Category Archives: ish e isha

L’esistenza piena e l’immagine dell’essere amato

L’esistenza semplice e forte, che la servilità funzionale non ha ancora distrutto, è possibile solo nella misura in cui ha cessato di subordinarsi a qualche progetto particolare come agire, dipingere o misurare: essa dipende dall’immagine del destino, dal mito seducente e pericoloso con il quale si sente silenziosamente solidale.
Un essere umano è dissociato quando si consacra a un lavoro utile, in sé privo di senso: egli non può trovare la pienezza dell’esistenza totale che sedotto.
(…)
l’esistenza piena si lega a qualsiasi immagine che susciti speranza e terrore.
L’ESSERE AMATO in questo mondo disciolto è divenuto la sola potenza che abbia conservato la virtù di riportare al calore della vita. Se questo mondo non fosse percorso incessantemente dai movimenti convulsivi degli esseri che si cercano l’un l’altro, se non fosse trasfigurato dal viso “la cui assenza è dolorosa”, avrebbe l’apparenza di una derisione offerta a quelli che fa nascere: l’esistenza umana vi sarebbe presente allo stato di ricordo o di film dei paesi “selvaggi”. E’ necessario escludere la finzione con un sentimento irritato. Ciò che un essere possiede al fondo di se stesso perduto, di tragico, la “meraviglia accecante” non può più essere incontrata che su un letto. (…)

da Il labirinto, Georges Bataille, SE Studio Editoriale, trad. di Sergio Finzi

Wallace e Sybil

TO THE ROARING WIND

What syllable are you seeking,
Vocalissimus,
In the distances of sleep?
Speak it

da Harmonium, Wallace Stevens

dalla lettera n.760 a Richard Eberhart del 4 dicembre 1950:

(…) After leaving you, I walked through Hilliard Street, the name of which seemed to be familiar, until it came out in Cambridge Common by Radcliff. At the point where it comes out Radcliff is on the left. At the right there is an old dwelling where one of the most attractive girls in Cambridge used to live: Sybil Gage. If your wife is native of Cambridge, she may have heard of Sybil Gage, although I am speaking of a time long before your wife was born. Her father was a friend of W.G.Peckham, a New York lawyer, in whose office I used to work at one time, and the two of them, and some others, were, I believe, the founders of the Harvard Adovcate. But my principal interest in Mr.Gage, who was dead when I lived in Cambridge, was the fact that he was the founder of Sybil. A few years after I had left Cambridge I was a guest at Peckham’s place in the Adirondacks and who should turn up but this angel; so that instead of being a street that I had never heard of Hillard Street turns out to be a street that I passed every day.

.-.-.

(…) in “Anecdote of the Jar,” Stevens does something similar. He had previously read Dante’s A New Life, where the poet speaks of his initial meeting with the nine-year-old Beatrice Portinari, including the Latin phrase “ecce deus fortior me, qui beniens dominabitur mihi” [the god of love, greater than I, came and took dominion over me]. This was Dante’s first meeting with his muse. In “Anecdote of the Jar,” a poem composed in 1919, when Stevens was still part of the Arensberg group, Stevens writes:

The jar was round upon the ground
And tall and of a port in air.
It took dominion everywhere.

This wordplay on the name Port-in-ari seems obvious (once you see it), but commentators have puzzled over “port in air” since the poem was published. Ford’s discovery that “Anecdote of the Jar” contains Beatrice Portinari’s name coupled with the phrase “took dominion” that Dante used to describe his falling in love with Beatrice is key to our discussion of the extent to which Stevens may have experimented with including ciphers and other hidden messages in some of his poems during this stage of his poetic development. Once we see that he almost certainly concealed a secret message in “Anecdote of the Jar,” it becomes even more likely that the apparent wordplay in some of his other poems did not occur by chance. And it is especially relevant that this cipher is the name of the most famous muse in literary history. Stevens’s inclusion of the name of Dante’s muse, Beatrice Portinari, in a poem in Harmonium could be his private way of announcing that elsewhere in Harmonium he had included concealed messages about his own muse—Sybil Gage

Per saperne di più di Sybil Gage per Wallace Stevens

Pietroburgo, 17 gennaio 1902

Se uno dei tre prossimi giorni non Vi troverete alla cattedrale (n.d.c. probabilmente la cattedrale della Madonna di Kazan’) fra le 8 e le 10 di sera, Vi minaccia per tutta la vita un’angoscia senza remissione. Gli ultimi echi non sono ancora cessati, l’ultimo pensiero dell’amore è ancora vivo nell’immortalità della memoria; venite alla cattedrale e non Vi turbate, nell’incontro con le tenebre dell’immortale armonia.

da La fidanzata di lillà. Lettere a Ljuba, Aleksandr Blok, Editori Riuniti, a cura di Eridano Bazzarelli

Direttive precise

Caro Kaspar. Sono di nuovo nella città che tu sai e sono seduto a un bello scrittoio scuro, in una stanza bene illuminata, mentre giù per strada, nella notte estiva, la gente passeggia sotto gli alberi folti di foglie spioventi. Purtroppo non posso passeggiare con loro perché sono legato a una casa, non proprio legato mani e piedi, ma dalla coscienza del dovere, che mi sta formando a poco a poco e che alla fine ci sarà pure. Sono diventato il servitore di una signora che ha un figlioletto malato, che io devo accudire non molto diversamente da come una madre accudisce suo figlio, perché sua madre, la mia padrone, sorveglia ogni mio movimento, come se il suo occhio fosse la guida dei miei atti, come se lei infondesse in me, quando mi occupo del ragazzo, la sua stessa sollecitudine. Adesso, mentre ti scrivo, è seduta vicino a me in una poltrona, poiché è nel suo salottino che sto seduto anch’io, con il suo permesso. Le cose stanno in modo che ogni volta che io devo uscire per una faccenda personale bisogna prima domandare: posso uscire? come un apprendista che deve domandare al suo maestro. Comunque, per lo meno è una signora quella a cui devo chiedere, e questo addolcisce un poco la cosa. Per servire s’intende stare attento agli ordini, indovinare i desideri, essere svelti e abili, abili e svelti nel preparare la tavola e nello spazzolare i tappeti, devi saperlo se ancora non lo sai. Ho già raggiunto una certa perfezione nel pulire le scarpe alla mia signora, che chiamo semplicemente la mia signora. E’ solo una faccenda di poco conto, eppure richiede anch’essa, come le cose più grandi, l’anelito alla perfezione. Con il mio giovane padroncino dovrò in futuro, quando ci sarà bel tempo, andare a passeggio. A questo scopo c’è una carrozzella marrone nella quale potrò portar fuori il ragazzo, cosa che, a pensarci bene, non mi rallegra davvero molto, perché sarà noioso. Buon Dio, lo dovrò fare. La mia padrona appartiene a quella specie di donne nelle quali ciò che spicca maggiormente e la contraddistingue è il carattere borghese. E’ donna di casa dalla testa ai piedi, ma in senso così schietto e rigoroso da poter dire: è qualcosa di nobile. Sa andare in collera in modo magistrale, e io a mia volta sono maestro nel dargliene l’occasione.

da I fratelli Tanner, Robert Walser, Adelphi, a cura di Vittoria Roveri Ruberl

Per formare il perfetto androgino, simbolo  generatore di felicità, l’uomo, che la divinità ha lasciato insoddisfatto, dovrà per prima cosa riportare il proprio sguardo dal cielo sulla terra e qui mettersi alla ricerca dell’essere che ne permetta la ricostituzione. Svanito il miraggio celeste, egli persevererà nel suo proposito e, come era unica la divinità, così sarà un essere unico, ma di carne, che egli divinizzerà.
“Se l’essere umano è per l’uomo l’essere supremo, la prima e più alta legge pratica deve essere l’amore dell’uomo per l’uomo”(L. Feuerbach, L’essenza del crisitianesimo). Una volta presa coscienza della sua imperfezione, non cercherà più di porvi rimedio adoperandosi a imitare un modello divino da lui stesso creato, bensì richiedendo alla terra quell’essere la cui imperfezione, compensando la propria, permetta la costituzione di un essere doppio, perfetto, singolare, che formi un’unità di umana felicità.

(…)

Il colpo di fulmine, per quanto l’espressione possa essere divenuta popolare – oggigiorno almeno in parte screditata – precisa con chiarezza la natura accecante del fenomeno di riconoscimento dell’essere desiderato, la cui complementarietà è stata d’improvviso intravista. Un incedere da fata, un battito di ciglia, è bastato talmente poco in apparenza perché il fulmine cadesse, squarciando il velo che ricopriva l’immagine all’interno; e l’evidenza si è imposta. Non solo il colpo di fulmine “non è sempre cosciente”, come sostiene il dottor Balvet, ma non può nemmeno esserlo nel momento in cui nasce, il soggetto ne prenderà coscienza solo con un certo ritardo. Stendhal aveva già a suo tempo rivelato l’essenziale del meccanismo del colpo di fulmine e dimostrato che esso dissimulava il fenomeno di riconoscimento istantaneo di un “modello ideale” che il soggetto aveva elaborato a propria insaputa o quasi. L'”ideale” del modello non in altro consiste se non nella sua presupposta complementarietà. L’esempio stendhaliano implica dei particolari che lo fanno presentire, sebbene la sua discrezione dei due caratteri resti troppo sommaria perché possano assumere tutto il loro pieno significato: una giovane e ricca principessa tedesca, bella, intelligente e dalle virtù modeste ma incrollabile, s’innamora alla prima occhiata di un ufficiale della guardia di palazzo, povero, baldanzoso, con una punta di nobiltà, e “che faceva il mantenuto”.
Se il soggetto, sotto l’impulso di una imperiosa aspirazione all’essere complementare, è venuto elaborando una immagine che risponde al suo desiderio, questa si è come costituita da sola, senza quasi il minimo intervento della coscienza nel corso del processo di formazione. Per buona parte risultato delle fantasie infantili, essa avrà certo preso consistenza nella fase della pubertà, allorché l’adolescente è in preda a molteplici quanto contraddittori impulsi. L’immagine che si viene formando in tali condizioni riceve i suoi tratti sia dall’infanzia – quando la madre funge ad un tempo da modello e da spauracchio – che dalle circostanze della vita quotidiana dell’adolescente. Questi tratti fanno per primi la loro comparsa nella camera oscura, sul negativo, senonché in tal caso lo sviluppatore è la vita stessa la quale, troppo poco provata, non lascerà che un’immagine grigia o allora, troppo intensa, “mangerà” l’immagine.

da La cometa del desiderio. Una storia d’amore attraverso la poesia, Benjamin Peret, Arcana Editrice.

agnizione

Eraserhead-02

Saranno state pressapoco le undici, quando quello arrivò di galoppo, con scorta e gran fracasso, davanti a casa, smontò tutto coperto d’acciaio, ed entrò nella bottega: dovette abbassare profondamente il capo per passare attraverso al porta con le penne di airone che oscillavano sull’elmo. Guarda qui, maestro, dice, sto andando contro il conte palatino che vuole abbattere i vostri bastioni; la voglia che ho di incontrarlo mi fa saltare le piastre; prendi ferro, filo e, senza ch’io debba spogliarmi, riattaccale bene. Signore, io dico, se il petto vi schianta l’armatura in questo modo, il conte palatino lascerà stare i nostri bastioni; lo faccio accomodare su una sedia, in mezzo al locale e grido verso la porta: vino, prosciutto appena affumicato, per uno spuntino! e gli metto davanti uno sgabello, con gli attrezzi per aggiustargli la piastra. E mentre fuori il destriero ancora nitrisce e raspa il suolo coi cavalli della scorta, alzando una polvere come se fosse sceso un cherubino dal cielo: adagio, portando sul capo un grande vassoio d’argento su cui erano disposti bottiglie, bicchieri e mangiare, la ragazza apre la porta, entra. Beh, guardate, se a questo punto mi apparisse il Signore tra le nuvole, mi comporterei pressapoco come lei. Vassoio, bicchieri, mangiare, appena visto il cavaliere, giù tutto; bianca come una morta, le mani giunte in adorazione, baciando il pavimento che tocca col petto e con la fronte, crolla davanti a lui, come fulminata. Io dico: Signore Iddio! Che ha questa figliola? e la sollevo: lei, il viso in fiamme girato verso di lui, come se avesse davanti un’apparizione. Il Conte von Strahl le prende la mano, chiede: di chi è questa bambina? Garzoni e fantesche si precipitano dentro e gemono: Dio aiuti! Che è successo alla Juengerferlein? ma lei, dopo qualche timida occhiata al suo viso, si riprende, io penso che l’incidente sia passato, e con aghi e punteruolo mi metto al lavoro. E dico: bene, signor cavaliere, ora potrete incontrare il conte palatino; la piastra è allacciata, il cuore non ve la farà più saltare. Il conte si alza; guarda sopra pensiero, dalla testa ai piedi, la ragazza che gli arriva al petto, si china, la bacia in fronte e dice: il Signore ti benedica, ti protegga, ti doni la sua pace. Amen! E mentre ci accostiamo alla finestra: nel momento in cui lui sale sul destriero, con le mani alzate la ragazza si butta sul lastricato da trenta piedi: come un’infelice che abbia perso la testa.

da Käthchen di Heilbronn, Heinrich von Kleist, Adelphi, versione di Giorgio Zampa

racconto della discreazione

Per fortuna avevo avuto cura di chiudere tutto, altrimenti, ne sono certo, il tetto sarebbe volato via; e facevo comunione con me stesso, pensando: “Io, pover’uomo, perso in questa confluenza di infiniti, in questo vortice dell’Essere, che sarà di me, mio Dio? Perché buio, ahimè?, buio, è questo vuoto nel quale dal suolo fermo sono caduto, a una profondità di un trilione di bracci, giocattolo di tutti i turbini del vento, e sarebbe stato meglio per me perire con i morti, e non aver mai visto la tenebrosità dell’ineffabile, non aver mai udito la sconvolgente tetraggine dei venti dell’eternità; quando si dolgono, e sospirano, e gemono; quando si disperano e vengono meno; voci che nessun udito potrebbe mai udire: perché hanno l’intenzione di divorarmi, lo so, quei vasti bui, e presto sarò scomparso come la pula delle aie, per lasciare a loro il palcoscenico di questo teatro”. E così giacqui fino al mattino, borbottando, accoccolato e tremante: perché gli urti della tempesta pervadevano la chiesa sbarrata e mi raggiungevano il cuore; e ci furono tumulti e tuoni quella notte, Dio mio, come richiami e ghigni e risa di scherno urlate da una cima all’altra dei colli dell’Inferno.

da La nube purpurea, M.P. Shiel, Adelphi, trad. di Rodolfo Wilcock

Novo Mesto, 23 aprile 1943

 Luca Cambiaso Tritone e Nereide

è di nuovo il problema delle donne che mi turba. Mi piacciono terribilmente e mi lanciano in quelle corse pazze in cui tutto il mio essere si tende come un gatto nel salto e godo della mia tensione e della loro.
Ma intanto le vedo accoccolate in una posizione raccolta e composta che mi fa venire voglia di scomporle, di spezzarle come fossero di cristallo; le vedo librate nella luce e tendo le mani per coglierle, per impossessarmene. Mi passano davanti incielate e naturali come la brezza che soffia nei loro capelli. Che cosa mi possono dare? L’ansia di un momento, il fremito dei sensi, come l’acqua mi modella aderente, come il vento che mi solletica le nari e mi accarezza la pelle. Ed una Jolanda qualsiasi rende bella una giornata con la sua sola presenza. Gentile, bella, intelligente. Non credo. Donna, donna, e vorrei quasi dire femmina se femminile è il principio che accetta e subisce l’azione, se femminile è quell’essere vago e consistente, che trova la sua gioia nell’essere modellato, fatto, formato. Non c’è violenza in tutto questo, ma solo legge eterna. E la loro perplessità, il pudore od altro, servono solo a rendere più faticata e più cara la fatica dell’operatore, affinché questo la compia nella sua interezza.

da La traccia sul mare. Diario e lettere(1936-1943), Falco Marin, Einadi

III scherzo dedicato ad Anna

Composizione con alberi, Luigi Bartolini

Due braccia, due gambe, le sue uguali a quelle di altre donne
e deficienze, alle altre donne, egualissime.
Eguale il pessimo mestruo, eguale la cispa
oh cara Anna, quando al mattino ti levi dal letto.
Tutto eguale: un volanino che si è logorato
una calza che si è filata, di sera, in uno spino…
Va bene, codesto è noto,  stranoto, notissimo.
Si sa chi sono le donne; che vogliono tutto per sé,
e, il peggio, basta leggerlo in Weininger.
Sì sta tutto bene, ma più ci penso e più me ne infischio
che le tue braccia siano eguali a quelle di altre donne.
Però, ahimè, che non me ne infischio se non mi abbracci.

da Pianete, Luigi Bartolini,  Vallecchi Editore

 

p.s.: Lorenzo dice: per sapere altro a proposito della misoginia di Weininger, leggere ne La coscienza di Zeno, di Italo Svevo

la devozione

VII

Me felice, notte, notte piena di fulgore;
Divano reso felice dalle mie lunghe dilettazioni;
Quante parole ci siamo dette con abbondanza di candele;
Risse quando le luci furono tolte;
Ora a seno nudo mi faceva la lotta,
Frapponendo la tunica a indugio;
Poi mi apriva le palpebre cadute nel sonno,
con sopra la bocca, e le labbra dicevano: già stanco?

In amplessi quanto vari, le nostre mobili braccia,
I suoi baci, indugianti sulle mie labbra.
“Non fare di Venere un moto cieco,
Gli occhi sono guida all’amore,
Paride prese Elena che usciva nuda
dal letto di Menelao,
Il corpo nudo di Endimione, luminosa esca per Diana”
….così almeno raccontano.

Finché i nostri fati s’intrecciano,
saziamo i nostri occhi d’amore;
Poiché una lunga notte ci sorprende
e  un giorno che non riporta il giorno.
Che gli dei ci mettano in catene
tali che nessun giorno le sciolga.

Pazzo chi vuol porre limite alla follia amorosa:
Il sole guiderà cavalli neri,
la terra frutterà grano dall’orzo,
La piena procederà verso la sorgente
Prima che amore conosca moderazione,
I pesci nuoteranno in fiumi asciutti.

No, il frutto della vita
finché c’è dato non farlo cessare.

Perdono i petali le ghirlande secche,
s’intrecciano di steli le ceste,
Oggi il respiro profondo degli amanti,
domani la sorte ci imprigiona.

Dammi tutti i tuoi baci
e sono sempre pochi.

Né posso spostare le pene su un’altra,
Suo sarò anche morto,
Se lei mi concederà di tali notti
lunga è la vita, lunga d’anni,
Se me ne darà molte
Sono un dio al momento.

da Omaggio a Sesto Properzio, Ezra Pound, SE Studio Editoriale, a cura di Massimo Bacigalupo