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Fra qualche tempo

Fra qualche tempo
ore anni minuti
non sarò neppure
capace di invecchiare
ma quanto
rimarrà in me
non vorrà avere età
per svanire
con qualche vanto
o pianto
di propositi perduti

vorrà forse mostrarsi
con il male ed il bene
da mettere a confronto
e un rimpianto solo
là in fondo
un puntino luminoso
che continuerà a brillare
dentro le ombre.

(1989)

Roberto Rebora

da Tre inediti e un’intervista a cura di Giuliano Donati, Poesia – Mensile di cultura poetica, Anno III, numero 28, Aprile 1990

Tempo fa il Mucògeno mi leccò la faccia nel sonno: ridestandomi nel raccapriccio, capii immediatamente che la sua flegmatica bava, impregnandomi la pelle, mi stava trasmettendo dei dati. Fra questi un apologo, corrispondente a un dipresso al testo che segue:

“Ogne conchiglia ha lo càlcare secreto e formato dalle medulla sue; e tutto e congruo e verace. Ma se il mollusco defunge, e l’asilo deserto viene occupato da l’infingardo Paguro, questa l’addimandiamo Menzogna, poiché tutto è distorto: epperò la natura stessa del parassito la denuncia per tale, sicché a noi sape tuttavia di socratica Verità. Ma dessi anche il caso, ch’è il tertium, per cui il mollusco maliziosamente dia al proprio alloggio forma non necessaria, com’è dire bivalve allora che sia d’uopo di una, oppure in guisa di coclea allor che sua stirpe vorrebbe cuspide ovver cannolicchio: dove non è chi non veda come lo starsi dell’informe mollurie nel càlcare strutturato partecipi eziandio e del falso (poiché mentita è la forma) e del vero (poiché essa è nella Storia). Diximus”.

Non ci vuole molto a cogliere l’antifona: cristallizzandomi, mi sono falsificato: e vivendo e scrivendo, e scrivendo della mia vita e vivendo nella mia scrittura.

da Leggenda privata, Michele Mari, Einaudi

Oggi alle 18 incontro con M.M.

’Associazione Civita – Piazza Venezia, 11 – Roma

Il cianciatore

Chiudi gli orecchi, amico, e dal torrente
Di rovinose e rapide parole
Difenditi, se puoi: sento che giunge
Il garrulo Alcimon. Odi già come
Fuor de la soglia ancor da lungi grida
Con alta voce, e a le atterrite orecchie
Dà de l’arrivo suo non dubbio avviso.
Sì paziente timpano o sì forte
Non v’è, che un’ora a la incredibil regga
Strana loquacità. Dovunque ei giunge,
Entrato appena, interroga e risponde
Tutto egli solo: e mille cose ei chiede,
Di mille s’informa; logico ragiona,
Storico narra, ed orator perora:
Né fiato prende: e se altro a dir non resta,
Ripete ancora; e senza posa ei parla.
Ognun l’incontro ne paventa, e schiva
D’essergli appresso. Misero colui
Ch’ei coglie incauto. Ei si contorce invano
De le parole al diluviar dirotto;
Ché forza è pur che suo malgrado ascolti:
Qual pellegrin che per deserta via
Colto a l’aperto da improvvisa pioggia,
Ricovra al tronco di ramosa quercia,
E, in se ristretto e rannicchiato, aspetta
Che passi, o scemi il tempestoso nembo.
E qual por freno a l’impeto che il porta?
Digli che taccia: ei non t’ascolta. Parla
Tu stesso: ei grida, e ti sopprime. Dormi:
Egli segue a parlar. Svégliati: e il trovi
Che parla ancora; e con perpetuo suono
Ti senti intorno l’instancabil voce.
Come notturno svegliarin se scocca
L’interno gioco, al turbinoso giro
De la veloce sprigionata ruota,
L’elastico martello il cavo seno
Cedere batte del sonoro bronzo;
Onde, a i colpi frequenti, e quai di densa
Grandine spessi, dal percosso orecchio
Rapido fugge e spaventato il sonno;
Tal non mai ferma la sua lingua o muta,
Di molle sembra artifizioso ordigno,
E sì ruota volubile e sonora,
Che il capo introna, lo stordisce e assorda,
E, con le mani ne gli orecchi, sforza
A cercar scapo con la fuga altrove.
Ma fuggi indarno; ch’ei t’incalza, e dove
Non giunge il passo, alza la voce, e parla
Fin che ti vede; e poiché sol rimane,
A parlar segue; e di parlar contento,
Poco si cura poi che alcun l’ascolti.
Cosa ne la natura ei non abborre
Quanto il silenzio; né a null’altro nacque
Fuor che a parlar. Parlando visse, e vuole
Parlar morendo, e ne la tomba ancora
Continuando de la lingua il moto,
Di franger spera il ferreo sigillo
Che morte al labbro taciturno imprime.

dalle Conversazioni di Clemente Bondi nel volume dedicato alla poesia della Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi

I beni umani

No il posseder, ma lo sperare alletta
L’uom; che nel senso e ne l’idea d’un bene,
Sempre trova minor quello che ottiene,
Finge sempre maggior quello ch’aspetta.

Mesto può fare un cor gioia perfetta,
Se è tal, che di maggior tolga la speme:
Se non lusinga l’avvenir, già sviene,
Nato appena, il piacer che ora diletta.

Per prova il so. T’amai, d’essere amato
Presi lusinga; e il tuo futuro amore,
Sperato solo, mi facea beato.

M’amasti; il seppi: ah che in quel sol momento
Sì esaurì la natura; e or langue il core,
Fatto incapace di un maggior contento!

 

Clemente Bondi, dalla Crestomanzia italiana di Giacomo Leopardi

Appunti per Mi chiamo M.M. n.32

Medusa o Baubo?

Rembrandt nella Congiura di Claudio Civile, che è forse il suo capolavoro, rappresenta il re come re orbo, la spada diritta davanti, le lame degli altri congiurati che vanno ad incrociarvisi. Rembrandt verifica la potenza della prospettiva che “buca” il quadro e il fascino del chiaroscuro che consente le fantasmagorie dei suoi complotti tramati nell’ombra, e può farlo perché il suo eroe, un altro se stesso, ha un occhio solo.

(…)

(…) un essere per metà carne e per metà statua di pietra. Così è il pittore che vedendosi vedersi, si pietrifica e si acceca.

(…) sul significato simbolico dell’accecamento che prelude alla morte

(…) la macchia sull’occhio, nella lingua corrente, è un leucoma, una macchia opaca della cornea. In senso figurato significa essere accecati, ad esempio dai pregiudizi. Etimologicamente, la macchia, théke, è la teca, la custodia.

da Medusa, Jean Clair, Abscondita, trad. di Valeria La Via e Giancarlo Ricci

collegare le considerazioni di J.C. al film di Peter Greenaway su La ronda di notte di Rembrandt

Appunti per Capsula petri n.25

La maschera di Medusa non ha il silenzio appagato e definitivo della testa di morto: al contrario, provoca il grido di morte, l’orrore della disorganizzazione dei tratti, la paura di perdere il contegno. Quello che scopriamo non ci rassomiglia. Il grido sarà allora più vicino al pianto del bambino appena nato che al rantolo del morente. E’ il grido pietrificato di colui che scopre di non essere in realtà un dio bensì un mostro deforme, un nano, un essere da incubo. Il confronto meduseo è un gioco di specchi dal rischio mortale. Offre il godimento di un vedere puro, di un vedere senza sapere cosa si vede, ma la scoperta è ripagata dall’orrore di essere visti: vedendo, si scopre che “sì” è proprio “quello”:(…)

da Medusa, Jean Clair, Abscondita