Category Archives: la scrittura

e mi scopersi un giorno mugolare

Mi ero altresì creato un verso. Il che, giuro, non ho fatto apposta. A quel tempo, sapevo soltanto che il verso libero non mi andava a genio, per la disordinata e capricciosa abbondanza che esso usa pretendere dalla fantasia. Sul verso libero whitmaniano, che molto invece ammiravo e temevo, ho detto altrove la mia e comunque già confusamente presentivo quanto di oratorio si richieda a un’ispirazione per dargli vita. Mi mancava insieme il fiato e il temperamento per servirmene. Nei metri tradizionali non avevo fiducia, per quel tanto di trito e di gratuitamente (così mi pareva) cincischiato ch’essi portano con sé; e del resto troppo li avevo usati parodisticamente per pigliarli ancora sul serio e cavarne un effetto di rima che non mi riuscisse comico.
Sapevo naturalmente che non esistono metri tradizionali in senso assoluto, ma ogni poeta rifà in essi il ritmo interiore della sua fantasia. E mi scopersi un giorno a mugolare certa tiritera di parole (che fu poi un distico de I mari del Sud) secondo una cadenza enfatica che fin da bambino, nelle mie letture di romanzi, usavo segnare, rimormorando le frasi che più mi ossessionavano. Così, senza saperlo, avevo trovato il mio verso (…).

da Il mestiere di poeta (a proposito di Lavorare stanca), Cesare Pavese, Einaudi

per questa ragione io credo di dover continuare a scrivere poesia

(…)

Mi chiedi se io debba continuare a scrivere, se nessuno oltre a me vedrà mai il mio lavoro. Non c’è ragione di credere che qualcuno vedrà mai più il mio lavoro; tu potresti cambiare idea a proposito di un altro libro. Chiunque abbia conosciuto un certo numero di poeti deve esser stato urtato dal loro straordinario egotismo. Non c’é il minimo dubbio che l’egotismo sia alla base di ciò che una buona parte dei poeti fa. In ogni caso esistono, a questo proposito, altre teorie: per esempio, c’è la teoria secondo la quale scrivere poesia sarebbe un’attività sessuale.

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Siamo soliti dare numerose errate spiegazioni per ciò che facciamo istintivamente. E’ molto facile per me dire che io scrivo poesia per formulare le mie idee e per mettere me stesso in relazione con il mondo. Per questa ragione io credo di dover continuare a scrivere poesia,  indipendentemente dal fatto che qualcuno la veda o meno, e sicuramente ne scrivo molta che nessuno vedrà.

(…)

dalla lettera del 10 gennaio 1936 di Wallace Stevens a Ronald Lane Latimer

L’unico tranello inventato dall’uomo

La pittura, secondo l’esempio dei grandi pittori, è l’al di là del reale, il conferire alla fisionomia un valore inusitato, quale non ebbe nella considerazione diretta dei contemporanei. È la relazione di una sopravvivenza, che non è quella dell’immortalità comandata del cielo o dell’inferno.

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È pittore colui che, noncurante dei critici d’arte che lodano fiumi e fiumi di pittura mediocre, fa uso dei colori nel modo che più gli piace, sempre però lasciando trasparire il grado di pallidezza o di rossore proprio della sua epoca.
Dipingere significa far chiose in modo insolito all’eterna verità con la sua protervia e il suo anelito futuro, il tutto realizzato con pitture opache e al tempo stesso tralucenti.

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Pittura è tumefazione penzolante che si decompone solo di quel tanto cui è costretta a decomporsi, poiché i suoi strati di olio sono strati vermifughi, se li compose il genio.
La pittura è mistificatrice in questo, che, assieme con la letteratura -tutto il resto rimarrà indietro a causa di errori o di invecchiamenti-, è l’unico tranello inventato dall’uomo per fargliela al trascorrere del tempo, l’unico stratagemma contro natura, tenendo conto che natura significa morte, passaggio, oblio.

da El Greco, visionario illuminato, Gomez de la Serna, Abscondita, trad. di Enrico Miglioli

p.s.: a proposito della Signora, che non fu mai sposa ma compagna, scrive Gomez de la Serna: ” ne la Trinità, questi angeli hanno la bellezza del primo amore-il quadro è del primo periodo del Greco, intorno al 1578-, e la misteriosa amata del pittore, che apparirà poi molte volte nei suoi quadri, volta le spalle allo spettatore, perché El Greco volle dipingere le sue gambe vigorose, quelle gambe che perdono nel loro abbozzo e nella loro bianchezza tutti gli altri particolari della loro struttura. In questa rappresentazione della seconda discesa che fu l’ascensione ai cieli nello stanco volo del resuscitato, queste gambe costituiscono il complesso ultraumano del quadro. Direi siano le migliori nella pittura, che tanto di gambe si è pasciuta. Sono messe lì con indifferenza, come se la cosa non avesse alcun interesse, e attraggono invece tutta l’attenzione canagliesca dei citrulli visitatori di musei. Abbandonate alla loro pallidezza, ricurve come colte di sorpresa mentre si denudavano, grassocce, come se non potessero essere belle per la contemplazione, sono le gambe che principalmente attrassero l’artista nel primo incontro con l’inverosimile donna. Esse gravitano con tale erotica pesantezza che le nubi di questo quadro toccano terra e il globo mistico si abbassa grazie a questa zavorra femminea. Il valore di questa estremità, che furono lo scandalo taciuto dei rigorosi contemplatori, il peccato ipocrita dei pignoli osservatori barbuti, getta un’ombra di dubbio sullo spirito religioso del quadro.”

sulla scrittura (4)

A volte credo che potrei scrivere, descrivere, ma poi divento così stanca, improvvisamente, e penso: perché tutte quelle parole? Vorrei che ogni singola parola che mi trovo a scrivere fosse una nascita, davvero una nascita, che nessuna parola fosse artificiale; vorrei che ogni parola fosse essenziale, altrimenti non ha proprio alcun senso. Ed è per questa ragione che non potrò mai vivere della “scrittura” e invece dovrò sempre avere un altro lavoro parallelo per guadagnarmi la giornata. Ogni parola deve nascere da una necessità interiore: scrivere non può essere altro.

di sera, alle undici di mercoledì 22 aprile 1942, dal Diario (1941-1943) di Etty Hillesum, Adelphi, edizione integrale a cura di Jan G. Gaarlandt

venerato monumento in lingua ebraica

Ricordi la frase, così centrale in Nietzsche, che ti avevo letto?

“Si è artisti solo al prezzo di sentire ciò che tutti i non artisti chiamano ‘forma’ come contenuto, come ‘la cosa stessa’. Con ciò ci si ritrova certo in un mondo capovolto, perché ormai il contenuto diventa qualcosa di meramente formale, compresa la nostra vita”.

Tu, invece non hai la consapevolezza della tragica desolazione, della disperata astrazione, della fatale falsificazione che si compie vedendo nelle parole di Giobbe un “venerato monumento in lingua ebraica” anziché il miserabile relitto della sua speranza tradita. Certamente, tutto quello che sta a cuore a te, che t’impegna così profondamente, non interessava né tanto né poco Giobbe sul suo letamaio: infatti si scagliava precisamente contro tutto il “venerato monumento in lingua ebraica” che lo precedeva.

Lettera di Sergio Quinzio a Guido Ceronetti del 22 settembre 1971, da L’esilio e la gloria. Scritti inediti 1969-1996, In forma di parole, 1998

il mio lettore (appunti per 24 scatti n.9)

Da un po’ di anni dormo sonni agitati e sogno un vecchio che impazzisce per la solitudine. Soltanto il sogno riesce ancora a raffigurarmi in modo realistico. Mi sveglio in un pianto di solitudine, persino quando di giorno mi sento più a mio agio in mezzo agli amici che ancora mi restano. Non sopportò più la mia vita, e il fatto che oggi o domani entrerò nella morte infinita mi porta a pensare. Per ciò, dal momento che devo pensare, così come chi, gettato in un labirinto, deve cercare una via d’uscita tra pareti lucide di stallatico, sia pure attraverso la tana di una pantegana, per ciò soltanto scrivo ancora queste righe. Purtroppo non sono mai stato, nonostante i miei tanti sforzi, credente, non ho avuto crisi di dubbio o di rifiuto. Sarebbe stato forse meglio che lo fossi, poiché la scrittura richiede una condizione drammatica e il dramma nasce dalla lotta estenuante tra speranza e sconforto, dove la fede immagino abbia un ruolo essenziale. Ai tempi della mia giovinezza metà degli scrittori si convertiva, mentre l’altra metà perdeva la fede, il che, ai fini della loro produzione letteraria, aveva quasi gli stessi effetti. Quanto li invidiavo, per il fuoco che i loro demoni attizzavano sotto i paioli in cui crogiolavano in quanto artisti! Ed eccomi ora nel mio cantuccio, un groviglio di cenci e cartilagini, sulla cui mente o cuore o fede non scommetterebbe nessuno, perché non avrebbe null’altro da prendermi.
Me ne sto qui, in poltrona, atterrito al pensiero che fuori non esiste più nulla, se non una notte densa come un infinito blocco di pece, una nebbia scura che ha inghiottito lentamente a mano a mano che crescevo in età, case, strade, volti. L’unico sole dell’intero universo sembra essere ormai la lampada abat-jour, e l’unica cosa che illumina un viso raggrinzito di vecchio.
Dopo la mia morte, la mia bara, il mio cantuccio, continuerà a scivolare nella nebbia scura e densa, non portando da nessuna parte questi fogli perché qualcuno li legga. In essi c’è però, finalmente, tutto. Ho scritto alcune migliaia di pagine di letteratura: tutto in fumo. Trame narrate magistralmente, fantocci dai sorrisi elettrizzati, ma come dire qualcosa, per quanto minima, in questa convenzione dell’arte? Vorresti stravolgere il cuore del lettore, e lui cosa fa? Alle tre termina il tuo libro, e alle quattro comincia a leggerne un altro, indipendentemente da quanto valesse il libro che tu gli hai messo fra le mani. Questa quindicina di fogli sono però un’altra cosa, un altro gioco. Il mio lettore adesso non è altri se non la morte. Vedo perfino i suoi occhi scuri, umidi, concentrati come quelli delle bambine, intenti a leggere a mano a mano che scrivo, rigo dopo rigo. Questi fogli contengono il mio progetti di immortalità.

da L’uomo della roulette in Nostalgia, Mircea Cartarescu, Voland, a cura di Bruno Mazzini

sul diario

E veramente la struttura del diario consente respiro e naturalezza; essa cresce di giorno in giorno come un albero, permette di seguire il pensiero nel suo formarsi, senza dare niente per definito, senza correggere le contraddizioni. Consente quella continua attività di risposta alla vita che ci fa resistere a ciò che accade poiché mentre si vive e crediamo di essere sempre la stessa persona il mondo muta e noi senza pausa mutiamo in esso; non perché si invecchi e si cambi idee e usi, ma perché muoiono via via le persone che ci amano, in cui ci specchiamo per conoscerci, e con ognuna di loro muore quella parte di noi che esse vedevano. Gran parte del lavoro della vita consiste nel resistere a queste finestre che si accecano; nel costruire la nuova individualità necessaria alle persone che ora ci vedono. Nel suo continuo alternarsi di lamento di affermazione il diario testimonia e onora questo lavoro.

dalla  Introduzione di Bruna Cordati a: Florida Scott-Maxwell, La misura dei miei giorni, Marietti, 1998

Leva dunque, lettore, all’alte rote meco la vista

Leva dunque, lettore, all’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
dove l’un moto e l’altro si percuote;

e lì comincia a vagheggiar nell’arte…

Cosa significherebbe per Dante la contemplazione dell’ordine universale, se non potesse chiamare altri uomini – tutti gli uomini, ch’egli vede come suoi lettori –  a guardare, a godere con lui, seguendo l’autorità e la perentorietà del suo cenno?

da Come s’insegna Dante, Bruna Cordati, Nistri-Lischi

imitazione felice

Secondo la concezione primitiva, quella antica, la rappresentazione di un avvenimento favoloso o meraviglioso dovrebbe essere necessariamente non realistica; secondo la concezione qui seguita, importa l’evidenza della cosa rappresentata, evidenza che non si valuta affatto solo chiedendosi se alcunché di simile si sia mai veduto o sia credibile; noi chiamiamo per esempio imitazione felice della vita un quadro di Rembrandt che raffigura l’apparizione di Cristo a Emmaus, perché perfino chi non crede, colpito dall’evidenza di ciò che vede, è costretto ad accettare l’esperienza del fatto miracoloso.

da Studi su Dante, Erich Auerbach, Feltrinelli, trad.di Maria Luisa De Pieri Bonino