I sopravvissuti ai campi di concentramento avevano prodotto testi universali, i libri sull’olocausto riempivano le biblioteche, ma i forzati non ebrei, che erano sopravvissuti allo sterminio messo in atto attraverso il lavoro, tacevano. Ne avevano deportati milioni nel Reich tedesco. Fabbriche, imprese, botteghe di artigiani, fattorie, famiglie di tutto il Paese si erano servite a piacimento del contingente di lavoratori-schiavi importati dall’estero, all’insegna del massimo sfruttamento con la minima spesa. In condizioni spesso disumane, simili a quelle dei campi di concentramento, erano costretti a svolgere il lavoro degli uomini tedeschi che si trovavano al fronte negli stessi Paesi natali dei deportati di cui devastavano i villaggi e le città, di cui sterminavano le famiglie.
Uomini e donne trasferiti con la forza in Germania in quantità a tutt’oggi sconosciute furono sfruttati a morte dall’economia di guerra tedesca; ma ancora decine di anni dopo la fine del conflitto, riguardo ai crimini dei lavoratori coatti – da 6 a 27 milioni di persone, i numeri oscillano drammaticamente a seconda delle fonti -, si trovava solo di rado uno sparuto resoconto in un opuscolo parrocchiale o nell’edizione domenicale di un giornale di provincia. Perlopiù venivano citati insieme agli ebrei, ma come un dato ‘trascurabile’, un episodio marginale, un’appendice all’olocausto.
Per la maggior parte della mia vita ho ignorato di essere figlia di forzati. Nessuno me l’aveva detto, né i miei genitori, né chiunque altro nell’ambiente tedesco in cui ero vissuta, ambiente che non contemplava nella propria cultura della memoria il fenomeno di massa del lavoro coatto. Per decenni non seppi niente della mia stessa vita. Non avevo idea di chi fossero tutte quelle persone con le quali convivevamo nei vari ghetti del dopoguerra, di come fossero arrivate in Germania: tutti quei rumeni, cechi, polacchi, bulgari, jugoslavi, ungheresi, lettoni, lituani, azerbajani e i molti altri ancora che, nonostante la babelica confusione linguistica, in qualche modo comunicavano tra loro. Sapevo soltanto di appartenere a una sorta di immondizia umana, di spazzatura, rimasta lì dai tempi della guerra.
(…)
Non sapevo perché i tedeschi chiamassero “Le case” i nostri palazzoni, forse per differenziarci dagli zingari che abitavano ancora più fuori, dentro baracche di legno. Gli zingari erano un gradino più in basso rispetto a noi, e in me suscitavano un orrore simile a quello che noi dovevamo provocare nei tedeschi.
da Veniva da Mariupol, Natascha Wodin, L’Orma Editore, trad. di Marco Federici Solari e Anna Ruchat
* termine adoperato in una lettera di assegnazione di domicilio ad un richiedente asilo in Germania nel 2018