nello sguardo dell’obiettivo l’ abbraccio salvifico di un bambino intorno al piccolo tronco di una bambina che arriverà ad essere un albero carico di frutti grati.

Questa è la mia macchina del tempo. Io non potrò viaggiare fino alla mia infanzia, ma grazie alla precisa
indicizzazione di ciascuna foto e di ciascun video, forse i miei figli potranno viaggiare nel proprio tempo (non quello scelto dall’occhio dei genitori), almeno virtualmente.

Le foto che si scattano in famiglia e tra amici non sono davvero quelle rappresentative degli istanti di “radicamento”. Le foto/i video scattate/ripresi da sconosciuti possono invece casualmente cristallizzare quei momenti. La foto della bambina che rotola sulla sabbia, immaginando di lottare con il lupo, non sarà memorabile per lei (che giocava alla lotta ma non è uscita mutata dal gioco): sarà solo una bella foto, ben scattata, forse poetica.

 

Ci si radica inconsapevolmente, non è possibile riconoscere un momento come importante (e quindi scegliere di fotografarlo) mentre lo si vive. Non si può essere testimoni della propria vita (artificio dell’autobiografia).

L’unica foto che mi sorprende in uno dei momenti di ‘radicamento’ è quella che chiamo “Una giornata perfetta”: mio padre la scattò in un giardino labirintico e a terrazze a Molinetti di Recco nel 1979 e lui fu uno sconosciuto inconsapevole  dell’importanza di quell’istante; altrimenti non avrebbe scattato la foto.

 

Se volete donare una macchina del tempo ai posteri, indicizzate esattamente le foto e i video oppure seguite l’articolo di Chiara Somajni nell’inserto Domenica del Sole 24 ore del 30 maggio 2010

http://www.librinecessari.it/macchina del tempo.jpg

per alan

 

Isabella e Giacomo Disvetri

 

 

[…] Se noi avessimo mai il dono di cantare il pianto e il rancore, la
disperazione e l’ostinata speranza, la previsione dell’amarezza e l’impossibile
rinuncia all’amore disperso, in mezzo ai disastri del mondo e all’implacabile
andare del tempo o dell’uomo che sia; noi vorremmo dire, con la certezza di
darne il senso e l’idea, quale era, nei suoi indelimitabili contorni, la
panoramica del ricordo della Basca nei pensieri e negli strappi di Giacomo
Disvetri vent’anni dopo il suo unico e assoluto incontro.

Se noi fossimo la Luna in persona, come lo era la Basca e come lo è tutt’ora
nel pensiero di lui (e adesso anche nel nostro), noi diremmo, con singolare
chiarezza, la storia più strana e illimitata che natural mente umana possa
concepire.

Se noi fossimo le stelle ch’erano in cielo quelle notti lontane, e tuttavia
così vicine al nostro cuore, racconteremmo milioni di storielle, con fiori e
montagne, case bianche scrostate e disperse, e minimi vaghi delitti colpevoli
della più ignobile innocenza.

Se noi fossimo il sole, il grande spettatore di quell’insonne mattino, con un
soffio daremmo fuoco alle nostre angoscie [così nel testo, ndr] perché
sprizzassero in ogni punto dell’universo. E se davvero il sole ardesse nella
nostra mente, incendieremmo il cuore di tutti perché in ognuno si facesse vivo
il ricordo di lei.

Pure essendo luna, stelle, sole, non potremmo dir niente che avesse qualcosa
da dire. Quel qualcosa che è sulla bocca di tutti, e che nella nostra si spegne
nell’inconsolabile disperazione.

Ma essendo ciò che noi siamo, che altro ci resta da fare se non quel pàffete
conclusivo, quella caduta nell’abisso – ch’è quanto può definire nel nostro
cuore l’irrimediabile tragedia di questo ricordo?

Ché se la fede poi fosse ancor viva in Giacomo Disvetri, allora potremmo
mormorare con lui, in una tenerezza piena di rancore e di speranza (come quella
sera che il paese era vuoto della Basca).

«Forse lei non verrà più – forse l’uccideranno – ma il mio cuore è ucciso –
prima che lei sia rapita. – Che cosa devo fare – se non aspettare? – Se non
aspettare la morte – con la quale sarò costretta tradirla. – Se io non fossi
sicuro – che in qualche modo la ritroverò – o prima o dopo – già da qualche ora
– il mio cuore sarebbe tranquillo.»

In silenzio dunque voglio restare, per vederti mia stella, amata e graziosa. E
semmai il canto mi sorgesse improvviso, allora dormi serenamente: poiché, se
anche la mia voce non riuscisse a dar suoni, ugualmente il mio cuore vorrebbe
che fosse un canto, un sogno notturno per te, un sogno che non avrà mai fine,
poiché sempre sarò alla finestra per guardarti.

Ene izar maitea

ene charmagarria

ichilik zure ikhustera

yten nitzaitu leihora;

koblatzen dudalarik,

zande lokharturik:

gabazko ametsa belala

ene canuta zaïtzula

da Il ricordo della Basca di Antonio Delfini, Garzanti

 

 

Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a un medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapevano che si chiamare. Ella era in questa vita già stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono.
Apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia. In quello punto dico veracemente che lo spirito de la vita, la quale dimora ne la secretissima camera de lo cuore, cominciò a tremare sì fortemente, che apparia ne li menimi polsi orribilmente; e tremando disse queste parole: “Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi”.

da Vita nuova, Dante Alighieri
 

Il primo pensiero a dio

“I bambini-quasi vite in provvisorio-hanno molto meno definita la trama, molto più varia e disordinata, qui densa e luminosa, lì sottile e oscuro-trasparente. Essi hanno gioie vive che gli uomini non conoscono più, e molto più spesso che gli uomini sono in balìa di questi terrori. Nelle tregue delle loro imprese, dei loro piani, quando sono soli, e da nessuna cosa di ciò che li attornia sono attratti o a frugare, o a rubare, o a rompere, o a discorrere o a tutte quelle altre occupazioni, si troveranno con la piccola mente a guardare l’oscurità. Le cose si sformano in aspetti strani: occhi che guardano, orecchi che sentono, braccia che si tendono, un ghigno sarcastico e una minaccia in tutte le cose. Si sentono sorvegliati da essere terribilmente potenti, e che vogliono il loro male. Non fanno più un gesto senza riflettere ad “Essi”. Se lo fanno con una mano; lo devono far anche con l’altra. “Oppure non lo devo fare?” “Essi” vogliono ch’io  lo faccia-ma io non lo farò- ma non lo faccio allora solo perché penso a “Loro”- allora lo faccio….”. Quando passano una camera oscura, sembra ai bambini che questi “Essi” gridino mille voci, che con mille mani li abbranchino, che in mille guizzi ghigni il sarcasmo nell’oscurità, si sentono succhiati dall’oscurità; fuggono folli di terrore e gridano per stordirsi”

Carlo Michelstaedter da La persuasione e la rettorica, Adelphi