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Questo faccio per ponere requie allo animo mio

Dice Salamone: “Non è cosa nova sotto lo sole, ché cosa che pare nova stata è”.
“Innello narrare le istorie de Romani como te impacci delli fatti de Alisantro?” Responne Tito Livio e dice: “Questo faccio per ponere requie allo animo mio”. Quasi dica: “Lo animo mio ène stimolato de scrivere questa materia. Voglione toccare. Puoi me se posa consolato lo mio animo”.
Come dico io: “L’animo mio stimolato non posa finente dio che io non aio messe in scritto queste belle cose e novitati le quale vedute aio in mea vita”.

(…)

Scrive Tito Livio nello proemio dello sio livro, nella prima decada. Dice: “Mentre che sto occupato a scrivere queste cose, so’ remoto e non veggo crudelitati le quale per tanti tiempi la nostra citate hao vedute”. Così dico io: “Mentre che prenno diletto in questa opera, sto remoto e non sento la guerra e li affanni li quali curro per lo paese, li quali per moita tribulazione siento tristi e miserabili non solamente chi li pate, ma chi li ascoita”.

Prologo e primo capitolo, dove se demostra la rascione per la quale questa opera fatta fu. Cronica. Vita di Cola di Rienzo, Anonimo Romano, Rizzoli, BUR, Introduzione e note di Ettore Mazzali

Con il minimo ingombro

Camillo Sbarbaro, nei Fuochi fatui 1940-1949 diceva:  Più facile scrivere che cancellare, più che in ciò che riesce a dire, il merito dello scrittore è in ciò che riesce a tacere. *

(…)

Parlava per l’appunto di smagrimento Primo Levi:

Dopo la maturazione (…) viene l’ora di cavare dal pieno. Quasi sempre ci si accorge che si è peccato per eccesso, che il testo è ridondante, ripetitivo, prolisso: o almeno, ripeto, così capita a me. Inguaribilmente, nella prima stesura io mi indirizzo ad un lettore ottuso, a cui bisogna martellare i concetti in testa. Dopo lo smagrimento, lo scritto è più agile: si avvicina a quella che, più o meno consapevolmente, è il mio traguardo, quello del massimo di informazione con il minimo ingombro.**

Lo sbarazzarsi degli ingombri aiuta a raggiungere la leggerezza della scrittura asciutta, che risiede nell’ebbrezza di “cercare e trovare, o creare, la parola giusta, cioè commisurata, breve e forte, per descrivere le cose col massimo rigore e il minimo ingombro“***

L’emozione dell’assetto soddisfacente scaturisce dal piacere e dalla fatica di asciugare le prime stesure per raggiungere il decisamente laconico.

da Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Gian Luigi Beccaria, Einaudi, 2019

* C. Sbarbaro, Fuochi fatui, Scheiwiller, 1956

** P. Levi, A un giovane lettore, in L’altrui mestiere, Einaudi, 1985

*** P. Levi, Il sistema periodico, Einaudi, 1975

Sulla scrittura (5)

2 giugno 1942

Non dimenticare mai che la guerra finirà e che tutta la parte storica sbiadirà. Cercare di mettere insieme il maggior numero di cose, di argomenti…che possano interessare la gente nel 1952 o nel 2052. Rileggere Tolstoj. Indispensabili le descrizioni, ma non storiche. Insistere su questo. Per esempio in Dolce i tedeschi nel villaggio. In Captivité la prima comunione di Jacqueline e la serata in casa di Arlette Corail.

dagli Appunti di Irène Némirovsky sullo stato della Francia e sul suo progetto Suite francese tratti dal suo diario, in Suite francese, Adelphi, trad. di Laura Frausin Guarino.

La dedica

Niente rende irrequieti più del restare soli con uno dei due capi del dialogo. Ti senti continuamente parlare con lei!
Una volta ho letto dell’abitudine degli indiani Mohavi di continuare a parlare anche quando il partner si è congedato da un pezzo e è andato via. Lo stesso succede a me. L’indiano ed io non badiamo alle normali distanze; crediamo che le nostre parole raggiungano ancora il partner, anche quando non lo si vede più.

Non ho mai trovato maggior libertà e sicurezza di linguaggio che nel dialogo condotto sotto l’influenza del desiderio fisico. Desiderio e memoria si eccitano a vicenda, l’una si esaltava protetta dall’altro. Non si trattava di niente di particolare, ci si confidava, ecco tutto. La privazione del dialogo ha lo stesso effetto di quella di una droga. Gli organi che una volta venivano stimolati si ammalano, l’intelligenza, il piacere e la gioia di muoversi, la voce.

da La dedica, Botho Strauss, Guanda, trad. di Vittoria Ruberl

Generazione dell’aurora

Puzzolente dell’untume della lana dei montoni,, inzaccherata del latte cagliato attorno ai formaggi che gocciolano su graticci, la caverna nella quale dorme il Ciclope, oscura, si difende dagli sguardi: ma il gigante irsuto e selvaggio, da parte sua, vede più e meglio, perché ha un solo occhio, in mezzo, da dove esce un raggio laser. I gabbieri di Ulisse hanno un bel rintanarsi nei cantoni: le zampe villose del mostro li scovano e li portano, palpitanti, a quell’altro suo buco, la bocca insanguinata.
Chi saprà cauterizzare quella luce implacabile? Chi chiuderà questo secondo pozzo a strapiombo della gola? Un uomo chiamato Nessuno. Ha errato attraverso i mari e al largo delle isole per un tempo così lungo da avervi perduto tutto, vascelli e sandali, la tunica, i progetti, al punto che persino il suo nome, ora, lo abbandona. Egli non conta più nulla.
Il mostro guercio chiaroveggente che vede anche in un locale buio, potente come la montagna sotto la quale dorme, porta un nome, che ne esprime insieme molti: Polifemo. Polifemo vuol dire: che parla a profusione, del quale si parla ovunque, aedo, illustre e fertile di argomenti. Egli conta molto. Tutta la sua gloria gli esce dall’occhio. Più ancora, il suo nome comune di Ciclope significa: circolare, occupante tutto lo spazio, in accerchiabile. Distinguendo tutto alla luce dell’occhio circolare e tenendo il linguaggio con la bocca insaziabile, si circonda di pecore e arieti, di discepoli, di ammiratori, di luogotenenti, di soggetti, di schiavi, di facchini fedeli, con il capo chino a terra, esclusi dall’uso dell’intelligenza.
Il lucore unico emanato da un buco alimenta il secondo buco, avido.
Nessuno, l’errante, non ha nome: l’enciclopedista Polifemo disone di centomila parole squillanti o rigorose (in greco polyphemos significa “dalle molte voci”).

Ma chi dunque parla senza sosta, canta ai banchetti, negozia, arringa, maneggia, incontestabile esperto delle lingue? Ulisse. E di chi si parla fin dall’epoca della guerra di Troia? Di lui, cento volte più che dei vincitori e dei ciclopi. Chi naviga circolarmente, visita tutti i mari e le terre conosciute? Lo stesso. Chi non può mai fare a meno dei compagni, di rivali, di corte? Ulisse.
Chi dunque porta il nome del Ciclope Polifemo? Ulisse in persona.
Quando il navigatore cauterizza il gigantesco sguardo, al centro, con lo spiedo aguzzo, egli acceca dunque se stesso. Fora il suo vero occhio, posto tra gli atri due già spenti: l’ombra succede alla luce nel mezzo dei due fuochi. Cancella Polifemo, il suo nome letterario, il soprannome acquistato con la fama, non per adottare un altro nomignolo, ma per rinunciare a tutti: eccolo, invisibile, Nessuno. Lascia la gloria e la potenza, il fuoco e la montagna, gli agnelli belanti, e fugge dall’antro sotto il ventre di un ariete lanoso, inafferrato, non visto. Nessuno lo vede rinascere dal buco nero della grotta, grazie a un parto invisibile e animale.
Egli abbandona la lucidità integrale, la scienza circolare e totale, il dominio del linguaggio, il potere feroce sugli uomini, i titoli enfatici, perde la forza per acquistare l’umiltà: più che bestia, sotto la bestia a quattro zampe e a testa bassa. Nessuno. Eccolo infine scrittore, creatore, artista, o per lo meno sul cammino austero che porta a questo mestiere.
Irsuto, insaziabile, nutrito di carne ovina e umana, perfido, vanitoso, inestinguibilmente dominatore, il primo doppio di Ulisse brucia nell’ebbrezza della gloria, semidio potente che sostiene la montagna, più che olimpico. Il nuovo depone questo scarto, questo rifiuto accecato per rinascere nella caverna mortale con un secondo soprannome cancellato: Polifemo divenuto Nessuno, ecco l’autore autentico, buco assente dell’opera bella. Egli non conta più.
Ha forato anche il suo occhio centrale.
Ulisse, in questo momento, firma l’Odissea.
Dicono che Omero non vedesse. Quale palo bruciato, quale penna aguzza forarono i suoi occhi?
Chi, secondo voi, può riconoscere che il colore rosa dell’aurora accarezza come dita, chi, se non un cieco chiaroveggente?

da Il Mantello di Arlecchino, Michel Serres, Marsilio

Il testimone

Sapere chi mi guarda. Con chi scrivo, con chi parlo sottovoce, con chi resto in silenzio. Chi mi fa delle domande alle quali non so rispondere. Con chi condivido la mia lingua muta, la mia scrittura disegnata. Sempre, continuamente, sono con qualcuno, nel mio silenzio e nel suo. Non mi parla ma io lo capisco, è in me, non so niente di lui, o di lei. Questo qualcuno non ha sesso, non vi è differenza tra lui e lei, è un testimone che mi accompagna. Il giorno in cui mi volterà le spalle, morirò. Potrei chiamarlo la mia anima. Ecco, io sento una forma. Se infilassi la mano nel mio petto, la toccherei e saprei forse che lei sono io.
Da un lato porto questa forma che è quasi tangibile. Dall’altro, porto il colore che evolve nel suo focolare. Insieme mi configurano e configurano il testimone. Esso talvolta chiarisce i miei pensieri, talvolta li sprofonda nell’oscurità. Appena sente qualcosa, anch’io lo sento e viceversa. Ciò si ripercuote in me, causandomi un intenso dolore lancinante, o una felicità improvvisa e leggera.
Cosa vuol dire sentire? E in modo così individuale e intrasmissibile che nulla riesce a modificare?
Il sentire si pianta come un coltello. Un’immagine, un pensiero, un ricordo e il coltello affonda la sua punta nella mia carne. Mi scanso ma lui mi ritrova. Cerco di interrogare il testimone ma non so dov’è, chi siamo. Mi avvicino a lui il più possibile per avere una possibilità di conoscermi. Di sapere per quale motivo reagiamo in questo modo.
Cos’è successo? Chi mi ha messo in questa situazione?
Perché questo testimone è sempre lì? Da me a lui il cammino non è lungo, lo percorro coi miei passi, le mie parole, i miei gesti. Lui indietreggia quando io avanzo, cerco di accerchiarlo, di sentire da più vicino il battito che ci unisce. Capita talvolta che mi impedisca di abbordare la realtà e le sue molteplici sfaccettature. Nel cammino, da lui a me, vedo sfilare volti amati, pianure dove corrono cavalli, un fiume che si getta nel mare. Le cose che mi mostra sono assenti. Una certezza: noi apparteniamo alla famiglia dell’assenza.

da L’alfabeto del fuoco. Piccoli studi sulla lingua, Silvia Baron Supervielle, Pagine d’Arte, trad. di Anna Bertaccini

Credo che uno scrittore possa essere, anzi debba essere, un militante: io lo sono stato per tutta la vita. Ma questo non deve influenzare la sua scrittura. La militanza è una cosa, la scrittura un’altra. Uno, a mio avviso, sbaglia se si mette in testa di scrivere per il popolo, finisce per fare della cattiva poesia, della retorica; uno scrive per l’altro che è sempre se stesso.

(…)

Credo che un movimento letterario (penso a quelli “storici”) sia importante, ma non posso parteciparvi. Ho un’altra idea dello scrittore e della scrittura. Credo che l’esperienza creativa sia un rischio da assumere completamente. Ho sempre rifiutato qualsiasi integrazione; per me il poeta non ha un “luogo” né patria, semmai la sua patria è il libro.

(…)

Non posso immaginare il mio lettore, ma posso dirti che questi libri o si assumono o si rigettano.

Dalla conversazione Il deserto e dopo, di Edmond Jabès con Attilio Lollini, in Lengua n. 4, Il Lavoro Editoriale, 1985

(…)

Recentemente i miei rapporti con l’ambienza sono stati offuscati da qualche nuvolone moraleggiante, dato che le seggiole giubborossistiche insufflano, tramite il condotto intestinale, nell’anima dei seduti, la disposizione a occuparsi con giusto rigore agli affari del prossimo: e la precingono del laticlavio di sufficienza sive autarkeia.
In quella nicchia ogni più raro fante[1] si sente santo, e nimbato di un alto silenzo e’ fa pùf pùf con la sigheretta, ciài una sigaretta, mi dài una sigaretta, prestami una sigaretta, ecc. ecc. = A procurarmi qualche urticazione è valsa la mia simpatia (letteraria) per il poeta delle ortiche, cioè Dante: (non Dante Alighieri ma Dante Giampieri, da San Miniato, quello del Carducci e delle cicale che non frinivano ma viceversa cantavano). Il Giampieri è un taciturno e povero insegnante amico di Piero Santi: esecrato dai direttori di riviste: che dispongono di ben altri poeti, come tu vedi, e che interpellano per l’accettazione il corpo completo delle loro Sibille. Le Sibille hanno decretato che Dante non vale nulla: anche se fosse,  dico io, musica di provincia, musica di operetta, o non c’è chi ama le operette? Una tesi di laurea sulle “operette” sarebbe, come corrispettivo di vita, qualche cosa di più importante che una tesi di laurea su la poesia di Falla-a-buon-mercato[2].

(…)

se le mie scarpe non fossero più vergognose di quelle di Beethoven e la mia casa non vedesse girare in pigiama il Rosamarcello e la menopausa della su’ signora e donna! I lavori polluti dal Marcello (piccolo borghese adorno del senso del diritto e di forza d’animo di tipo italiota-rivendicativo) non trovano burro di cacao valevole a imbesciamellargli l’esulcerato ano. Per sbrattar la casa da così eccitante pigiama, bisognerebbe essere un membro della direzione del Partito d’Azione, Raffaello Ramat o Piero Pantalamandrei in persona. Ma io non Piero io non Raffaello sono, e devo rassegnarmi ad essere il Calapantalamandrei del nuovo jus della res pubblica de’ mia zebedei. Bà.

 

(…)

dalla lettera di Carlo Emilio Gadda a Gianfranco Contini del 10 dicembre 1946

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[1] Alludo a pittorastri, scrittorelli, ecc. (nota dell’A.)

[2] Allude a Luigi Fallacara, scrittore e poeta di potere (nota di Mila)