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Vie Cave
Il percorso semisotterraneo delle vie cave può corrispondere a un itinerario sacro, nel quale si sarebbero svolte cerimonie e processioni rituali, sul tipo di quelle officiate nei Misteri dionisiaci e della Grande Dea.
La processione doveva servire a drammatizzare e a celebrare il mistero della rinascita cosmica e annuale della vita, in coincidenza con le date equinoziali, all’inizio della primavera e alla fine dell’estate. I misteri eleusini si svolgevano in due fasi: i “piccoli” Misteri di febbraio-marzo e i “grandi” Misteri di metà settembre.
La tradizionale “torciata” di Pitigliano, festa pagana di remotissime origini, ha luogo ancora oggi il 19 marzo, giorno prossimo all’equinozio di primavera. La processione fiammeggiante dei pitiglianesi, che portano a spalla grandi torce fatte di canne di fiume, parte dalla necropoli etrusca di poggio S.Giuseppe, attraversa la cava omonima e raggiunge il paese dopo aver passato una seconda via cava (di Poggio Cane). Si ritiene comunemente che questa sia una celebrazione antica, per propiziare la primavera, anche in connessione con riti agrari e della fertilità. Considerato l’ambiente prettamente funerario delle vie cave, indicato dalla contigua presenza di tombe e necropoli, è anche plausibile che questi grandi percorsi fossero originariamente ideati in seguito ad un sincretismo tra culti misterici e culti degli antenati e dell’Oltretomba.
Oltre a placare e ad onorare le anime degli antenati, questo tipo di ritualità mirava a celebrare il culto delle divinità infere: Aita (Ade-Dioniso), Phersipnai (Persefone), Sethlans o Velcha (Efesto o Vulcano), e certamente anche quel misterioso Veltha il cui nome è inciso a grandi lettere nel Cavone di Sovana.
D’altra parte, vista l’attestata funzione di spazio rituale pertinente al “dromos” (il corridoio funebre), è lecito ritenere che anche le vie cave, che altro non sono che enormi “dromoi”, avessero la stessa funzione.
Percorrerle equivaleva a entrare in risonanza con le forze della terra e al tempo stesso effettuare un rito di passaggio: l’attraversamento del dedalo che è la vita stessa, per raggiungere l’atemporale e sacra sfera delle anime rigenerate e immortali.
da Le Vie Cave Etrusche. I ciclopici percorsi sacri di Sovana, Sorano e Pitigliano, Giovanni Feo, Laurum Editrice, 2011
Fede
La tieni tra le braccia.
Dormi, e la sogni,
e sai che è un sogno
ciò che di lei vedi.
E il cuore si squarcia,
trema di fede.
Soltanto una cosa
a lei proposta
ti dà garanzie
che ti vorrà sveglio.
Sa che è un sogno
ciò che di lei le dici,
ma che, sotto
il sogno, è lei
che tieni tra le braccia.
da Teoria dei corpi, Gabriel Ferrater, Occam Editore, traduzione di Amaranta Sbardella
Palmar’s son
Bowa-oo, my iori iori!
Decolonising the Cinema (ITA-ENG TXT)
Cineforum per richiedenti asilo e titolari di protezione
Quando, più concretamente, l’atto di vedere è presentato come un atto di violenza assistita e, soprattutto, di conversione dei corpi in oggetti, allora gli spettatori diventano protagonisti di un’antropomorfizzazione al contrario. Qui coloro che prima erano umani hanno perso la loro umanità, e la stessa messa in scena degli spettatori all’interno dell’inquadratura rafforza la violenza di una disumanizzazione che fa più che rendere impossibile la categoria dell’umano.[1]
Il voyeurismo di chi accetta di farsi spettatore dell’omicidio di George Floyd o di Alika Ogorchukwu, lo sguardo caritatevole di chi versa qualche spicciolo al richiedente asilo fuori da un supermercato, quello giudicante il grado di onestà o criminalità in base al fototipo, quello rapace di chi erotizza un corpo, non solo hanno in comune il fatto di essere il risultato di una colonizzazione dell’immaginario collettivo, ma anche l’effetto di condizionare lo sguardo su sé dello spettatore/della spettatrice che coincide con il corpo reso oggetto, inoculando la morbosa sensazione particolare, questa doppia coscienza, questo senso di guardare sempre se stessi attraverso gli occhi degli altri, misurando la propria anima con il nastro del mondo che guarda con divertito disprezzo e pietà.[2]
La scelta di proiettare film che smentiscono questo sguardo, che riducono al silenzio questa doppia coscienza, è ciò che si intende con Decolonizzazione del cinema.
Dal 2017 a oggi il gruppo di Orientamento alla Formazione e al Lavoro del Progetto Pensare Migrante ha redatto 520 curricula, di richiedenti asilo e titolari di una protezione, definendo una road map delle competenze, delle peculiarità, dei sogni e delle esperienze individuali. Il 43% di queste persone, seppure con un regolare contratto, comunque sta svolgendo un lavoro che svaluta le proprie competenze, la formazione e le esperienze maturate nel proprio paese di origine: anni di abusi (burocratici, socio-lavorativi) quasi sempre approdano a un’autosvalutazione, che favorisce la segregazione sociale: tutto questo è accettato anche a causa della colonizzazione della camera (foto o video).
Alle 520 persone, tramite email, sarà richiesto di rispondere alle seguenti due domande:
- Qual è il film che ritieni essere più interessante per combattere i pregiudizi razziali o il più efficace nel valorizzare le differenze culturali?
- Quali di questi film hai visto e, da 1 a 10, che voto daresti riguardo alla loro efficacia nel combattere i pregiudizi razziali e nel valorizzare le differenze culturali?
In una riunione collettiva tra i soci dell’Associazione ColtivAzione, si discuteranno i risultati delle domande e da questi saranno scelti i 24 film.
La fotografa Fabiana Sartini documenterà l’esperienza e alla fine della rassegna, a Roma presso la Libreria Libri Necessari, sarà allestita una mostra aperta al pubblico.
Chi avrà partecipato al progetto:
- avrà a disposizione i nomi dei registi e del cast, nonché i titoli dei film della rassegna: per poterli ritrovare e condividere all’interno della propria comunità, ma anche per proseguire da questi nel proprio personale percorso di cinefile/i;
- sarà indirizzato all’iscrizione al circuito delle Biblioteche di Roma, per il reperimento gratuito di film e libri;
- sarà informato sulle caratteristiche di base di un proiettore, sulla Licenza MPLC e sui passi per costituire un’associazione senza scopo di lucro e un proprio cineclub;
- riceverà un attestato di partecipazione.
Si crede che la ricaduta positiva di questa esperienza avrà risonanza e durata a lungo termine, a beneficio della società.
Le spese che andranno affrontante sono quelle per:
- Licenza Ombrello MPLC
- Proiettore YABER Lumen;
- Sedie;
- Rimborso spese una tantum per responsabile progetto
- Rimborso spese mensile per un anno a favore di una delle 520 persone prese in carico, per recupero e riconsegna film in biblioteca/gestione proiezione bimestrale/gestione pubblico in base alle prenotazioni/sistemazione sala a fine proiezione
- Rimborso spese mensile per un anno a favore di una delle 520 persone prese in carico, per invio bimensile della comunicazione tramite newsletter alla mailing list dei beneficiari e raccolta delle prenotazioni
- Rimborso spese una tantum per l’amministrazione contabile
- Rimborso spese una tantum per l’addetta alla comunicazione
- ‘Tessera sospesa’: tesseramento all’Ass.ColtivAzione di 50 soci
- Rimborso biglietti autobus per beneficiari/e del progetto
- Documentazione fotografica del progetto, stampa e allestimento mostra finale
Per la realizzazione del progetto per la durata di un anno, sono necessari 11000 euro.
Indipendentemente dall’esito della raccolta fondi, il progetto avrà luogo, seppure con una minore durata o un minor numero di beneficiari/e.
Per donare:
oppure
Associazione Coltivazione
IBAN: IT09A0538703209000003168237
indicando nella causale: Decolonising the Cinema
[1] Samuels, 2006, citato a pag.51 da Mark Sealy in Decolonising the Camera: Photography in Racial Time, Lawrence & Wishart, London 2019.
[2] Du Bois & Gibson, 1996, citato a pag.156 da Mark Sealy in Decolonising the Camera: Photography in Racial Time, Lawrence & Wishart, London 2019.
Photo: Fabiana Sartini
I go love U
– sono andato storto
– contratto a tempo indeterminato
– ho condannato un dente per due
– Tombellamonaca (per Torbella)
– Ogallinagallina
– Dialoghetto nel paese dei Buonanima:
“Giovana, hai saputo che è morto xxx?”
“Chi è? Non lo conosco..”
“Ma come no?! Xxx, quello che faceva sempre elemosina fuori dalla chiesa”
“Ahhh, ho capito, BUONANIMA..”
“Ma che buonanima, Giovana, non gli hai dato mai niente, ma dai, uno di meno..”
“Luciana, ma che dice questo?”
– schei
– “tu prendi la mia bocca” per “non mi fai finire di parlare”
– “Thank you for the flower” (you said to me, while U were sleeping in the Sunday afternoon of 2.10.22)
Dedicato a Iyobosa
Je suis publiphobe
Vingt ans séparent la Jetée de Sans soleil. Et encore vingt ans jusqu’à présent. Dans ces conditions, parler au nom de celui qui a fait ces films, ce n’est pas une interview, c’est du spiritisme. En fait je crois bien n’avoir ni accepté, ni choisi ; quelqu’un en a parlé, et ça s’est fait. Qu’il y ait une certaine relation entre les deux films, je le savais, mais je ne voyais pas la nécessité de m’expliquer… Jusqu’à ce que je trouve dans un programme publié à Tokyo une petite note anonyme qui disait : «Bientôt le voyage approche de sa fin… C’est alors seulement que nous saurons que la juxtaposition des images avait un sens. Nous nous apercevrons que nous avons prié avec lui, comme il convient dans un pèlerinage, chaque fois que nous assistions à la mort, au cimetière des chats, devant la girafe morte, devant les kamikazes au moment de l’envol, devant les guérilleros morts dans la guerre d’Indépendance… Dans la Jetée, l’expérience téméraire de recherche de la survie dans le futur se termine par la mort. En traitant le même sujet vingt ans après, Marker a surmonté la mort par la prière.» Lorsqu’on lit ça, écrit par quelqu’un qui ne vous connaît pas, qui ne sait rien de la genèse des films, on éprouve une petite émotion. «Quelque chose» a passé.
(…)
Essayer de donner la parole aux gens qui ne l’ont pas, et quand c’est possible les aider à trouver leurs moyens d’expression. C’était les ouvriers de 1967 à la Rhodia, mais aussi les Kosovars que j’ai filmés en l’an 2000, qu’on n’avait jamais entendus à la télévision : tout le monde parlait en leur nom, mais une fois qu’ils n’étaient plus en sang et en larmes sur les routes ils n’intéressaient personne.
(…)
mais comment font les gens pour vivre dans un monde pareil ? D’où ma manie d’aller voir «comment ça se passe» ici ou là.
(…)
da Rare Marker
Il compagno
Dvanov usciì per dare un’occhiata ai cavalli. Fuori lo rallegrò la vista d’un passerotto, affaccendato sopra una sostanziosa fatta di cavallo. Erano forse sei mesi che Dvanov non vedeva passerotti e mai aveva pensato dove fossero rifugiati. Molte cose buone erano passate oltre la povera mente augusta di Dvanov, anche la stessa sua vita spesso le scorreva intorno come un ruscello scorre intorno ad un sasso. Il passerotto volò sulla siepe. I contadini nostalgici uscirono dal soviet. Allora il passerotto si staccò dalla siepe e volando cinguettò il suo grigio canto da poveri.
(…)
I passerotti si affaccendavano intorno alle isbe, come animali da cortile. Per quanto belle siano le rondini, in autunno se ne volano via verso paesi lussureggianti, mentre i passerotti rimangono a condividere il freddo e la miseria degli uomini. E’ il vero uccello proletario che becca i suoi amari granelli. Le delicate creature della terra possono perire per le diuturne squallide avversità, ma quelle vitali come il contadino e il passerotto rimarranno e riusciranno a sopravvivere fino ai giorni caldi.
da Il villaggio della nuova vita, Andrej Platonov, Mondadori, trad. di Maria Olsufieva
Ogni incidente naturale contribuisce a riaprire un terreno chiuso
Punto VI°
Ogni incidente naturale contribuisce a riaprire un terreno chiuso. Può essere considerato come un riciclaggio del residuo su se stesso, che permette una nuova comparsa di specie pioniere.
In nota, l’esempio:
La caduta di un albero permette la comparsa in ambiente forestale di piante di ambiente luminoso. Le digitali e gli epilobi a spiga hanno animato le radure aperte dall’uragano Lothar a partire dalla primavera del 2002. L’esposizione Jardins des tempetes (Vassivière, 2002; Saint Denis de la Réunion, 2003) ha messo in mostra il potere di “giardinaggio” dei traumi naturali.
da Manifesto del Terzo paesaggio, Gilles Clément, Quodlibet, 2005
Punto del manifesto valido anche per traumi non dovuti a incidenti naturali: dedicato a George Floyd e al movimento #blacklivesmatter (e alla bocca di leone che s’è presa uno dei miei residui)