Category Archives: frattali

Reversibilità del Tempo e terreno incolto (lungo l’Evre)

(…) Dal cielo coperto cade un torpore pesante; non si sente alcuna fonte gorgogliare, alcun uccello cantare. Non è tanto l’orma di un passato favoloso a far pesare sul vallone morto un’imprecisata minaccia, bensì un sentimento di disastro totale rispetto al consueto fluire della vita. Qui, da tempo, non è cambiato nulla; i secoli sono evaporati senza lasciare tracce o conseguenze, come l’ombra delle nubi: ben più che l’aura di un’antica leggenda, questa desolazione di sterpi, è l’immediata sensazione che a esercitarvi un incontrastato dominio sia il sortilegio fondamentale, ossia la reversibilità del Tempo. Quando mi ci trovo fatico sempre a staccarmi da questi ingrati crepacci dell’Ovest, acquarellati senza allegria dal giallo smorto dei ginestroni; ho l’impressione che potrei camminare per tutto il giorno, tra le umide gravine di La Hague che in mezzo a colline gonfie e rotonde come seni precipitano verso il mare color di lillà, tra i burroni di brughiera della montagna limosina, pervasi dal tintinnio dell’acqua e dai sonagli delle mucche, chiazzati di rosa e di un giallo esplosivo come quei tappeti che in Oriente si lasciano ad asciugare, nella più assoluta solitudine, sui guadi rocciosi. In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti: il falsario di Ossian, qui, senza saperlo, si ritrova poeta. Là dove non c’è più né strada, né recinto, né diga, la mente si libera anche del morso e della briglia, che qui mai hanno potuto stringere il loro giogo sul pelo selvaggio: il sentimento della vera libertà, per me, non è mai interamente separabile da quello del terreno incolto.

da , di Julien Gracq, L’Orma Editore, trad. di Lorenzo Flabbi

Il Simurg

Il remoto re degli uccelli, il Simurg, lascia cadere nel centro della Cina una splendida piuma; stanchi della lunga anarchia, gli uccelli decidono di cercarlo. Sanno che il nome del loro re vuol dire Trenta Uccelli; sanno che la sua reggia si trova sul Kaf, la cordigliera che cinge la terra.

Intraprendono la quasi infinita avventura; superano sette vallate, o mari; il nome della penultima è Vertigine; l’ultima si chiama Annientamento, Molti pellegrini disertano; altri periscono. Trenta, purificati dalle fatiche, giungono alla montagna del Simurg. Finalmente lo contemplano: si accorgono che essi stessi sono il Simurg e che il Simurg è ciascuno di loro. Il Simurg contiene i trenta uccelli e ciascun uccello il Simurg. (Anche Plotino, Enneadi, V, 8, 4 – afferma un’estensione paradisiaca del principio di identità: “Tutto, nel cielo intelligibile, sta dappertutto. Qualsiasi cosa è tutte le cose. Il sole è tutte le stelle, e ogni stella è tutte le stelle, e ogni stella è tutte le stelle e il sole”).

da Il Simurg e l’Aquila in Nove saggi danteschi, Jorge Luis Borges, Adelphi, Piccola Biblioteca, trad. di Tommaso Scarano

 

Derrier le Miroir

Se gli incontri avessero una forma e, tra i nostri, ne considerassimo uno a caso, la sua figura avrebbe dimensione compresa tra due e tre: di volume nullo, tuttavia di lunghezza infinita, perché infinita è la distanza che ci separa. E, come nel tratto di costa omoteticamente frastagliato, vedremmo ripetersi in un’alternanza senza fantasia: della testa, r volte l’inclinazione a destra; della stessa, n volte il buttarsi indietro in una risata; o volte uno sguardo con intenzione a mento basso; p volte la distensione della mano ad illustrare un’altezza pasquale; q volte una digitonegazione; r volte un congedo.

da Contemplazioni e zzz, Carmela Moscatiello

Noi

State a sentire. Gli ospedali pubblici delle grandi città dispongono di spazi in cui si rimane parcheggiati su sedie a rotelle o lettighe: sono lì per le urgenze; prima e dopo la risonanza magnetica o un’altra analisi; prima di essere operati, per l’anestesia, o dopo, per il risveglio… Si può aspettare lì da una a dieci ore. Scienziati, ricchi e potenti del mondo, non evitate questi luoghi in cui si viene a contatto con sofferenza, pietà, collera, angoscia, grida e lacrime, talvolta preghiere, esasperazione, suppliche di chi chiama invano o maledice chi non risponde, silenzio teso degli uni, sgomento degli altri, rassegnazione dei più, anche riconoscenza… Colui al quale non è mai capitato di mescolare la sua voce a questo concerto dissonante senza dubbio conosce la propria sofferenza, ma ignorerà sempre che cosa significa “noi soffriamo”, la comune lallazione emanata dall’anticamera della morte e delle cure, purgatorio intermedio in cui ciascuno teme e si augura una decisione del destino. Se vi ponete la domanda: che cos’è l’uomo?, attraverso questo vocio date, sentite, capite la risposta. Prima di averlo ascoltato, anche un filosofo non è che uno sciocco.
Ecco il rumore di fondo e la voce umana che sovrastano i nostri discorsi e parlottii.

da Elogio degli ospedali in Non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Michel Serres, Bollati Boringhieri, trad. di Gaspare Polizzi

Foto di Renato Ferrantini

 

Il testimone

Sapere chi mi guarda. Con chi scrivo, con chi parlo sottovoce, con chi resto in silenzio. Chi mi fa delle domande alle quali non so rispondere. Con chi condivido la mia lingua muta, la mia scrittura disegnata. Sempre, continuamente, sono con qualcuno, nel mio silenzio e nel suo. Non mi parla ma io lo capisco, è in me, non so niente di lui, o di lei. Questo qualcuno non ha sesso, non vi è differenza tra lui e lei, è un testimone che mi accompagna. Il giorno in cui mi volterà le spalle, morirò. Potrei chiamarlo la mia anima. Ecco, io sento una forma. Se infilassi la mano nel mio petto, la toccherei e saprei forse che lei sono io.
Da un lato porto questa forma che è quasi tangibile. Dall’altro, porto il colore che evolve nel suo focolare. Insieme mi configurano e configurano il testimone. Esso talvolta chiarisce i miei pensieri, talvolta li sprofonda nell’oscurità. Appena sente qualcosa, anch’io lo sento e viceversa. Ciò si ripercuote in me, causandomi un intenso dolore lancinante, o una felicità improvvisa e leggera.
Cosa vuol dire sentire? E in modo così individuale e intrasmissibile che nulla riesce a modificare?
Il sentire si pianta come un coltello. Un’immagine, un pensiero, un ricordo e il coltello affonda la sua punta nella mia carne. Mi scanso ma lui mi ritrova. Cerco di interrogare il testimone ma non so dov’è, chi siamo. Mi avvicino a lui il più possibile per avere una possibilità di conoscermi. Di sapere per quale motivo reagiamo in questo modo.
Cos’è successo? Chi mi ha messo in questa situazione?
Perché questo testimone è sempre lì? Da me a lui il cammino non è lungo, lo percorro coi miei passi, le mie parole, i miei gesti. Lui indietreggia quando io avanzo, cerco di accerchiarlo, di sentire da più vicino il battito che ci unisce. Capita talvolta che mi impedisca di abbordare la realtà e le sue molteplici sfaccettature. Nel cammino, da lui a me, vedo sfilare volti amati, pianure dove corrono cavalli, un fiume che si getta nel mare. Le cose che mi mostra sono assenti. Una certezza: noi apparteniamo alla famiglia dell’assenza.

da L’alfabeto del fuoco. Piccoli studi sulla lingua, Silvia Baron Supervielle, Pagine d’Arte, trad. di Anna Bertaccini

Dalla costa ligure a La Secca di Moneglia, ai Bagni Arcobaleno, alla piscinetta

Di un certo segmento, io prelevo il terzo centrale, e vado iterando l’operazione in tutti i segmenti residui. Alla fine di un conto interminabile, resta un insieme fortemente lacunoso. Posso, a mio piacimento, dedicarmi a prelievi del genere, su un cibo, su un selciato, su un volume dello spazio ordinario. Ne tolgo, qua o là, un cubo parziale di lato dato, poi ricomincio l’operazione per ognuno dei cubi che restano nel cubo globale, di volume pari al buco praticato. Mandelbrot la chiama una spugna di Sierpinski (1). Non è più un fantasma prescientifico, è un buon oggetto chiaro e preciso, anche se il caso mette a soqquadro l’iterazione regolare di simili operazioni di forature. Io credo addirittura di aver bisogno di questa spugna per comprendere io mondo. L’idea di omeomeria, in vuoto, è il caso di dire.

pp.128 e 129 di Passaggio a Nord-Ovest, Hermes V, Michel Serres, Pratiche Editrice, a cura di Mario Porro

Per molti versi

Per molti versi

(Una sirena scalza canta il Canto del frattale, dereb., IV, ii [canto], v.16-33)

“Per molti versi l’universo è una rima
nascosta rimalmezzo alla parola
stessa moltiplicata per se stessa
Per questo verso il multiverso è un coso
ipercosato punto
di cui non posso (o posso?) scriver punto
una forma ageometrica ed ametrica
iperdimensionata all’infinito
ed il cui fine è andare a non finire

Ma se il Mondo è un frattale alla potenza
in pieno atto allora allora basta
trovare il primo
numero primo la forma maestra
che c’insegni il sublime isomorfismo
d’Ognicosa del Tutto l’ipoipocoso!

Ma guai a chi cerca le rime fra le cose
e trova le sue cose fra le rime…”

“Dici a me?”

 

Quel che refuse

(La medesima sirena seguita il medesimo canto, dereb., IV, 4 ii, v. 50-63)

“Ho veduto un frantume di frattale
Frastagliato in migliaia di se stessi
Ho veduto nel gioco dei suoi sessi
Moltiplicar la frottola animale

Ho veduto nei canti i suoi riflessi
Che son primo splendore al naturale
Ho visto l’universo e forse il male
Eteroclito ho visto nei suoi nessi

Il Tutto? Uno. E questo sono io
Guardatemi! Ho veduto ho veduto
Nei miei fosfeni gli occhi. Eccone dio

Pregate! Poiché ci è negato il nero
D’ogni colore: luce! (è risaputo
Che non abbiamo palpebre al pensiero)”.

da Rimato a morte, Giulio Braccini, Edizioni Braccine