Category Archives: attenti a quei due

L’Ammiraglio de Ruyter nel castello di Elmina di Emanuel De Witte e Gli ambasciatori di Hans Holbein il giovane

Un africano è chino sulle ginocchia a reggere un dipinto a olio per il padrone. Il dipinto raffigura il castello che sovrasta uno dei principali centri della tratta degli schiavi in Africa occidentale.

(l’ammiraglio, come i due ambasciatori nel celebre dipinto di Holbein, appartiene) … a una classe persuasa che il mondo fosse lì per fare loro da casa. Nella sua forma estrema tale convincimento era confermato dalle relazioni che si stabilivano tra conquistatore coloniale e colonizzato.

Tali relazioni tra conquistatore e colonizzato tendevano ad autoperpetuarsi, La vista dell’altro confermava entrambi nella propria disumana stima di sé. La circolarità del rapporto – o anche la reciproca solitudine – (ci mostra che) il modo in cui l’uno vede l’altro, conferma il modo in cui ciascuno vede se stesso.

da Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità, John Berger, Il Saggiatore, trad. di Maria Nadotti, pp.97-98

Nota: è possibile sostituire con una figura maschile e una femminile, i due poli della diade descritta.

Autonomia e aggressività

(…) ogni movimento di distacco e di autonomia si accompagna al sorgere di insopportabili angosce di distruzione dell’altro e, correlativamente, di se stesso.

Ci si può chiedere come mai si verifichi questo fatto. La prima spiegazione è che la spinta all’autonomia in un essere appartenente (parzialmente) a un altro implica di per sé, ipso facto, un atto violento, una vera e propria frattura. Non è necessario postulare alcuna particolare accentuazione, innata o acquisita, dell’aggressività. Si potrebbe anzi sostenere che l’aggressività – intesa a questo punto, in primo luogo, come spinta all’autoaffermazione – è qui singolarmente scarsa, visto che il bambino è rimasto fissato al rapporto di appartenenza, vale a dire a un rapporto di sicurezza passiva, di delega ad altri delle proprie responsabilità. In queste condizioni, la spinta all’autonomia significa veramente un evento traumatico, qualcosa che suona come reale minaccia di morte.

Ma tale spinta non basta forse a chiarire il fatto che la minaccia di morte riguarda in primo luogo l’altro. Per Freud, vi è all’origine della nevrosi ossessiva un desiderio di morte dell’altro, che viene sostituita successivamente dall’angoscia per la sua morte. Siamo dunque nell’ambito di una vicenda puramente pulsionale, che rimanda tutt’al più a una determinazione costituzionale, organica, della pulsione stessa. Il postulato che abbiamo indicato riconduce invece essenzialmente di una rete costitutiva, una rete interpersonale di rapporti e desideri.

Ora, dal momento che l’essere debole è in realtà il bambino, il suo movimento di distacco dovrebbe comportare in primo luogo, o prevalentemente, angosce di distruzione di sé, piuttosto che di distruzione dell’altro.
Si potrebbe fare la seguente ipotesi. Per avviare il processo di separazione, il bambino deve qui basarsi, in misura molto superiore alla media, su una sua identificazione con la figura onnipotente. Proprio perché egli è parte di lei, per tentare di staccarsene, egli diventa lei, diventa figura onnipotente. Ma in questo scambio di ruoli si attivano angosce persecutorie precedenti, legate alla paura di perdita di questa figura. Infatti, nella situazione di base che abbiamo postulato, ogni interruzione del rapporto da parte di chi si cura del bambino deve determinare il sorgere di un’aggressività violenta che, proiettata sull’adulto, diventa timore della sua aggressività. Abbandonando anche per un momento il bambino, l’adulto si trasforma in un suo attivo persecutore. Ora, nel momento in cui il bambino, per distaccarsi, assume la figura dell’adulto, egli diventa contemporaneamente il persecutore dell’adulto-bambino. Ecco quindi che il movimento di autonomia si accompagna regolarmente al sorgere di angosce di morte dell’altro.

Si crea in definitiva una posizione d’indecidibilità, un’aporia senza soluzione possibile. Rimanere nella situazione di appartenenza delineata, significa avere un’identità, ma appena accennata, correlativa e dipendente da quella figura onnipotente, Proprio per questa debolezza, è costante il pericolo – e la tentazione – di un riassorbimento nella posizione fusionale precedente. Tentare di uscire da questa posizione per crearsi un’identità propria, indipendente, implica il rischio di distruzione del rapporto con la figura onnipotente e quindi l’affiorare di una situazione di isolamento, di solitudine colpevole, con immediato pericolo di annientamento. La posizione di appartenenza e partecipazione al polo onnipotente della diade, costituisce quindi l’assicella sospesa su due abissi antitetici: l’adeguazione totale alla figura adulta, con scomparsa di sé, e l’autonomia totale da essa, con analogo pericolo immediato.
Sospeso su questa assicella, il bambino rimane immobile, e in questo modo è sfiorato, non però pervaso, dalle angosce che ogni movimento gli procura. Se prevale infatti lo spostamento in direzione di una più intima fusione con la figura onnipotente, sorge subito il problema della perdita della propria identità che, per quanto limitata e dipendente, è però ben presente. A questo punto si formano caratteristiche angosce di annullamento infantili e si pongono le premesse dei futuri quadri di cosiddetta “depersonalizzazione”. Se il movimento prosegue, compaiono angosce di persecuzione in senso stretto: l’aggressività del soggetto, scatenata dalla accresciuta pervasività della figura adulta, si fa senso di immediata aggressività da parte di questa, proprio per la comunicazione esistente ai due poli del rapporto.
Se al contrario, prevale il tentativo di autonomia, sorgono come si è detto le angosce di distruzione dell’altro, con conseguente senso di colpa. Si profila la depressione. Se il senso di colpa viene erotizzato, ne deriva quella condizione di “masochismo psichico” (…).

da La freccia ferma. Tre tentativi di annullare il tempo, Elvio Fachinelli, Edizioni L’Erbavoglio, 1979 (pp.84-86)

Il Ti amo di Xuela come il salto di Katchen di Kleist

Me ne stavo sotto la veranda, sprofondata nei miei pensieri, e mi godevo pienamente la disperazione che provavo per me stessa. Avevo un vestito indosso; quella mattina mi ero pettinata i capelli; quella mattina mi ero lavata. Non guardavo niente in particolare quando vidi la bocca. Stava parlando con qualcun altro, ma guardava me. Il qualcun altro con cui stava parlando era una donna. In quel momento la sua bocca non era come un’isola che riposa in mezzo al mare, ma piuttosto come un pezzetto di terra visto da una grande altezza e messo in movimento da una forza non facilmente visibile.

Quando si accorse che lo guardavo aprì ancor più la bocca, e quello dev’essere stato il sorriso. Vidi allora che c’era un grande spazio vuoto fra i due denti davanti, probabilmente voleva dire che non ci si doveva fidare di lui, ma non me ne curai. Avevo il vestito umido, le scarpe bagnate, i capelli bagnai, la pelle gelida, tutt’intorno a me c’era gente che rabbrividiva, coi piedi in piccole pozze d’acqua e di fango, ma io cominciai a sudare per uno sforzo che stavo facendo senza rendermene conto; cominciai a sudare perché sentivo un gran caldo, e cominciai a sudare perché mi sentivo felice. Allora portavo i capelli divisi in due trecce, e le loro estremità posavano appena sotto le clavicole; tutta l’acqua che mi cadeva sui capelli si raccoglieva nelle mie trecce e vi scorreva come fossero due grondaie, e quindi mi colava attraverso il vestito appena sotto le clavicole e continuava a scorrermi giù per il petto, fermandosi soltanto dove le punte dei seni toccavano la stoffa, e rivelando i miei capezzoli con l’evidenza di una stampa ancora fresca. Lui mi guardava e parlava con un’altra, e la sua bocca si allargava e si restringeva, piccola e grande, e io volevo mi notasse, ma c’era tanto rumore: tutta la gente che sostava sotto la veranda per ripararsi dalla forte pioggia aveva qualche cosa da dire, non a proposito del tempo (questo ormai non richiedeva più nessun commento) ma qualcosa sulla propria vita, molto probabilmente sulle proprie delusioni, perché la gioia ha vita così breve che non c’è abbastanza tempo per soffermarsi sulla sua comparsa. Il rumore, che era cominciato come un brusio, si era trasformato in un alto clamore, e quell’alto clamore aveva un gusto sgradevole di metallo e di aceto, ma io sapevo che la sua bocca avrebbe potuto togliermi quel gusto, se solo fossi riuscita ad arrivarci; così gridai il mio nome, e fui certa che mi aveva sentito immediatamente, ma non smetteva di parlare con la donna, e allora dovetti gridare forte il mio nome diverse volte finché smise, e ormai il mio nome era come una catena che lo stringeva, così come la vista della sua bocca era una catena che stringeva me. E quando i nostri occhi si incontrarono ci mettemmo a ridere, perché eravamo felici, ma quella cosa faceva anche paura, perché con quell’occhiata ci eravamo domandati tutti: chi avrebbe tradito chi, chi era la preda e chi il cacciatore, chi avrebbe dato e chi avrebbe preso, che cosa avrei fatto. E quando i nostri occhi si incontrarono, e allo stesso tempo ci mettemmo a ridere, io dissi “Ti amo. Ti amo”, e lui disse “Lo so”. Non lo disse per vanità, non lo disse per presunzione, lo disse solo perché era vero.

Da Autobiografia di mia madre, Jamaica Kincaid, Adelphi, Fabula, 1997, trad. di David Mezzapa

La scrittrice dedica il libro a Derek Walcott.

l’uniforme

Lei (Karolina von Guenderrode): “Quel che pensiamo abbastanza a lungo e sovente non fa più nessuna paura”

Lui (Kleist): “Nessuno conosce una regione che ha attraversato soltanto in uniforme”

(…)

Ci sono uccelli qui che fra grida spaventose si levano improvvisamente in volo da un salice quando loro vi passano davanti.  La Guenderrode gli posa la mano sul braccio. Loro sanno che non vogliono essere toccati. Al tempo stesso provano un rimpianto, una pietà per il linguaggio represso dei loro corpi, una tristezza per l’addomesticamento precoce che l’uniforme e l’abito dell’ordine hanno imposto alle loro membra per la disciplina in nome del regolamento, per gli eccessi segreti in nome della sua trasgressione. Bisogna proprio essere fuori di sé per conoscere il desiderio di strapparsi gli abiti di dosso e di rotolarsi su questo prato?

(…)

Ciò che sappiamo desiderare deve essere alla portata delle nostre forze, pensava (K.) (…).

pp. 13, 21 e 95, Nessun luogo, da nessuna parte, Christa Wolf, Edizioni e/o, trad. di Maria Grazia Cocconi e Jan-Michael Sobottka

Verrà il giorno in cui donne e uomini si guarderanno fraternamente

Quali saranno i futuri, possibili modi, della convivenza uomo-donna, ciò che rimane vero, sostanziale, tormentoso, di tutto il suo (di de Rougemont) discorso, è la necessità di un contromodello per positivo rispetto al patologico modello per negativo su cui oggi ancora tanto inerzialmente viviamo.

Non a caso mi sembra di vedere affiorare questa speranza di vivere l’amore in uno slancio che, mentre lo coinvolge, va oltre il rapporto privato, supera l’individualismo, si dirige e impegna verso un rinnovamente totale dei rapporti fra gli uomini, un mutamento di civiltà. E come altrimenti potrà la donna inserirsi nella controproposta, apportando anch’essa all’invenzione e realizzazione positiva dell’amore le sue potenzialità finora inespresse?

Come, se non in un radicale mutamento di cultura, in un radicale congedo dal mito di Isotta e Tristano?
L’amore positivo, se si vuole veramente spezzato quell’egotismo chiuso che de Rougemont depreca, non può essere un ideale individualistico, una partita a due. Implica, invece, tutta una tensione etica, e anche una tensione verso un mito nuovo e diverso, le quali non possono certo oggi essere “ricaricate” all’interno del cristianesimo, legato a vecchi miti negativi, come quello della disuguaglianza originaria della donna; e compromesso, col cattolicesimo, nella politica procreatrice che nega l’amore in tutta la sua carnale e sensuale profondità e libertà; e tuttora compromesso, proprio sotto quest’aspetto, dal suo spiritualismo, dalla sua incombente e irrinunciabile, nozione del peccato e della repressione.

(…)

Ma solo, per intanto, e in attesa di un mutamento profondo sia delle strutture sociali che dei rapporti umani logori e ingiusti, solo una profonda tensione dell’essere verso questo mondo da realizzarsi può suggerire modalità positive dell’amore convissuto fra uomo e donna.

(…)

Un’altra voce a una donna ha detto, una voce tesa al futuro:

(…) Io credo che un giorno ti potrò dire ‘pane’ e tu capirai bene tutto ciò di cui è carica in me questa parola, perché io spero che quel giorno il nostro pane non sarà né magico, né mistico, né estetico, ma sarà quel pane che mangeremo tu ed io ogni volta che avremo fame. Io penso che questa sia la prima condizione per poter comunicare fra noi. La seconda, è mangiarlo insieme, questo pane…”

dall’introduzione di Armanda Guiducci a L’amore e l’occidente. Eros morte abbandono nella letteratura europea di Denis de Rougemont, Rizzoli, BUR

Io considero l’amore

Io considero l’amore, come pure l’amicizia, non solo come un sentimento ma come una vera azione, che come tale richiede di fare delle cose e di affaticarsi, con la conseguenza di essere esausti e impotenti.

Un amore sincero è come una benedizione, ritengo, benché nulla vieti che ci possano essere occasionalmente tempi duri.

Vincent Van Gogh in una lettera al fratello Theo dell’11 febbraio 1883

da Lettere a Theo, Guanda, 1990, a cura di Massimo Cescon, con un saggio introduttivo di Karl Jaspers