Category Archives: fotografia

Dedicato a Alika Ogorchukwu

“With the Harrises presenting mutilated black bodies, (…) was providing another layer of voyeuristic pleasure generated by the spectacle of fragmented black bodies on the edge of life” (p.43)

“When, more specifically, the act of seeing is presented as an act of witnessing violence, and, most specifically, witnessing the conversion of bodies into objects, viewers become parties to a reverse anthropomorphosing. Here those who were previously human have lost their humanity, and the very staging of viewers within the frame reinforces the violence of a dehumanising that dues more than make impossible the category of the human.”

(Samuels, 2006, citato da Mark Sealy in Decolonising the Camera (p.51): Photography in Racial Time)

Le mani nella foto sono mie.

Se la colpa è degli uomini allora che Iddio venga

Se la colpa è degli uomini allora che Iddio venga
a chiamarmi fuori dalle sue mura di grossolana cinta
verdastra come l’alfabeto che non trovo. Se il muro
è una triste storia di congiunzioni fallite, allora
ch’io insegua le lepri digiune della mia tirannia
e sappia digiunare finché non è venuta la gran gloria.
Se l’inferno è una cosa vorace io temo allora d’essere
fra quelli che portano le fiamme in bocca e non
si nutrono d’aria! Ma il vento veloce che spazia
al di là dei confini sa coronare i miei sogni anche
di albe felici.

da Variazioni belliche, Amelia Rosselli, Garzanti, 1964

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In effetti nell’interrompere il verso anche lungo ad una qualsiasi terminazione di frase o ad una qualsiasi sconnessa parola, io isolavo la frase, rendendola significativa e forte, e isolavo la parola, rendendole la sua idealità, ma scindevo il mio corso di pensiero in strati ineguali e in significati sconnessi. L’idea non era più nel poema intero…ma si straziava in scalinate lente, e rintracciabile era soltanto in fine, o da nessuna parte.

da Spazi metrici

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Interrompevo il poema quando era esaurita la forza psichica e la significatività che mi spingeva a scrivere; cioè l’idea o l’esperienza o il ricordo o la fantasia che smuovevano il senso e lo spazio.

da Spazi metrici

il poeta e il tempo

Il poeta serve il tempo – giacché lo serve! – in modo involontario, cioè fatale: non posso non. Che la mia colpa di fronte a Dio sia merito di fronte al secolo!

L’unione tra il poeta e il tempo è un matrimonio forzato. Un matrimonio di cui, come chiunque abbia subito una violenza, il poeta si vergogna e da cui cerca in ogni modo di liberarsi – i poeti tramontati fuggendo nel passato, i nascenti nel futuro – come se il tempo fosse meno tempo per il fatto che non è il mio! Tutta la poesia sovietica è una puntata sul futuro. Solo Majakovskij, questo martire della propria coscienza, questo ergastolano dell’oggi, ha amato l’oggi: cioè ha superato in se stesso il poeta.

Il matrimonio del poeta con il tempo è un matrimonio forzato e per questo destinato al fallimento. Nel migliore dei casi: bonne mine à mauvais jeu, nel peggiore – nel più frequente – nel più reale – un tradimento dopo l’altro, e sempre con lo stesso amante: quell’Unico che ha una moltitudine di nomi. “Sfamalo pure come vuoi, il lupo ha sempre gli occhi al bosco”. Noi tutti siamo i lupi dell’impenetrabile bosco dell’Eterno.

(…)

– Il tempo esiste per l’uomo, e non l’uomo per il tempo.

Boris Pasternak è là, io – qui; attraverso tutti gli spazi e i divieti, interiori ed esteriori (Boris Pasternak è con la Rivoluzione, io – con nessuno), Pasternak e io, senza esserci accordati, pensiamo a una stessa cosa e diciamo la stessa cosa.
È questo l’essere contemporanei (Meaudon, gennaio 1932)

da Il poeta e il tempo, Marina Cvetaeva, Adelphi, a cura di Serena Vitale

Nella foto, dal Fondo Faraci, il poeta tra il tempo passato e il presente (pronto al futuro)

La luce profonda chiede per apparire

La luce profonda chiede per apparire
Una terra battuta e sonora di notte.
È un legno tenebroso quel ch’esalta la fiamma.
Occorre alla parola stessa una materia,
Inerte sponda di là d’ogni canto.

Dovrai per vivere varcare la morte,
La più pura presenza è un sangue versato.

Da Ultimi gestiMovimento e immobilità di Douve, Yves Bonnefoy, Einaudi, trad. di Diana Grange Fiori

Sottacqua

Ho sognato di trovarmi alla vecchia sede della libreria, che era tornata ad essere tale e gestita da persone che tutti – fuorché me – conoscevano. Mentre giravo per il locale, divenuto assai più grande, questo ha iniziato a riempirsi d’acqua ed io e i miei cari non riuscivamo a guadagnare l’uscita. Mi sono svegliata prima che l’acqua ci sommergesse.

La reale necessità di un luogo è stabilita dal numero e dal tipo di persone che vi si recano. Perfino Agafio non viene più.

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30 gennaio 1947

Devo assolutamente trovare un’altra sede: siamo stretti come sardine mentre gli affari sono in piena espansione. L’unico modo per avere uno spazio più grande senza svenarsi è comprare un bordello. La legge Marthe Richard qualche mese fa ha abolito la regolamentazione della prostituzione imponendo la chiusura delle case di tolleranza e ora sono tutte in vendita. E così me ne vado in giro per i casini della città alla ricerca di un affarone.

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9 febbraio 1947

Ogni appuntamento in banca: fiasco totale. E questo nonostante tutti i premi, la pubblicità, eccetera. La persona con cui ho parlato non capisce niente di libri e non mi aiuterà.

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12 aprile 1947

Ho appena venduto il mio ex bugigattolo a una signora di nome Maria Marquet. Ci farà un negozio di oggetti in opalina. le Editions Charlot si trasferiscono in un ex bordello al 18 della rue Grégoire-de-Tours, famoso per aver annoverato tra i suoi clienti il poeta Apollinaire. Abbiamo comprato l’intera palazzina a un prezzo vantaggioso (sarà forse perché dentro ci hanno assassinato il proprietario?). Un bordello. Un poeta. Un assassinio. Se non risaliamo la china così!

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12 agosto 1948

Gli azionisti della casa editrice, che poi altri non sono che i miei amici, hanno deliberato: mi vogliono fuori dalla società per tenermi dentro come consulente letterario. Charles Poncet e io dobbiamo farci da parte. Da un’impresa che porta il mio nome. Charlot senza Charlot. Assurdo. Siamo in rosso di 22 milioni. Ho la nausea al solo pensiero. Amrouche si occuperà della liquidazione, una parte del personale verrà licenziata, sarà un duro colpo. Sono costretto a vendere tutte le mie cose (che non sono poi molte) per pagare i debiti. Ho cercato di tirare su il morale a Dominique Aury e Madeleine Hidalgo, che sembrano molto sconfortate.

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2 settembre 1948

La direzione è ormai nelle mani di Amrouche e Autraud. Il clan Charlot, come lo chiama Jules Roy, si è sfaldato. Quasi tutti i miei autori passano a Gallimard, Seuil e Julliard.

Me ne torno ad Algeri, solo e con i miei sogni di letteratura e di amicizia mediterranea.

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1 dicembre 1949

Il tribunale di Parigi ha decretato il fallimento delle Editions Charlot. Crudele avventura parigina. Fine di un’amicizia collettiva.

Un capitolo della mia vita si è brutalmente concluso.

da La libreria della rue Charras, di Kaouther Adimi, L’Orma Editore, trad. di Francesca Bononi

L’acqua che ti fece

Sei alta, pianta mia, di foglie ricca:
filtri la migliore luce, quella uscita
dalla vite, lungo il sampietrino,
scansando il pampino, con sguardo che ammicca.

Quando malferma piego la grande
bottiglia, formando piccoli gorghi
di poltiglia, mi piace guardare
mentre bevi. Davvero, mi piace.

Perché non parli? L’acqua che ti fece
barbara e verde e rossa, in autunno,
son io che la versai.

Contemplazioni e zzz, Carmela Moscatiello

Gente incontrata

Esseri umani ho incontrato che,
quando si chiedeva loro il nome,
timidamente – come se non potessero pretendere
di possedere anche soltanto un modo di chiamarsi –
“signorina Christian” rispondevano e poi:
“come il nome”, e ti volevano
agevolare la comprensione,
nessun nome difficile come “Popiol” o
“Babendererde” –
“come il nome” – prego, non incomodi
la sua facoltà mnemonica!
Esseri umani ho incontrato che
coi genitori e quattro fratelli in una stanza
crebbero, di notte, con le dita nelle orecchie,
studiavano al focolare,
si fecero strada, di fuori belle e ladylike come contesse –
di dentro miti e operose come Nausicaa,
avevano la fronte pura degli angeli.

Mi sono spesso domandato e non ho trovato risposta,
da dove venga la dolcezza e il bene,
nemmeno oggi lo so e ora devo andare.

da Aprèslude, Gottfried Benn, Einaudi, trad. di Ferruccio Masini