Category Archives: claustrofilia

Raccapriccio

Era come se  l’irrimediabile si fosse compiuto:
L’orrore era al suo culmine
Insieme alla disperazione
E allo sconforto.
E ciò che si estendeva
A tutta la mia vita spirituale futura.
Dio allora si era reso introvabile.
C’era un punto nero
Dov’era confluita la mia sorte
Che restava lì
Inchiodata
Fin quando il tempo
Non venga riassorbito dall’eternità.

da Poesie della crudeltà, di Antonin Artaud, Stampa Alternativa, trad. di Pasquale Di Palmo

“Povera umanità, la mia compassione è inesauribile”

Quando godiamo, ci troviamo in un buco che ci acceca. Separati dagli altri, ci aggrappiamo fisicamente a loro. Tenuti lontani dalla gloria e dal progresso, ci illudiamo di gloria e autocompiacimento. Non possediamo niente e niente abbiamo in atto: ci sembra di possedere l’intero universo attraverso un essere specifico. Ci immaginiamo aperti al mondo con il quale comunichiamo, mentre siamo confrontati a un oggetto corporeo che detiene un mondo chiuso. Ne usciamo sempre così poco immortali e indispensabili, e meno lucidi.

da Muscolature, Nathalie Gassel, ES, trad. di Monica Martignoni

The den

Il mio senso di alienazione era aggravato dagli effetti persistenti di una perdita avvenuta in mia assenza: quella del mio rifugio privato. Tutti gli animali hanno bisogno di una tana in cui andare e nascondersi di tanto in tanto. Mentre ero in prigione, col trascorrere dei giorni, mi resi conto che non vedevo l’ora, una volta scarcerato, di rintanarmi nel mio rifugio personale. L’isolamento aveva trasformato ciò che una volta era semplice abitudine in un bisogno viscerale.
Il mio rifugio non c’era più. Si trattava di un garage che avevo trasformato personalmente ma di cui rimaneva solo il guscio, cosa che me ne faceva prendere distanza ancora di più. Una visita particolare, o forse una serie di visite, lo avevano trasformato in un magazzino qualsiasi. Non avrei mai pensato che nel tempo si potesse provare tanta empatica per una collezione di opere d’arte, che le si potesse attribuire un’aura di inviolabilità. Eppure era così. Senza quel luogo di fuga, ero diventato irritabile, impaziente e irrequieto; me ne accorgevo da solo, senza bisogno di occhiatacce o di proteste. La distanza fisica da quell’ambiente, di per sé estraniante, sarebbe stata solo una questione di tempo.
Uscito di prigione, andavo scoprendo molto di me stesso. Mentre ero in cella, mi ero convinto che la condizione della detenzione, il cui ambiente fisico è imposto, di certo non scelto, immunizza i detenuti con germi in grado di resistere a qualsiasi futuro senso di privazione. Mi ero convinto di essere indifferente al senso di proprietà, di qualsiasi tipo di proprietà si trattasse. Tuttavia, appresi a poco a poco che la condizione di libertà dà vita a desideri e aspettative, tra cui la voglia di uno spazio abituale, di un santuario, di un luogo fisico, palpabile e intimo, non poi così diverso da quello della cella di isolamento, con la differenza, naturalmente, che si tratta di un posto di propria scelta e designazione. Già alienato dall’ambiente pubblico, adesso mi ritrovavo privato di un’intimità che avevo tanto agognato, un’intimità in cui avrei potuto trovare rifugio, isolandomi dal mondo esterno, e da cui avrei potuto tentare di riconquistare fluidità nel processo creativo.
Può darsi che se il mio matrimonio, brevemente resuscitato dalle tribolazioni condivise e dalle emozioni del ricontrarsi, avesse tenuto, il palpito dell’alienazione sarebbe stato attutito. Tuttavia i contrasti che prima della mia incarcerazione avevano trasformato il mio matrimonio in un mero sforzo di volontà riaffiorarono in un baleno, intensificando in me il desiderio di una comoda fuga quotidiana, di un riparo familiare e accogliente. Andavo dunque a rifugiarmi nel garage trasformato, ma aveva perso l’aura, l’identità che lo contraddistingueva, in cui prima riuscivo a ritrovare me stesso.

da Sul far del giorno, Wole Soyinka, La nave di Teseo, trad. di Alessandra Di Maio

Sybil Gage, mente centrale di Wallace Stevens

Qual è l’aspetto della sibilla? Non,
Una volta tanto, la donna lustrata, seduta
Fra colorazioni armoniose, rorida e gemmea
Di esse: simbolo sgargiante seduto
Sul seggio del sacro, iridato,
Che penetra lo spirito con l’apparenza,
Summa delle vite più elevate
E loro scettro reggente, corona
Ed estremo fulgore e profondo spettacolo.
È invece la sibilla dell’io,
L’io come sibilla, il cui diamante,
Il cui principale abbracciare ogni ricchezza,
È la povertà, il cui gioiello trovato
Al più esatto centro della terra
È la necessità. Per questo l’aspetto della sibilla
È una cosa cieca che cerca tentoni la sua forma,
Una forma che è zoppa, una mano, una schiena,
un sogno troppo povero, troppo indigente
Per essere ricordato, le vecchie fattezze
Consunte e chine al nulla,
Una donna che guarda giù per la strada,
Un bimbo addormentato nella sua vita.
Misurano il diritto di usare. La mancanza produce
Il diritto di usare. La mancanza nomina col suo fiato
Categorie di nuda necessità.
Le quali solo nominarle è creare
Un aiuto, un diritto all’aiuto, un diritto
A sapere cosa aiuta e a raggiungere,
Per diritto di conoscenza, un altro piano.
La donna lustra è ora vista
In un isolamento, separata
Dall’umano nell’umanità,
Parte dell’inumano più,
L’ancora inumano più, eppure
Un inumano dalle nostre fattezze, noto
E ignoto, inumano per breve tratto,
Inumano per un tempo piccolo, minore”.

La grande vela di Ulisse sembrava,
Nelle pause di questo soliloquio,
Viva del battito di un enigma…
Come se un’altra vela procedesse
Diritta attraverso un’altra notte
E ammassi di stelle pendule si tutta la via.

da La vela di Ulisse – VIII, Wallace Stevens, da Il mondo come meditazione, Guanda, trad. di Massimo Bacigalupo

 

Nel 1954, un anno prima di morire, Wallace Stevens scriveva di Sybil in sé: pensiero dominante, musa, finzione suprema, monologo interiore, mente centrale.

Per saperne di più: (http://wallacestevens.com/wp-content/uploads/2016/05/Vol.-32-No.-1-Spring-2008.pdf)